
Vengono rallentati e intralciati il miglioramento delle conoscenze e il processo critico di cui si nutre la ricerca. Cosa può capitare quando si vogliono dominare le nozioni e le pratiche scientifiche? Basta leggere Aldous Huxley.Nel commentare il controverso «Patto per la scienza» firmato da Beppe Grillo e Matteo Renzi sotto gli auspici del professor Roberto Burioni, Ivan Cavicchi, docente di sociologia delle organizzazioni sanitarie e filosofia della medicina a Tor Vergata, ha scritto che l'idea di scienza che vi si esprime è «vecchia e superata», «un rottame d'altri tempi che nonostante ciò ha la pretesa di proporsi come metafisica, cioè valore assoluto, incontestabile, autoritario e impositivo».In effetti, in quel breve testo si chiede ai politici firmatari un impegno duplice e contraddittorio: da un lato di elevare la scienza a «valore universale di progresso dell'umanità» (intento lodevole ma inutile, non essendovi alcuno che abbia mai affermato il contrario), dall'altro di non prestarsi «a sostenere o tollerare in alcun modo forme di pseudoscienza e/o di pseudomedicina che mettono a repentaglio la salute pubblica» e, quindi, di «fermare l'operato di quegli pseudoscienziati che con affermazioni non dimostrate e allarmiste creano paure ingiustificate tra la popolazione nei confronti di presidi terapeutici validati dall'evidenza scientifica e medica» (come se la scienza si riducesse solo alla medicina e alla salute pubblica, tra l'altro).La contraddizione del messaggio risiede evidentemente nel fatto che il rispetto della scienza come «valore universale di progresso» non può coniugarsi con il suo assoggettamento a forze politiche che ne censurino i risultati o ne fermino i protagonisti. Se il principio di autorità è estraneo al metodo scientifico, tanto più deve esserlo quando si dota degli strumenti repressivi di uno Stato. Molte delle nozioni e pratiche scientifiche oggi riconosciute sono state, in qualche momento della storia, eterodosse perché nuove e non suffragate dalle esperienze successive. Viceversa, altrettante convinzioni un tempo «ufficiali» (si pensi ai tanti farmaci ritirati dal commercio, o a certi interventi chirurgici di routine ora raccomandati solo in casi eccezionali) oggi non sono più accettate grazie alla ricerca di chi ha rimesso in discussione le posizioni dominanti. Qualora fosse avvenuta anni fa, l'entrata a gamba tesa della politica nel mondo scientifico e il suo ergersi a gendarme di una parte o dell'altra del dibattito (inevitabilmente, la più forte) avrebbe rallentato e intralciato il miglioramento delle conoscenze e il processo critico di cui si nutre la ricerca, fino ad arrestarli.All'analisi di questa contraddizione ho dedicato buona parte di Immunità di legge, il libro che ho scritto nel 2018 con Pier Paolo Dal Monte sul tema delle vaccinazioni obbligatorie (a cui il «Patto», al netto dei suoi voli pindarici, allude palesemente fin dai curricula dei suoi proponenti). Lì, già nel sottotitolo, suggerivo che la velleità di mettere «la scienza al governo» avrebbe comportato il «governo - cioè la riduzione in servitù - della scienza» da parte del potere politico, per imporre obiettivi di natura prettamente politica. «Mentre giura di mettersi al servizio della scienza e delle sue certezze», scrivevo, «la politica ne stravolge il senso per avvalorare i propri decreti. Nei fatti, accade quindi che è invece il metodo scientifico a doversi piegare agli obiettivi di chi governa, sicché l'invito a “votare la scienza" si rivela essere tutt'altro: un attacco di tipo opportunistico con cui i decisori politici usurpano l'autorevolezza faticosamente maturata nei secoli dal discorso scientifico per farla propria e ammantarsi della sua luce riflessa».L'idea non è nuova. Né è nuova l'intuizione degli effetti oppressivi, distopici e pericolosi di questo falso inchino alla scienza per poterla disciplinare e reprimere. Nel 1932 lo scrittore e intellettuale inglese Aldous Huxley, già professore di francese di George Orwell a Eton, pubblicava il suo romanzo più famoso: Il mondo nuovo (Brave new world). In quel racconto l'autore immaginava un futuro in cui gli esseri umani sono prodotti in laboratorio, le caste sociali sono geneticamente determinate fin dalla nascita e non esistono più né famiglia né religione né vecchiaia, perché la morte è imposta a tutti al compimento dei sessant'anni di età, per eutanasia (idea poi ripresa da Jacques Attali in una famosa intervista del 1981, dove predisse che sarebbe stata una «regola della società futura»). Nel «mondo nuovo» le persone vivono in pace e coltivano una sorta di felicità o spensieratezza grazie al progresso tecnologico e sanitario, alla libertà sessuale incoraggiata fin dalla prima infanzia, a un incessante indottrinamento morale e, soprattutto, all'uso del soma, una droga sintetica priva di effetti collaterali che provoca benessere e oblio, fornita gratuitamente dallo Stato.Dopo varie peripezie, i tre protagonisti del romanzo - il timido e complessato Bernard, il letterato Helmholtz e il «selvaggio» John prelevato da una riserva del Centro America - sono tratti in arresto per avere attentato all'ordine sociale distruggendo grandi quantità di soma, e finiscono al cospetto del governatore dell'Europa Occidentale, Mustapha Mond. Uomo di profonda cultura e saggezza, Mond si intrattiene con loro prima di mandarli in esilio e spiega loro i delicati equilibri su cui si regge il «mondo nuovo». Non solo l'arte, dice, deve essere repressa in quanto fonte di emozioni e interrogativi che minerebbero la serenità degli individui, ma anche la scienza: «La scienza è pericolosa. Noi dobbiamo tenerla con la massima cura incatenata, e con tanto di museruola».Helmholtz reagisce sbalordito. «Come! Ma noi diciamo sempre che la scienza è tutto. È un ritornello ipnopedico». Che, aggiunge Bernard, va ripetuto «tre volte alla settimana, dai tredici ai diciassette anni». E poi, «tutta quella propaganda scientifica che facciamo all'università...».«Sì, ma quale scienza?» chiede Mond. «Io ero un ottimo fisico, ai miei tempi. Troppo bravo, bravo quanto basta per rendermi conto che tutta la nostra scienza è una specie di ricettario, con una teoria culinaria ortodossa che nessuno ha il diritto di mettere in dubbio, e una lista di ricette alla quale non si deve aggiungere nulla eccetto che dietro permesso speciale del capocuoco. Adesso il capocuoco sono io. Ma una volta io ero un giovane sguattero curioso. Mi misi a fare un po' di cucina a modo mio. Cucina eterodossa, cucina illecita. Un po' di scienza reale, insomma».«E poi che cosa accadde?» chiede Helmholtz.«Più o meno ciò che sta per accadere a voi giovanotti. Sono stato sul punto di essere spedito in un'isola».Sarebbe superfluo chiosare questo passaggio che, rispetto al «Patto» burioniano, ha solo il pregio di un'esposizione letteraria migliore e di una consapevolezza didascalica che manca alla sua più moderna versione «notarile». Già negli anni Trenta era chiaro all'autore che il culto ossessivo e ritornellante della scienza («è tutto») non è solo compatibile con la sua repressione di Stato, ma serve anzi a sostituirla con una sua versione più addomesticata e puerile («quale scienza?»). Che cioè, per chi vuole dominare senza opposizioni, la scienza è una risorsa troppo potente - e troppo democratica - per essere lasciata agli scienziati.
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