
Kamala Harris ha annunciato la propria candidatura alla nomination democratica. Si tratta della quarta discesa in campo, dopo la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, la deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbard, e l’ex segretario allo Sviluppo Urbano, Julian Castro.Da sempre vicina alle posizioni dell’area liberal del Partito democratico, la Harris è una pasionaria divenuta nota per lo spirito agguerrito con cui ha portato avanti numerose delle proprie battaglie politiche. Battaglie tendenzialmente molto vicine alla sinistra dell’Asinello: non solo si colloca su posizioni radicalmente pro-choice ma è anche una sostenitrice della legalizzazione della cannabis. Ha avversato duramente la defiscalizzazione approvata dai repubblicani nel 2017, mentre si è sempre contraddistinta come fiera oppositrice della linea dura di Trump in materia di immigrazione. In particolare, ha enormemente accresciuto la sua popolarità tra la base liberal quando - a settembre del 2018 - guidò l’opposizione democratica al Senato contro la ratifica della nomina del giudice conservatore, Brett Kavanaugh, accusato di molestie sessuali. Da allora, è diventata una sorta di paladina per buona parte dell’elettorato di sinistra, che la considera un baluardo del progressismo contro il presunto oscurantismo incarnato dai repubblicani. Del resto, già da tempo certa stampa statunitense non fa che celebrarla in questo senso. Eppure, al di là di certe vulgate un po’ semplicistiche, non sono pochi i problemi che si stagliano all’orizzonte. Innanzitutto bisogna capire quanto un profilo come quello della Harris possa riuscire ad emergere in seno a una competizione elettorale – quella democratica – che si annuncia affollata e rissosa. Nonostante abbia infatti spesso mostrato una certa abilità nel catturare attenzione mediatica, il suo modo di fare politica non risulta esente da profondi difetti. Si tratta di una figura che predilige tendenzialmente battaglie settarie e barricadiere: un elemento che può magari tornare utile in sede di elezioni primarie ma che - di contro - si rivela generalmente controproducente durante la corsa per le presidenziali. Senza poi dimenticare un ulteriore (fondamentale) dettaglio: in numerosi Stati, il Partito democratico pare sia intenzionato a sostituire i caucus (le assemblee ristrette degli iscritti al partito, che di solito favoriscono i candidati radicali) con il sistema delle primarie aperte (molto più amichevole verso i candidati trasversali). Una novità che potrebbe azzoppare un profilo ideologizzato come quello della Harris. Certo: dalla sua c'è il fatto che venga da un territorio elettoralmente di peso come la California. Ma - vista la sua indole - non è detto che questo basti a farle conquistare la nomination e - men che meno - la Casa Bianca. Non dimentichiamo infatti che sia Bush nel 2004 che Trump nel 2016 abbiano vinto le presidenziali avendo contro il Golden State.Inoltre, c'è un problema più complesso e ben più profondo della semplice geografia elettorale. Ed è un problema che chiama direttamente in causa il fanatismo crescente che sta sempre più caratterizzando ampi settori della società americana. Fanatismo che un certo giornalismo vorrebbe esclusivamente confinato alle aree dell'estrema destra. Ma che, da anni, si sta facendo largo invece anche a sinistra. Fanatismo di cui la Harris si è fatta assai spesso portavoce. Aizzando una base elettorale spesso invasata, nel più totale dispregio del rispetto e dello stesso buon senso.Come accennato, in occasione del processo di ratifica della nomina di Kavanaugh, la senatrice californiana si è intestata una battaglia completamente ideologica che, anziché partire dalla pacata analisi dei fatti, ha prodotto un'opposizione cieca e furente. Il tutto basandosi sull'accettazione acritica di "prove", che si sono risolte poi in una bolla di sapone. Ma non è tutto. Perché, poche settimane fa, la senatrice ha dato ulteriore manifestazione di questo suo spirito "particolare". Durante le audizioni al Senato per la conferma di un altro giudice federale (nominato da Trump), la Harris gli ha contestato di appartenere all'associazione cattolica dei Cavalieri di Colombo. Un'associazione che - a detta della senatrice - vieterebbe alle donne la libertà di scelta sull'interruzione di gravidanza. Il cosa ha - neanche a dirlo - suscitato reazioni polemiche (anche da parte della sua compagna di partito, Tulsi Gabbard). Un fatto evidentemente grave. Che non dimostra solo ignoranza (sia John che Ted Kennedy, tanto per dire, appartenevano ai Cavalieri di Colombo). Ma anche un'intolleranza crescente in seno a determinati settori dell'universo liberal americano: un'intolleranza che, da anni, si scaglia contro confessioni religiose, classici della letteratura, uomini storici del passato. Un'intolleranza che non mira alla comprensione della complessità storica ma che aggredisce, con furia iconoclasta, tutto ciò che non si conformi pedissequamente ai rigidi e mortiferi schemi del politically correct. Si inneggia così all' abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, si censurano i libri di Mark Twain, si decreta la damnatio memoriae di ex presidenti come Woodrow Wilson. Ecco: è di questo pericoloso andazzo che si nutrono figure politiche come quella di Kamala Harris. Un elemento inquietante. Ma tanto si sa. È soltanto Trump quello che solletica la pancia degli invasati.
