
Sono sacrosante le condanne per le aggressioni a giornalisti e virologi, tuttavia c'è una strisciante forma di sopraffazione contro chi ha semplici perplessità: passa per psicotico e rischia forme di discriminazione.Si respira un'aria cattiva. Di certo non si può rimanere indifferenti quando si vedono gazebo assaltati, giornalisti presi a pugni e medici minacciati. Le generiche condanne a mezzo stampa e le manifestazioni fotocopiate di solidarietà valgono poco, ma è ovvio che episodi come le intimidazioni al professor Matteo Bassetti, le botte a Francesco Giovannetti di Repubblica e l'assedio al banchetto dei 5 stelle non debbano più ripetersi. Chi è oggetto di aggressioni o minacce va adeguatamente protetto, e chi assale va sanzionato. Sì, bisogna condannare la violenza. Ma se non si vuole essere ipocriti bisogna condannarla tutta, senza distinzioni pelose. Dunque se va disapprovata la violenza fisica attribuita ai no vax, vanno parimenti rifiutate con decisione la violenza verbale e l'oppressione sottile che caratterizzano in questi giorni la gran parte del dibattito pubblico.C'è violenza, ad esempio, anche nel dire che si debba lasciare senza stipendio l'insegnante o il lavoratore senza green pass. C'è violenza nel sostenere che chi non è vaccinato debba restare chiuso in gabbia come un sorcio, o debba pagarsi le cure. Inoltre, c'è una strisciante forma di sopraffazione che ormai è esercitata con regolarità dalla maggioranza dei politici e dei commentatori. Consiste, in soldoni, nel combinato disposto di livellamento e patologizzazione del dissenso. Funziona più o meno così: prima si etichetta chiunque ponga domande o avanzi critiche come un «no vax», poi si dice che i «no vax» sono fuori di testa e persino violenti. Il risultato è che, nel discorso dominante, il critico diventa uguale a chi crede che il vaccino sia un prodotto della Spectre: un violento malato di mente. Qualcuno esprime questi concetti in maniera diretta, invitando apertamente alla repressione e al confinamento dei dissenzienti. Altri appaiono più felpati, e forse per questo sono ancora più pericolosi. Non sono pochi, per dire, quelli che dichiarano: «Non bisogna obbligare o punire: i no vax vanno convinti». Apparentemente, è una posizione condivisibile, sembra molto aperta e tollerante. Ma nasconde un vizio di fondo. Essa si basa sul presupposto che esista una parte che ha totalmente ragione, che è interamente nel giusto, e un'altra parte che invece ha torto marcio. Da un lato ci sono i sostenitori del green pass e delle misure governative; dall'altro i pericolosi no vax. Niente mezze misure: solo buoni e cattivi. Ed ecco il punto: se chiunque critica è trattato da cattivo, da no vax violento e psicopatico, «parlare» con lui significa al massimo tentare di rabbonirlo, non prendere in seria considerazione le sue obiezioni. In questo modo, anche le critiche legittime, sensate e razionali in un lampo vengono cancellate. Prendiamo ciò che ha scritto il filosofo ed ex ministro dell'Educazione francese Luc Ferry su Repubblica. In un articolo intitolato «Nella mente di un no vax», Ferry si propone di spiegare perché, relazionandosi con un «no vax», «conta di più capire la struttura che sorregge il suo pensiero piuttosto che coprirlo d'insulti o di grandi discorsi». A prima vista, sembra una buona idea: meno insulti, più confronto. Ma leggendo bene il testo, si nota il trucco. Ferry spiega che si può certamente tentare di dialogare con un no vax, però precisa che «a volte esiste anche una struttura paranoica impossibile da controllare razionalmente». Capito? Il no vax è un paranoico. Anzi, per la precisione è uno psicotico: crede ai complotti, e se qualcuno cerca di convincerlo che non sono reali, quello si infuria e reagisce con violenza. «Nel fronteggiare il