2019-04-23
«Combattiamo i tumori dei bambini con il gioco, la tecnica e la sincerità»
L'unico centro europeo di protonterapia, all'interno di un ospedale, è a Trento. Qui gli oncologi usano le radiazioni per sconfiggere il cancro. In un ambiente che prova a restituire la quotidianità ai più piccoli.«Non ho avuto il dono della maternità, i miei figli sono tutti i piccoli pazienti che seguo». Sabina Vennarini, radiologa, radioterapista oncologa, 47 anni, marchigiana di origine, è uno dei due medici responsabili della sezione pediatrica del Centro di protonterapia dell'ospedale Santa Chiara di Trento. In questa struttura altamente specialistica dedicata alla cura dei tumori, nelle due sale dotate di gantry (sistemi rotanti a 360 gradi attorno al paziente. Apparecchiature complesse e assai costose) vengono effettuati trattamenti radianti utilizzando particelle pesanti con carica positiva (i protoni) per irradiare le cellule tumorali con estrema precisione, risparmiando i tessuti sani intorno alla lesione. Unico centro di protonterapia in Europa che opera all'interno un'azienda sanitaria pubblica, ha spazi riservati ai piccolissimi pazienti con specifici percorsi diagnostico assistenziali. Secondo il ministero della Salute «ogni anno si ammalano di tumore (linfomi e tumori solidi) o leucemia circa 1.400 bambini e 800 adolescenti». Oggi in Italia più di 44.000 persone hanno avuto un tumore da bambini e la loro età media è attualmente attorno ai 30 anni. Sempre secondo il ministero: «Negli ultimi dieci anni in Europa, a fronte della sperimentazione di 90 nuovi farmaci anticancro per gli adulti, soltanto due sono stati quelli studiati per l'età pediatrica». L'Airtum, associazione italiana registri tumori, ha stimato che nel quinquennio 2016-2020 nel nostro Paese saranno diagnosticate 7.000 neoplasie tra i bambini e 4.000 tra gli adolescenti. Circa l'80% dei malati guarisce, per il restante 20% ancora non sono state trovate cure efficaci. La terapia protonica può diventare un valido alleato anche per migliorare la qualità di vita dei piccoli pazienti, sempre costretti a un percorso di sofferenza, ma con meno forti effetti collaterali (quali deficit ormonali, neurologici, uditivi e vestibolari, tumori radio indotti), come spiega la dottoressa Vennarini: «Il tessuto biologico sano che si trova davanti al tumore ed è attraversato dai protoni, viene danneggiato in maniera minore che nel caso dell'utilizzo di raggi X».Somministrate anche farmaci chemioterapici?«Non a tutti. Certo, il vantaggio di poter concentrare le radiazioni sul tumore, diminuendo la percentuale “involontaria" sui tessuti sani, permette in alcuni pazienti di eseguire cicli di chemioterapia concomitanti a dosi piene e con tossicità minori. Aumenta così il controllo del tumore e la sopravvivenza del bimbo».Quanti bambini siete in grado di accogliere?«Il centro di Trento svolge attività ambulatoriale quotidiana. Il bambino segue il trattamento e poi torna a casa o negli alloggi d'appoggio che le tante associazioni, presenti sul nostro territorio, mettono a disposizione delle famiglie che arrivano da ogni parte d'Italia. Dei 45 pazienti che seguiamo ogni giorno, circa un terzo sono bambini. A volte anche la metà sono minori oncologici».L'età media dei piccoli?«Tra i 4 e i 10 anni. Al di sotto dei 36 mesi solitamente non si utilizzano radiazioni, ma quando il tumore è particolarmente aggressivo un team multidisciplinare di esperti può ritenerlo opportuno. Noi abbiamo curato bambini con meno di tre anni. Complessivamente, dal primo paziente pediatrico accolto nel giugno del 2015, ne abbiamo trattati circa 160. Seguiamo anche giovani tra i 18 e i 21 anni che hanno una neoplasia pediatrica, ovvero più comune nell'infanzia e che ha protocolli di cura diversi da quelli dell'adulto».Quali sono i tumori infantili più aggressivi?«Soprattutto quelli ematologici, come le leucemie. Al secondo posto ci sono i tumori cerebrali, la neoplasia solida più comune in età pediatrica. Curiamo anche molti sarcomi dei tessuti molli, che possono colpire il corpo del bambino in diverse parti. Purtroppo è aumentata l'incidenza dei tumori infantili».La permanenza minima nel centro?«Dipende dal tipo di tumore, in genere il bambino e la sua famiglia restano con noi dalle cinque alle sette settimane. Poi il paziente torna a casa o prosegue le cure nell'ospedale pediatrico che lo ha inviato».Quando arrivano, sanno di essere gravemente malati?«Sì. Il tumore provoca un'interruzione così forte del loro vivere quotidiano, che la consapevolezza di stare molto male è immediata. Parlare con i piccoli pazienti e con i loro genitori è importantissimo fin dal primo colloquio preparatorio. Devo dare informazioni complete su diagnosi e trattamento, con un linguaggio attento e appropriato. L'espressione del mio volto, lo sguardo, un sorriso artefatto, un gesto, tutto viene fotografato, passato al vaglio, incamerato. La comunicazione fisica e verbale sono fondamentali. Bisogna essere concentrati su quello che si dice e su come viene detto. Basta una sfumatura per ferire profondamente o spaventare ancora di più». La sofferenza di un bimbo è tremenda da accettare. Accanto alle terapie, servirà curare il suo equilibrio psicofisico.«Lavoriamo tutti insieme: medici, infermieri, volontari, forniamo cure e supporto psicologico. I bambini hanno spazi dove giocare e dove poter studiare. Bisogna cercare di riportarli nella quotidianità che è stata violata dalla malattia». I pazienti guariti da tumori infantili devono poi sottoporsi a controlli regolari per diverso tempo?«Il trattamento è intenso, prolungato e delicato. Nella maggior parte dei casi non è identificabile un limite temporale che divida una fase ad alto rischio da una a basso rischio, il malato che guarisce da una neoplasia infantile deve essere sempre seguito, la sorveglianza clinica deve tenere conto della sopravvivenza dei soggetti ma anche della loro qualità della vita. Il reintegro nella quotidianità è dolorosissimo. I segni si portano, fisici o psicologici. Ragazze che hanno avuto un tumore da piccole capita che non trovino un compagno, o non che riescano a vivere un rapporto affettivo stabile. Faticano anche a diventare madri. Ma ci sono tante guarigioni complete, giovani che mi scrivono dei loro successi, degli studi completati, dello sport che hanno ripreso a praticare».Quelli che non ce la fanno?«Lo sguardo di un bambino in fase terminale di malattia non si dimentica. Nei suoi occhi impauriti c'è tutta la consapevolezza di quello che succederà. I piccoli possono morire dall'oggi all'indomani e quasi sempre, quando ti guardano in quel modo, non si sbagliano». Con un lavoro come il suo la sera sarà impossibile «staccare».«Non si smette mai. Mio marito è un ingegnere che ha sempre avuto paura delle malattie, non gli è stato facile abituarsi ai miei ritmi, alla sofferenza con la quale convivo, alla mancanza di orari certi. In questo lavoro è come essere in guerra. Con la differenza che rappresenta una scelta di vivere e di occuparsi degli altri».