(IStock)
Il tentativo politico di spacciare come certa la colpevolezza dell’uomo per i problemi del globo è sprovvisto di basi solide. Chi svela queste lacune viene escluso dal dibattito.
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto della prefazione di Alberto Prestininzi al libro di Franco Battaglia, Guus Berkhout e Nicola Cafetta dal titolo «Clima, lasciamo parlare i dati» (21mo secolo, 228 pagine, 20 euro).
2025-11-28
La Cop30 fa solo danni. Nasce l’Inquisizione per chi non si allinea all’allarme sul clima
(Ansa)
L’Unesco crea un tribunale della verità sulla salute del pianeta. Parigi entusiasta e Ong in prima fila nella caccia al negazionista.
Mentre si smantellano le scenografie della sudata e inconcludente Cop30 di Belém, dal polverone emerge l’ennesima trovata antiliberale. L’Iniziativa globale per l’integrità delle informazioni sui cambiamenti climatici (sic), nata qualche mese fa da una trovata dell’Unesco, del governo brasiliano e delle Nazioni Unite, ha lanciato il 12 novembre la Dichiarazione sull’integrità delle informazioni sui cambiamenti climatici, stabilendo «impegni internazionali condivisi per affrontare la disinformazione sul clima e promuovere informazioni accurate e basate su prove concrete sulle questioni climatiche». Sul sito dell’Unesco si legge che l’iniziativa nasce «per contribuire a indagare, denunciare e smantellare la disinformazione relativa ai cambiamenti climatici, nonché a diffondere i risultati della ricerca».
L'Assemblea Nazionale Francese (Ansa)
L’Assemblea nazionale transalpina boccia all’unanimità l’accordo di libero scambio tra Ue e Sudamerica che nuoce agli agricoltori. Spaccatura nell’Unione e pressing della Commissione in vista della ratifica entro Natale. L’Italia, per una volta, può seguire Parigi.
Ogni giorno per Ursula von der Leyen ha la sua croce. Ieri non è stato il Parlamento europeo, che due giorni fa l’ha di fatto messa in minoranza, a darle un dispiacere, ma quello francese. L’Assemblée national ha votato praticamente all’unanimità una mozione che impegna il governo a bloccare qualsiasi trattativa sul Mercosur. Questa presa di posizione ha una tripla valenza: è contro Emmanuel Macron, che pur di salvare la faccia essendosi intestato «i volenterosi», deve farsi vedere ipereuropeista e dopo anni e anni di netta opposizione francese al trattato commerciale con Argentina, Brasile, Paraguay , Uruguay, Bolivia, Cile, Perù, Colombia, Ecuador, ha sostenuto che Parigi era pronta a dare il via libera; è un voto contro l’Europa dove già i Verdi all’Eurocamera si sono schierati apertamente per bloccare l’intesa al punto da inviare l’accordo al giudizio della Corte di giustizia europea; è un voto a salvaguardia degli interessi nazionali transalpini a cominciare da quelli degli agricoltori e delle piccole imprese.
«Stranger Things 5» (Netflix)
L’ultima stagione di Stranger Things intreccia nostalgia anni Ottanta e toni più cupi: Hawkins è militarizzata, il Sottosopra invade la realtà e Vecna tiene la città in ostaggio. Solo ritrovando lo spirito dell’infanzia il gruppo può tentare l’ultima sfida.
C'è un che di dissonante, nelle prime immagini di Stranger Things 5: i sorrisi dei ragazzi, quei Goonies del nuovo millennio, la loro leggerezza, nel contrasto aperto con la militarizzazione della cittadina che hanno sempre considerato casa. Il volume finale della serie Netflix, in arrivo sulla piattaforma giovedì 27 novembre, sembra aver voluto tener fede allo spirito iniziale, alla magia degli anni Ottanta, alla nostalgia sottile per un'epoca ormai persa, per l'ottimismo e il pensiero positivo.