complottismo che aleggia sulla pandemia», scrive Ferry, «quanto più si tenta di argomentare, di esporre fatti, tanto più si viene scambiati per agenti segreti del complotto stesso». Davvero curioso. Lo stesso atteggiamento che il filosofo attribuisce ai «complottisti» lo assumono ogni giorno anche i nostri politici. Più si pongono loro obiezioni ragionevoli, più si viene rabbiosamente accusati di essere no vax. Dunque, se ciò che sostiene Ferry è vero, qui non sono psicotici soltanto i complottisti, ma pure i governanti. Come da manuale, tuttavia, il ragionamento di Ferry è a senso unico: vale soltanto per i no vax, cioè per chiunque non sia fedele alla linea di regime. «È puro delirio continuare a parlare di “dittatura sanitaria"», dice il francese. «Ma si dovrebbe tener conto del fatto che le inclinazioni paranoiche non sono una questione d'intelligenza. Ed è per questo che persone colte, spesso addirittura prestigiosi intellettuali, si asserragliano in una logica complottista». Il riferimento è alle posizioni di Giorgio Agamben, che ha nelle settimane passate ha contestato il lasciapassare verde, e ora viene definito, su Repubblica, uno psicotico che delira. Visto come funziona? Metti tutti in un unico calderone no vax, poi dici che i no vax sono pazzi, e in questo modo hai neutralizzato anche le obiezioni sacrosante di chi non insulta, non picchia, non sbraita ma esprime idee serie e razionali. Semplice, no? Una volta individuati i malati, occorre trovare la cura. Ferry, a tal proposito, ha una proposta interessante: «Per convincere chi non è ancora convinto, i nostri politici farebbero meglio a cedere la parola a personalità che ispirano vera fiducia - magari grandi simboli dello sport, o del mondo dell'arte o di qualsiasi altro campo, eccetto la politica - anziché salire pomposamente in cattedra a far lezione a dei manifestanti che nessun argomento razionale potrà mai convincere». Già, meglio far parlare i Vip dei politici. Il politico, infatti, avrebbe (in teoria) il compito di rispondere con argomenti seri e razionali alle obiezioni altrettanto serie e razionali. E i nostri politici non sono in grado di fornire argomenti seri e razionali a sostegno, ad esempio, del green pass. Al massimo, possono pronunciare slogan o dire bugie. E se vengono smascherati, hanno una sola possibilità: accusare chi li critica di essere matto, violento e complottista. Così possono ridurlo al silenzio e levarsi dagli impicci.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».
Antonio Scoppetta (Ansa)
- Nell’inchiesta spunta Alberto Marchesi, dal passato turbolento e gran frequentatore di sale da gioco con toghe e carabinieri
- Ora i loro legali meditano di denunciare la Procura per possibile falso ideologico.
Lo speciale contiene due articoli
92 giorni di cella insieme con Cleo Stefanescu, nipote di uno dei personaggi tornati di moda intorno all’omicidio di Garlasco: Flavius Savu, il rumeno che avrebbe ricattato il vicerettore del santuario della Bozzola accusato di molestie.
Marchesi ha vissuto in bilico tra l’abisso e la resurrezione, tra campi agricoli e casinò, dove, tra un processo e l’altro, si recava con magistrati e carabinieri. Sostiene di essere in cura per ludopatia dal 1987, ma resta un gran frequentatore di case da gioco, a partire da quella di Campione d’Italia, dove l’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti è stato presidente fino a settembre.
Dopo i problemi con la droga si è reinventato agricoltore, ha creato un’azienda ed è diventato presidente del Consorzio forestale di Pavia, un mondo su cui vegliano i carabinieri della Forestale, quelli da cui provenivano alcuni dei militari finiti sotto inchiesta per svariati reati, come il maresciallo Antonio Scoppetta (Marchesi lo conosce da almeno vent’anni).





