2019-07-12
Come il capitalismo s’è comprato la Biennale
Nel suo ultimo libro, il critico Maurizio Cecchetti individua luci e ombre nella presidenza Paolo Baratta della kermesse di Venezia. L'arte ormai è ridotta ad arma di distrazione, è appiattita sul politicamente corretto ed è asservita alle logiche del marketing.Chi si ricorda questa scena delle Vacanze intelligenti? Alberto Sordi e Anna Longhi, fruttaroli romani veraci, vanno a visitare la Biennale di Venezia, senza capire granché delle astruse opere d'avanguardia. A un certo punto, la Longhi, distrutta, si siede. E un gruppo di turisti comincia ad ammirarla come fosse un'installazione: «Me volevano compra' pe' 18 mijoni», dice al marito. In quello sketch geniale c'è - l'autore ci perdonerà - già tanto di quello che scrive Maurizio Cecchetti nel suo ultimo libro, Come fu che la Biennale diventò un circo (La Vela). Non tanto l'incomprensibilità dell'arte ai «semplici» - «L'arte non è democratica», scrive Cecchetti - quanto la sua riduzione a oggetto di «fruizione collettiva», a segnale esteriore di uno status sociale, dunque tanto più di valore, quanto più è alto il suo prezzo. Diciotto «mijoni» (di lire) per la moglie seduta, o 1,2 milioni (di euro) per la Ragazza con il palloncino di Banksy, che poi, appena acquistata, si autodistrugge. Tutto è evento mondano, tutto risponde alle logiche del marketing. L'arte che non è più critica sociale, ma è arma di distrazione dai mali del nostro tempo, ospite fissa nei salotti buoni del capitalismo globalizzato. L'arte imbonitrice.È in questo senso che Cecchetti accosta la Biennale di Venezia a un circo. Non il tendone degli spettacoli con acrobati e fiere esotiche, bensì i ludi romani. Quelli che gli imperatori istituivano per mitigare i bollori del popolo. E non è un caso che la trasformazione della kermesse veneziana sia avvenuta nell'era della presidenza di Paolo Baratta (1998-2001 e dal 2008 a oggi), manager ed economista, il quale ha messo in piedi «una macchina sofisticata e costosissima (ma anche remunerativa e capace di quadrare i conti), che si è costituita in palcoscenico mondiale di ciò che il mercato, il grande collezionismo, i musei ritengono sia arte. Una Biennale del sistema, senza alcuna necessità del giudizio critico». Già, perché quest'arte «laureata» in comunicazione, che coinvolge il pubblico come spettatore di uno show, ha invece soppresso la figura del critico. Soppiantato dal curatore, più simile a un esperto di marketing che a uno studioso. Perciò all'arte non serve il dialogo con la tradizione: «Se non c'è giudizio, ogni opera è un capolavoro», scrive Alfonso Berardinelli nella postfazione. La globalizzazione, commenta Cecchetti, «incide all'inverso: non costringe tutti a parlare la stessa lingua, ma mischia e fa confliggere […] idee, mezzi, usi, materiali […] senza dar loro alcun ordine: è la lingua di Bebele, la non lingua».Gli esempi sono innumerevoli. In quest'ultima Biennale, che si è aperta a maggio, come nelle precedenti. L'edizione 2019, ad esempio, ospita il barcone dei migranti inabissatosi nel canale di Sicilia nel 2015, naufragio in cui morirono 700 persone. L'artista svizzero Christoph Büchel l'ha ribattezzata Barca nostra. È la rappresentazione della denuncia che non scandalizza, anzi, occhieggia compiaciuta alla narcisistica coscienza civile dell'élite semicolta. In fondo, ogni ombra di «impegno», oggi, tradisce un sospetto: che «la cultura», quella di cui si fregiano i competenti, sia «la maschera indispensabile per un potere che voglia essere friendly, rassicurante e politically correct». Insomma, l'economico «che ha sostituito il politico» è il metro dell'arte, ivi inclusa l'arte di governare, alla quale sono i mercati e la finanza a dettare l'agenda. Così l'artista diventa innocuo: non è organico al potere nel senso che il potere lo finanzia (come ai tempi