2025-10-06
Compagni che sbagliano? No, maranza che sfasciano
Di fronte ai disastri di venerdì e sabato, Cofferati e Landini ripetono la cantilena degli esagitati che rovinano gli ideali o degli infiltrati. Tutto pur di negare il problema: l’asse tra sinistra movimentista e immigrati violenti.Siamo alle solite. Ogni volta che una manifestazione sfocia in violenza, a sinistra trovano la giustificazione. O sono compagni che sbagliano, cioè militanti che partendo da una buona causa si fanno prendere la mano per l’esasperazione dovuta alla mancata soluzione dei loro problemi. Oppure sono agenti provocatori, ovvero agitatori travestiti da compagni, usati dai governi per indebolire le ragioni di chi protesta. Mai una volta che qualcuno riconosca di aver allevato una generazione di guastatori, di militanti nutriti con le vitamine dell’odio, che poi mettono in pratica gli insegnamenti ricevuti. In passato sappiamo come è finita. A forza di educare i giovani al mito della rivoluzione perduta, qualcuno ha deciso di mettersi alla ricerca e lo ha fatto usando le armi che i vecchi partigiani avevano nascosto nei fienili. Oggi, di fronte agli scontri in nome della Palestina, invece di riconoscere il pericolo di una saldatura fra movimenti violenti e una generazione di immigrati di seconda generazione che può sfociare in qualche cosa di molto pericoloso, ancora siamo al pippone sociologico, rifiutando di comprendere come le manifestazioni pro Gaza siano benzina per gruppi che mirano alla rivolta per la rivolta, senza nessuna possibilità di essere incanalati in qualche cosa che abbia l’apparenza di un democratico dissenso.Mi hanno colpito in particolare le dichiarazioni di un ex leader sindacale come Sergio Cofferati, il quale, invece di dire chiaro e tondo che la protesta radicale contro Israele contiene i semi della violenza, si sforza di dare una lettura politica dei fatti. Alla richiesta di spiegare chi ci sia dietro alle manifestazioni, il fu segretario della Cgil sostiene che «la molla è l’indignazione per quel che sta accadendo, è un anelito di pace». E di che anelito pacifista si trattasse lo abbiamo visto con le sassaiole e le auto incendiate. Ma questo sentimento secondo l’uomo dei tre milioni in piazza «si manifesta in forme spontanee. La mobilitazione non nasce da una piattaforma o da una dimensione politica in senso classico, se non in parte. Vale per quella di venerdì e ancor più per quella di sabato, che ha tratti di radicalità e di disordine ancor più marcati». Dunque? Per Cofferati sembra che le motivazioni di comportamenti che definisce con «tratti di radicalità e disordine» siano comunque nobili, cioè da comprendere e non invece, come è di tutta evidenza, da reprimere nel modo più assoluto. «Qui non c’entra il Vietnam, dove la protesta aveva un forte connotato politico-ideologico: l’imperialismo americano. Né Porto Alegre, che aveva un focus contro la globalizzazione e una struttura organizzativa. Né le nostre mobilitazioni su obiettivi politici e sindacali. Ricorrere ad antiche categorie è un po’ come usare Internet per leggere il Novecento. Rischi di non capire». A dire il vero, si fa più fatica a capire le chiacchiere dell’ex leader sindacale che quanto è successo. Basta infatti parlare con qualche rappresentante delle forze dell’ordine per comprendere che in nome della Palestina si stanno saldando gli interessi di bande di rivoltosi cresciute a sinistra con i maranza di seconda generazione. Esponenti dei centri sociali a braccetto con gang di extracomunitari. Un mix esplosivo a cui in nome di Gaza si è fornita la giustificazione per una rivolta. Non contro Israele, ma contro lo Stato democratico, identificato in Giorgia Meloni. Invece di riconoscere il fenomeno, con i rischi che comporta, il compagno Cofferati si esercita nelle speculazioni sociologiche. «Sono più movimenti politicamente informi. Non è un giudizio, ma un dato di fatto. Infatti sono movimenti che non hanno un’organizzazione e magari non vogliono neanche darsela. Per questo il tema oggi diventa proprio questo: a chi spetta dare una forma politica al sentimento e come farla». Sì, siamo ancora all’idea che la sinistra debba rappresentare una buona causa e dare forma alla protesta. «Qui c’è la sfida vera. Non c’è dubbio: quelli sollevati - la guerra, i diritti - sono temi che dovrebbero riguardare la politica. Aggiungo: la grande politica. E invece, in questo caso, la politica è arrivata dopo la dimensione sociale». Non una parola sulle bande criminali. Non un accenno a una politica che ha soffiato e soffia sul fuoco, dando giustificazione morale a gang di antagonisti e migranti. La violenza, per Cofferati e compagni, va condannata, ma più perché sporca le ragioni di chi manifesta e riduce il consenso intorno al tema «alimentando il riflesso d’ordine». Sì, lo chiama proprio così. Picchiano gli agenti, distruggono ogni cosa che incontrano, minacciano di dar vita a qualche cosa di pericoloso, ma per l’ex leader sindacale il problema è che sporcano le ragioni di una piazza animata solo di buoni sentimenti. Non una critica alla sinistra che cova il risentimento contro chiunque abbia opinioni diverse. Non un cenno a una miscela esplosiva che ha unito i cosiddetti antagonisti ai maranza, creando una generazione di casseur pronti al conflitto con le forze dell’ordine. Come in passato i compagni finsero di non capire che cosa si agitava nel ventre della protesta, anche oggi sindacalisti e dirigenti di partito ignorano la realtà. Per loro, in piazza ci sono solo professori, studenti e pensionati, non vedono che nel movimento cosiddetto spontaneo si agita qualche cosa di assai più pericoloso.
Francesco Paolo Capone (Imagoeconomica)
Silvia Sardone (Imagoeconomica)
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