
George Weigel contesta all’argentino il disinteresse per le comunità capaci di custodire la fede.«Il prossimo pontificato dovrà comprendere ciò che a papa Francesco è sfuggito: le comunità cristiane con una identità forte convertono, quelle con una identità debole muoiono». Se non pietre, sono comunque parole molto forti, quelle che George Weigel - intellettuale cattolico statunitense di peso - ha affidato a una riflessione pubblicata in questi giorni sulla rivista First Things con il titolo che, tradotto in italiano, recita: «Retrospettiva su un pontificato». In effetti, quella operata dallo scrittore americano - autore di Witness to Hope, una fortunata biografia di papa Giovanni Paolo II - è una panoramica sui dodici anni di pontificato di Bergoglio. Weigel, che certo non ha la fama di progressista, non parla però da nemico di papa Francesco, che al contrario riferisce di aver incontrato di persona più volte. Nella sua «retrospettiva», l’intellettuale pone l’accento su almeno due elementi particolarmente interessanti. Il primo riguarda un aspetto ben noto a molti vaticanisti, e cioè il fatto che, fino a quando fu eletto al soglio pontificio, chi fosse realmente Jorge Mario Bergoglio - cioè quali idee e temperamento realmente avesse - non era chiaro a molti; con ogni probabilità neppure, per quanto possa suonare singolare, a molti cardinali che l’hanno poi votato conclave.«Lo descrivevano come un riformatore ortodosso, tenace e coraggioso», ricorda infatti Weigel, «che avrebbe ripulito il Vaticano mantenendo la linea teologica e pastorale che aveva guidato la Chiesa fin dall’elezione di Giovanni Paolo II nel 1978: un’ortodossia dinamica al servizio di una proclamazione rivitalizzata del Vangelo, in un mondo che aveva un disperato bisogno della testimonianza e della carità di una Chiesa di discepoli missionari». Dodici anni dopo non è azzardato definire quelle impressioni come del tutto fuorvianti. «Non è esattamente questo che accadde nei dodici anni successivi», commenta infatti l’autore di Witness to Hope, il quale si sbilancia tuttavia anche in una valutazione su quello che, a suo dire, dovrà tener ben presente il prossimo Papa.Secondo Weigel, infatti, al pontefice argentino è sfuggito un aspetto fondamentale, sotto il profilo dell’evangelizzazione, e cioè che a essere determinanti per il presente - ma in realtà anche per il futuro della Chiesa - sono proprio quei settori del mondo cristiano con una identità forte che, negli ultimi dodici anni, non è che abbiano goduto di particolari trattamenti di favore dalla Santa Sede; per usare un eufemismo. Ma diamo la parola direttamente all’intellettuale statunitense. «Il prossimo pontificato dovrà comprendere ciò che il pontificato di Francesco sembra non aver afferrato», osserva Weigel, aggiungendo che «le comunità cristiane che mantengono una chiara comprensione della propria identità e dei propri confini dottrinali e morali non solo possono sopravvivere alla postmodernità, ma hanno anche la possibilità di convertire il mondo postmoderno».«Al contrario», continua l’intellettuale, «le comunità cristiane la cui identità diviene incoerente, i cui confini diventano porosi e che rispecchiano la cultura anziché cercare di convertirla, appassiscono e muoiono». Parole forti, che meritano una riflessione. Sì, perché questa valutazione contenuta nella «retrospettiva» weigeliana è sociologicamente vera: i gruppi cattolici più identitari sono quelli che non solo resistono meglio al vento della secolarizzazione, ma generano più figli, li intrudono meglio alla fede, eccetera. Viceversa, i gruppi più progressisti tendono a sfaldarsi… Ma nella Chiesa - e nel collegio cardinalizio - siamo sicuri che oggi siano l’evangelizzazione e la conversione la priorità, e non un perenne e non si sa quanto fecondo «dialogo» col mondo? Alla fine, la questione è tutta qui.
L'ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone (Ansa)
L’ammiraglio Cavo Dragone, capo militare: «Dovremmo essere più aggressivi con Mosca, cyberattacchi per scongiurare imboscate». Ma l’Organizzazione ha scopi difensivi: questa sarebbe una forzatura. Con il rischio che dal conflitto ibrido si passi a quello coi missili.
«Attacco preventivo». L’avevamo già sentito ai tempi dell’Iraq e non andò benissimo. Eppure, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare Nato, ha riproposto uno dei capisaldi della dottrina Bush in un’intervista al Financial Times. Si riferiva alla possibilità di adottare una strategia «più aggressiva» con la Russia. Beninteso, l’ipotesi verteva su un’offensiva cyber: «Stiamo studiando tutto sul fronte informatico», ha spiegato il militare.
Rocca Salimbeni, sede del Monte dei Paschi di Siena (Ansa)
I magistrati sostengono che chi ha conquistato l’istituto si è messo d’accordo su cosa fare. Ma questo era sotto gli occhi di tutti, senza bisogno di intercettazioni. E se anche il governo avesse fatto il tifo, nulla cambierebbe: neanche un euro pubblico è stato speso.
Ma davvero qualcuno immaginava che il gruppo Caltagirone, quello fondato da Leonardo Del Vecchio e alla cui guida oggi c’è Francesco Milleri, uniti al Monte dei Paschi di Siena di cui è amministratore Luigi Lovaglio, non si fossero mossi di concerto per conquistare Mediobanca? Sì, certo, spiare dal buco della serratura, ovvero leggere i messaggi che i vertici di società quotate si sono scambiati nei mesi scorsi, è molto divertente. Anche perché come in qualsiasi conversazione privata ci sono giudizi tranchant, alcuni dei quali sono molto gustosi.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Fu il primo azzurro a conquistare uno Slam, al Roland Garros del 1959. Poi nel 1976, da capitano non giocatore, guidò il team con Bertolucci e Panatta che ci regalò la Davis. Il babbo era in prigionia a Tunisi, ma aveva un campo: da bimbo scoprì così il gioco.
La leggenda dei gesti bianchi. Il patriarca del tennis. Il primo italiano a vincere uno slam, il Roland Garros di Parigi nel 1959, bissato l’anno dopo. Se n’è andato con il suo carisma, la sua ironia e la sua autostima Nicola Pietrangeli: aveva 92 anni. Da capitano non giocatore guidò la spedizione in Cile di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli che nel 1976 ci regalò la prima storica Coppa Davis. Oltre a Parigi, vinse due volte gli Internazionali di Roma e tre volte il torneo di Montecarlo. In totale, conquistò 67 titoli, issandosi al terzo posto della classifica mondiale (all’epoca i calcoli erano piuttosto artigianali). Nessuno potrà togliergli il record di partecipazioni (164, tra singolo e doppio) e vittorie (120) in Coppa Davis perché oggi si disputano molti meno match.
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Il presidente Gianni Tessari: «Abbiamo creato una nuova Doc per valorizzare meglio il territorio. Avremo due etichette, una per i vini rifermentati in autoclave e l’altra per quelli prodotti con metodo classico».
Si è tenuto la settimana scorsa all’Hotel Crowne Plaza di Verona Durello & Friends, la manifestazione, giunta alla sua 23esima edizione, organizzata dal Consorzio di Tutela Vini Lessini Durello, nato giusto 25 anni fa, nel novembre del 2000, per valorizzare le denominazioni da esso gestite insieme con altri vini amici. L’area di pertinenza del Consorzio è di circa 600 ettari, vitati a uva Durella, distribuiti sulla fascia pedemontana dei suggestivi monti della Lessinia, tra Verona e Vicenza, in Veneto; attualmente, le aziende associate al Consorzio di tutela sono 34.