del mecenatismo, o delle committenze ecclesiastiche), bensì, peggio, perché per rimanere nel jet set deve rafforzare il sistema. Banksy può imprimere su un muro londinese la sua protesta contro i cambiamenti climatici (un bimbo che tiene in mano il simbolo del movimento contro l'estinzione umana), ma la protesta non imbarazza nessuno. In teoria, il populismo verde è appunto un populismo, un insieme di rivendicazioni che contesta al potere il disinteresse per le sorti della «casa comune», come la chiamerebbe papa Francesco. In pratica, ogni politico rispettabile, europeista e mondialista, da Barack Obama a Emmanuel Macron, si genuflette alla retorica green.Uno degli esempi su cui Cecchetti insiste di più è quello dell'artista britannico Damien Hirst, che alla Biennale inaugurata nel 2017 allestì «una vasta scenografia che aveva per tema un antico e straordinario tesoro di opere d'arte riemerso dai fondali dell'Oceano Indiano. Un investimento economico pazzesco per produrre oltre 200 pezzi, alcuni enormi, con la dichiarazione che per il momento non sarebbero stati messi in vendita - intanto molti ricchi collezionisti si sono subito messi in coda per comprare. È emersa una generale propensione a leggere l'intervento di Hirst come una sorta di ottava meraviglia, saltando quasi a piè pari il giudizio estetico e, soprattutto, la domanda capitale: è arte o non è arte?». E la risposta, secondo Cecchetti, è negativa: «Le sculture, fatte per lo più di materie sintetiche a stampo, che mostrano finte incrostazioni marine, evocano miti antichi e citano talvolta importanti miti del passato, sono indubbiamente fatte (con l'aiuto del computer), ma prive di ogni questione di forma e di rapporto con un canone (o un anticanone)». Perché il canone, o l'opposizione a esso, quella riflessione che secondo Thomas Stearns Eliot era obbligatoria e, pertanto, rendeva qualunque artista, pure chi al canone si contrapponeva, un «tradizionalista», con il dominio del denaro sono diventati inutili. Ma in questo modo, con un'arte (un'arte?) in cui i linguaggi si mescolano come nel melting pot multiculturale glorificato dai globalisti, in cui «tutto sta con tutto, non c'è più differenza (o identità)». Si capisce perché, già nella Biennale del 2001, il Padiglione Italia produsse il sommo cortocircuito. Un'opera di Marco Neri, esposta sulla facciata, affilava «una platea di bandierine nazionali che vogliono essere […] una sorta di battesimo e inno “democratico", “pacifista", “cosmopolitista", frutto di un'ideologia occidentale che […], con la vittoria del capitalismo più bieco, ha imperversato nel mondo con guerre, sfruttamenti di tipo neocoloniale, taglieggi economici, indifferenza verso i diritti dell'altro, che sono diritti all'identità e alla propria storia». Un'opera dipinta da un italiano, «che sigilla così l'esproprio subito dall'Italia, per ragioni appunto “globali"».È da qui che si distingue l'arte dal ludus, dal lunapark. L'artista ha sempre inquietato le coscienze e, in qualche modo, è stato sempre una scheggia impazzita persino per i committenti che lo foraggiavano (basti pensare a Caravaggio o a Tintoretto). Adesso, l'arte è instrumentum regni per il capitalismo. E, conclude Cecchetti, essa, con il suo volto friendly, con i suoi happening e le mostre interattive buone per le storie di Instagram, ha «un posto di primaria importanza all'interno delle strategie che i centri della comunicazione planetaria elaborano per controllare e indirizzare le reazioni delle popolazioni rispetto alle forme della paura che si manifestano nel mondo da quando la storia si è rimessa a correre». Della serie: la globalizzazione vi spaventa, noi, distraendovi, vi rassicuriamo. E guadagniamo un sacco di soldi. Molto più che 18 «mijoni».
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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