2024-04-17
Sul climate-change l’Europa abbaia ma non può mordere
La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo (Ansa)
La Corte di Strasburgo ha condannato la Svizzera per le emissioni. Solo che, accuse fumose a parte, non ha veri poteri sanzionatori.Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione«Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza». Questo è il testuale tenore dell’articolo 8, primo comma, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Difficilmente una persona di normale intelligenza, media cultura e comune buon senso potrebbe immaginare che uno Stato sia dichiarato responsabile della violazione di tale norma per non aver adottato le misure che, in base agli accordi internazionali, sarebbero necessarie per combattere il fenomeno del riscaldamento climatico a livello planetario. Eppure è proprio ciò che ha fatto la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sua sentenza del 9 aprile, pronunciata su ricorso promosso contro lo Stato elvetico da un’associazione avente come fine quello della tutela ambientale, in favore soprattutto dei propri aderenti, di età mediamente superiore ai 70 anni e, pertanto - si affermava - particolarmente esposti ai disagi ed ai pericoli per la salute derivanti dal riscaldamento climatico. In realtà la norma in questione, facente parte di quelle la cui formulazione risale al 1950, non aveva, all’origine, altro scopo se non quello di impedire interferenze della pubblica autorità che non fossero previste dalla legge, in una società democratica, per taluna delle finalità di pubblico interesse espressamente elencate nel secondo comma dello stesso articolo 8. Ma già in alcune pronunce degli anni trascorsi la Corte aveva esteso la nozione di «rispetto della vita privata» fino a comprendervi, in sostanza, la salvaguardia della qualità di vita di ogni soggetto nel suo proprio ambiente domestico, per cui, in presenza di situazioni che ne determinassero il deterioramento, poteva configurarsi una responsabilità risarcitoria dello Stato per averle create o per non averle impedite. Era stato il caso, ad esempio, degli eccessivi rumori prodotti dall’esercizio di attività aeroportuale (sentenza Hatton del 2003) e delle esalazioni mefitiche dovute a mancata raccolta di rifiuti (sentenza Di Sarno del 2012). Si trattava già di una estensione totalmente arbitraria della sfera di applicazione della norma, ma era almeno ancora osservato l’elementare principio di diritto per cui l’affermazione della responsabilità ed il conseguente obbligo risarcitorio in favore di qualcuno presuppongono che questo qualcuno abbia subito un danno la cui causa sia da individuare nella condotta, attiva od omissiva, posta in essere dal soggetto (nel nostro caso, lo Stato) che viene chiamato a risponderne. Ma con la sentenza del 9 aprile scorso anche questo principio appare travolto. La Corte, infatti, in questa occasione, nell’affermare la responsabilità dello Stato per violazione dell’articolo 8 della Convenzione, riconoscendo al tempo stesso che di essa sarebbe stata «vittima» l’associazione ricorrente - condizione necessaria, in base all’articolo 34 della stessa Convenzione, per la proposizione del ricorso - non ha fornito la benché minima indicazione su quale sarebbe stato il danno, effettivo o, almeno, potenziale, che la medesima associazione avrebbe subito in conseguenza di quella violazione. Il che appare tanto più contraddittorio in quanto, sempre con la stessa sentenza, la Corte ha, invece, giustamente escluso che potessero qualificarsi come «vittime» dell’asserita violazione dell’articolo 8 e avessero quindi titolo ad ottenere il risarcimento (definito come «equa soddisfazione») previsto dall’articolo 41 alcune singole persone fisiche che pure avevano fatto anch’esse ricorso adducendo di aver subito fastidi e danni alla salute a causa di ondate di calore verificatesi nel corso di stagioni estive addebitabili, secondo loro, al riscaldamento climatico. Ciò in quanto non era stato dimostrato che quei fastidi e danni costituissero conseguenza, diretta o indiretta, delle inadempienze addebitate, nella materia in questione, allo Stato elvetico. Potrebbe obiettarsi che, non avendo l’associazione ricorrente chiesto nulla a titolo di risarcimento del danno (tanto che le è stato riconosciuto solo il diritto alla rifusione delle spese processuali), sarebbe stato inutile accertare se e quale danno le fosse derivato dalla pretesa inadempienza di cui lo Stato si sarebbe reso responsabile. Ma così non è. Un tale accertamento sarebbe stato, infatti, comunque necessario giacché, in mancanza di esso, non potendosi definire «vittima» di un qualsiasi illecito chi non ne abbia avuto danno alcuno, l’associazione ricorrente sarebbe stata da considerare priva della qualità richiesta (come si è visto) per essere legittimata alla proposizione del ricorso che, pertanto, avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile. Appare dunque lecito desumere, a questo punto, che la Corte, forzando più di quanto avesse mai fatto in passato la chiara lettera dell’articolo 8 della Convenzione, sì da trasformarlo in una sorta di «passepartout» utilizzato per far saltare i limiti della propria competenza, abbia avuto di mira soltanto un obiettivo: quello, cioè, di avvalersi della propria presunta autorità per trasformare in indiscutibile dogma di fede la tesi (non da tutti condivisa, anche in ambito scientifico) che si sia in presenza di un’emergenza dovuta al riscaldamento climatico planetario di origine antropica e che, per farvi fronte, occorra attuare scrupolosamente il programma di riduzione delle emissioni dei c.d. «gas serra» previsto dagli accordi internazionali. Il che si traduce in un messaggio per tutti i partiti e movimenti politici che la pensino diversamente, perché siano avvertiti che qualunque loro progetto, anche se sostenuto da una maggioranza parlamentare e tradotto in norme di legge, dovrà misurarsi con l’ostacolo costituito dalla sua contrarietà alla Convenzione, quale interpretata dalla Corte. Non è detto, però, che tale ostacolo sia, per sua natura, insuperabile. La Corte non ha, infatti, né il potere né gli strumenti per eseguire le proprie sentenze, essendo solo previsto, dall’articolo 46 della Convenzione, che gravi sullo Stato interessato l’obbligo di conformarvisi, sotto la sorveglianza del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. E, a fronte di un’inadempienza da parte dello Stato interessato, sempre in base al citato articolo 46, spetta al Comitato decidere, con una maggioranza di due terzi, se investirne la Corte, la quale, a sua volta, se investita, potrà soltanto rinviare il caso allo stesso Comitato «affinché esamini i provvedimenti da adottare». Nulla si dice su quali possano tali provvedimenti e quali le conseguenze in caso di loro inosservanza. In buona sostanza, quindi, il se ed il come le decisioni della Corte possano trovare effettiva attuazione dipende soltanto dalla discrezionale e insindacabile volontà di un organo politico qual è il Comitato dei ministri. Di ciò sarebbe bene tenessero conto tanto gli assatanati della transizione energetica voluta da Bruxelles quanto coloro che, legittimi interpreti della volontà popolare, volessero democraticamente opporvisi.
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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