
L'ad Michele Ciocca che ha rilevato con la famiglia la storica griffe d'eccellenza: «Ho lasciato il mio lavoro nella finanza per seguire il progetto».La storia come denominatore comune. Le calze come segno del destino. Da una parte Ciocca, azienda milanese nata nel 1912 fondata da quel Luigi Ciocca che portò il suo marchio di calze perfino sulle pagine del New York Times. Dall'altra Drumohr, il famoso brand del «biscottino», nome di origine scozzese che prende vita grazie a James Paterson che nel 1770 fonda l'azienda nel Dumfries, a Sud delle Highlands, dove scorrono acque ricche di calcio che danno al cashmere una particolare morbidezza. E che produceva non solo maglieria ma anche calze dato che si usavano gli stessi telai. Si dovrà aspettare il Duemila prima che Ciocca acquisti definitivamente Drumohr ma nel tempo nulla è cambiato: qualità, tradizione, fattura pregiata restano nel Dna. Obbligatorio fare qualche passo indietro per capire la costanza e la tenacia dell'imprenditoria italiana e come certi capitani d'industria abbiano precorso i tempi, creando un'azienda Paese che ha consentito a un intero territorio di conoscere una realtà diversa dalla campagna. Perché Ciocca, da Milano, arrivò nella allora sperduta provincia di Brescia.«Nel 1919, il mio bisnonno decise di trasferire l'unità produttiva a Quinzano d'Oglio», spiega Michele Ciocca, ad di Drumohr, «Scelse un paese dove non c'era nemmeno il treno che rischiava di portare progresso mentre lui voleva stare tranquillo. Parliamo di una zona agricola dove i mariti andavano a lavorare in campagna e le mogli restavano a casa. Dopo la seconda guerra mondiale è stata per noi un bacino di mano d'opera molto importante che ci ha permesso di crescere. Quinzano, Verolanuova, Borgo San Giacomo: davamo lavoro a quasi tutte le persone del territorio». Tantissimi i racconti, gli aneddoti di un'azienda vicina ai 110 anni di vita.«Innumerevoli le storie di mio padre Luigi. Si toccò con mano la prima emancipazione femminile perché lavorando le donne portavano a casa i soldi e spesso guadagnavano più dei fratelli e dei mariti ancora impegnati in campagna. Erano più libere e indipendenti grazie a un'autonomia economica. Non solo. Mio nonno Giuseppe era solito andare in vacanza a Cortina e per questo organizzava là anche il campeggio per gli operai che portava con sé. Dormiva pure in tenda con loro. Ma al primo sciopero si offese talmente tanto che non andò più in sala macchine».Lei rappresenta la quarta generazione: il testimone è passato di padre in figlio.«Dal bisnonno Luigi, al nonno Giuseppe, a mio padre Luigi e ai suoi fratelli, finché mio padre nel 2016 rilevò tutte le quote. Oggi siamo mio padre, io e mio fratello Filippo che si occupa in prima persona di Ciocca. Ho due figlie ancora piccole che si spera rappresentino la quinta generazione». Oggi l'azienda Ciocca cosa rappresenta?«È la parte più strutturata e ramificata. La produzione è sempre di calze ma in parte le importiamo e le commercializziamo perché le possiamo vendere a un prezzo medio di 1,5 euro nella grande distribuzione e all'ingrosso. Parliamo di 7 milioni di calze all'anno distribuite in tutto il mondo, principalmente in Italia, unico Paese dove si portano le calze alte da uomo».Come arriva Drumohr nella vostra galassia?«Avendo spazio e mano d'opera ci spiaceva lasciare a casa delle persone. Strutture pagate, 30.000 metri quadri coperti, 150 operai, pensando che 40 anni fa se ne contavano 750. Senza mai licenziare nessuno perché ogni anno ne andavano in pensione 30/40 rimpiazzati dalle tecnologie visto che con l'industrializzazione serviva meno mano d'opera. Avevamo grandi macchinari da sfruttare. Dal 2000 abbiamo cercato di diversificare con progetti di nicchia più alti che permettessero al made in Italy di rimanere nelle nostre corde. Nel 2003 abbiamo affittato il marchio storico scozzese da una finanziaria che a cavallo del 2000 lo aveva acquisito, tenendolo nel cassetto. In quel momento ero a Londra e lavoravo nella finanza, ma ho mollato per seguire questo nuovo progetto».Drumohr, in pratica, l'ha riportata in azienda.«Sì, me ne interessavo a distanza ma capivo che era quella la strada. Nel 2006 la finanziaria fallisce e con Maurizio Marinella, che però da due anni è uscito rimanendo un estimatore, abbiamo comprato il marchio. Abbiamo iniziato con un passo diverso portando la produzione all'interno con un grosso sforzo sia da un punto di vista industriale sia di formazione delle maestranze. Un grande investimento da parte loro nell'applicarsi a imparare un nuovo mestiere e da parte nostra con macchinari speciali per creare una nicchia di eccellenza. In Italia abbiamo una cinquantina di macchine particolari perché l'idea è fare cose che gli altri non fanno. In Scozia non è rimasto nulla, nei primi due anni abbiamo recuperato i vecchi macchinari. Vogliamo unire creatività e unicità italiane con la tradizione scozzese».Come si diversifica la produzione?«L'uomo rappresenta l'80% e la collezione donna sta crescendo. Drumohr, d'altronde, è conosciuto in tutto il mondo per la sua storia al maschile. Abbiamo la lettera di Carlo e Diana e dei duchi di Norvegia. In Italia l'avvocato Agnelli era solito ordinare le sue varianti di colore».Mercati?«Abbiamo 350 clienti nel mondo. E cinque punti vendita diretti: Milano, Torino Forte dei Marmi, Alassio e Saint Moritz. In Giappone, che rappresenta il 30-35% delle vendite, contiamo due shop in shop. E poi Corea, Usa, che guardiamo con molto interesse, e Nord Europa. Puntiamo anche su Londra ma ci sono ancora incertezze. Asia e Italia rappresentano l'80%. Il mercato nostrano, con tutti i suoi problemi, vale il 45%. L'epidemia in Cina sta creando problemi. Non siamo molto presenti lì perché siamo un prodotto di nicchia ma ne risentiamo in Giappone dove il turismo è fermo e i grandi magazzini hanno cali di fatturato. La gente esce meno, c'è il panico».
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