
Aizzata dal «Financial Times», la stampa italiana deplora la rinuncia americana «alla guida del capitalismo democratico» (Monti) e snobba la ricerca della pace. Riproponendo ricette inadeguate all’era multipolare.L’ouverture è targata Financial Times: in un recente editoriale, Edward Luce bacchettava l’establishment progressista americano, troppo timido nella difesa della democrazia dal tiranno Donald Trump. È stato il segnale per scatenare l’armata dei benpensanti: giornali, politici, opinionisti, esperti. Tutti nostalgici - dopo averla deplorata negli anni dei Bush alla Casa Bianca - dell’era in cui gli Stati Uniti erano i poliziotti del mondo e lo governavano con le buone o con le cattive: «coercizione, pagamento e attrattiva» è la trimurti individuata da Joseph Nye, politologo di Harvard intervistato ieri da Repubblica. Dalla quale, peraltro, abbiamo scoperto che Usaid non era un ente di beneficenza bensì, proprio come malignava il puzzone col ciuffo giallo, «un’importante fonte del soft power americano».la sfere d’influenzaDomenica, sul Corriere della Sera, l’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, ha biasimato la rinuncia di Washington a esercitare «la leadership del moderno capitalismo democratico» e la «governance multilaterale della globalizzazione». A In mezz’ora, su Rai 3, Paolo Gentiloni ha rincarato la dose: «C’è poco da scherzare con l’ordine mondiale. Grazie a quell’ordine, gli Stati Uniti sono stati forti finora. Se lo smonti il rischio è uscirne non più forti, ma più deboli. In un mondo lasciato alla logica del più forte, Trump rischia di faticare a dettare legge». È un dettaglio trascurabile se, per farlo, l’America ha dovuto combattere guerre inutili e sanguinose? Già dalla campagna in Corea, magari essenziale per evitare che il comunismo dilagasse, uscì con oltre 36.000 morti. Poi, quando sostituì al contenimento la sistematica interferenza nell’orbita sovietica, si impelagò in Vietnam. Infine, allorché ha provato a ridisegnare a sua immagine l’equilibrio del Medio Oriente, ha provocato i disastri dell’Afghanistan e dell’Iraq. La sinistra, che oggi rimpiange l’egemonia a stelle e strisce, benché in parte sia stata costruita a mano armata, all’epoca sventolava le bandiere della pace nelle piazze.Adesso, al contrario, la ricerca della pace finisce ridicolizzata. Bastava leggere ieri, sulla Stampa, la riflessione di Michael Walzer: al quotidiano torinese, il filosofo ha spiegato che in Ucraina bisogna scongiurare un «ritorno a Yalta», cioè alla vituperata logica delle sfere d’influenza. Peccato che, se non si riconoscono franchigie imperiali alle altre potenze, l’unica alternativa sia il conflitto permanente: una insidiosissima lotta per il primato planetario. Walzer se ne infischia e sbeffeggia i realisti, quelli che criticano il moralismo liberale in nome di un argomento altrettanto morale: l’«importanza della pace internazionale». Una quisquilia, eh? Non a caso Yalta, con tutti i suoi limiti e financo il suo cinismo, servì a porre fine a un massacro costato 60 milioni di morti. La contropartita, sì, fu la cortina di ferro; come ha sottolineato lo studioso sulla Stampa, il patto portò «brutalità, corruzione e incompetenza dei regimi autoritari» nell’Est. Ma quali possibilità diverse esistevano? La guerra contro l’Urss, che Altiero Spinelli considerava necessaria al «consolidamento» dell’Europa? Una pioggia di atomiche sulla Russia?il «dolce commercio»A onor del vero, va detto che i sostenitori del multilateralismo, quale variante à la page del globo unipolare, sono convinti che il loro ideale alimenti la cooperazione e la concordia internazionali. Ecco perché Sergio Mattarella ripropone la favola illuministica del «dolce commercio», rimedio alla soperchieria dei dazi trumpiani: «Commerci e interdipendenza», ha proclamato l’altro giorno, «sono elementi di garanzia della pace. I mercati aperti producono una fitta rete di collaborazioni che, nel comune interesse, proteggono la pace».La verità della globalizzazione, ancora difesa da Monti, è diversa: le «interdipendenze» sono diventate dipendenze dell’Occidente dal capitalismo autocratico. Ce ne siamo accorti quando abbiamo dovuto rinunciare al gas russo - con Mosca, i «mercati aperti» non hanno funzionato. E rimane aperta la questione dell’India e della Cina. Aver appaltato a Taiwan l’intera filiera dei processori, sulla quale si regge la civiltà contemporanea, ci rende drammaticamente vulnerabili a eventuali ricatti di Pechino. Mentre i colli di bottiglia nella supply chain dopo il Covid e l’impatto della rivolta yemenita sui traffici nel Mar Rosso dovrebbero aver dimostrato la fragilità della «rete di collaborazioni» che, stando all’inquilino del Quirinale, offrirebbe invece un antidoto alle prepotenze di Trump.Il gruppo politico di Emmanuel Macron, assurto a capofila dei custodi dello scricchiolante ordine liberale, ieri ha accostato la Cina e la Russia all’America del tycoon, «che scivola», ha lamentato Renew, «verso l’oligarchia e la plutocrazia». Sarà per non fare la stessa fine che in Europa celebrano il piano Merz per il riarmo tedesco? È così che si salva il capitalismo democratico? Battezzando un nuovo complesso militare-industriale?
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.