2020-04-22
Chi rischia di affogare nel mare di petrolio
Con i depositi pieni e il crollo del prezzo del Wti, le economie greggio-dipendenti sono in bilico. Algeria, Venezuela e Nigeria vedranno tensioni sociali elevatissime. Sauditi e Norvegia, grazie ai loro fondi sovrani, resisteranno. Una vera risalita del mercato solo nel 2021. I depositi americani di greggio sono pieni. Quelli europei e mediorientali hanno ancora poco margine. Con il coronavirus però le auto non fanno più benzina, gli aerei non volano e metà aziende sono ferme. Così il consumo di barili al giorno in poche settimane è passato da circa 100 a meno di 70. Opec, Russia e Usa hanno concordato un taglio della produzione del 10% ma per stare al passo con il Covid dovrebbero ridurre l'estrazione di un altro 20%. Ma se la quarantena non finirà a breve la contrazione è destinata ad aumentare mandando in default intere filiere economiche e Paesi che campano sul greggio e non possono sopportare prezzi inferiori ai 40 dollari al barile. Dopo il tracollo dei future, ieri il prezzo del Wti si è attestato sui 10 dollari e i prossimi gironi non promettono nulla di buono.Paesi come la Russia, l'Arabia Saudita o la Norvegia soffriranno meno da questa crisi perché hanno la possibilità di attingere a fondi che consentono di «tirare il fiato» ancora per qualche mese. Nazioni più povere come Algeria, Venezuela o Nigeria e Iran, invece, sono destinate ad affrontate notevoli difficoltà, già nel breve periodo. «Tutto questo porterà inevitabilmente ancora più instabilità politica e questo ci deve preoccupare», spiega alla Verità Davide Tabarelli, presidente e fondatore Nomisma Energia. «Anche perché siamo vicini alla Russia, un Paese che porta con sé anche altri problemi, e non siamo distanti nemmeno dal Medioriente, dove le difficoltà non mancheranno. Certo è che questo momento può essere l'occasione per molti Paesi come la Libia e il Venezuela per iniziare la loro lunga e difficile strada per emanciparsi dall'economia petrolifera». Almeno in teoria. La pratica potrebbe essere molto più complicata e riflettersi anche sugli equilibri italiani. La libia è il nostro patio a sud e l'Algeria il nostro primo fornitore di gas.«Di recente la domanda è scesa di circa 30 milioni di barili», spiega Tabarelli. «Con uno sforzo tremendo, nella speranza di tenere il prezzo alto, è stata tagliata la produzione di 10 milioni di barili. Il problema è che tutto questo non basta. Ad ogni modo, i prezzi superata questa crisi dovrebbero tornare più o meno alla normalità. Basta guardare i prezzi dei futures (i contratti che sanciscono l'impegno a un acquisto in futuro a un prezzo prefissato, ndr) che, a dicembre di quest'anno sono intorno ai 33 dollari. Probabilmente la vera salita dei prezzi si potrà notare nel 2021 perché oggi si sta tagliando capacità produttiva che verrà a mancare tra 12 mesi». Nel frattempo la finanza ha finito con il cozzare contro il coronavirus. «Alla scadenza dei futures di maggio», aggiunge Massimo Nicolazzi, senior advisor dell'Ispi e presidente di Centrex Italia, società che opera nell'importazione, nella vendita e nel trading di gas naturale, «molti operatori si sono trovati in tasca un sacco di certificati da 1.000 barili di petrolio di cui non sapevano cosa farsene ed erano tutti legati al Wti. Perciò sono iniziate le vendite massicce e il prezzo è crollato». In poche parole nessuno vuole barili di petrolio perché nessuno li sta richiedendo. «Il vero problema è che i Paesi produttori stanno continuando a produrre anche ora che i consumi sono cessati», continua Nicolazzi. «Tutto questo, di cui non si sa la fine, avrà e sta avendo un impatto importante su tutti i Paesi che basano la loro economia sugli idrocarburi. Il punto è che l'Arabia Saudita ha un fondo sovrano da cui può estrarre a piene mani e garantirsi alcuni mesi di sopravvivenza sociale prima che la crisi si faccia sentire. Altri Paesi più poveri come Algeria o Nigeria andranno incontro a grandi tensioni, mentre la Russia potrà tirare avanti solo impiegando un po' di riserve, visto che il budget di quest'anno è stato calcolato su un prezzo di 45 dollari al barile», conclude Nicolazzi aggiungendo: «Ricordiamoci poi che la differenza di prezzo cui abbiamo assistito tra Wti e Brent è data dal fatto che negli Stati Uniti (dove si opera con il Wti) non c'è più spazio di stoccaggio, mentre il Brent (petrolio europeo) nel mare del Nord ha ancora margini per ospitare altri barili». A complicare la situazione si aggiungono gli hedge fund che in questi momenti di forchette divaricate hanno visto grandi opportunità di guadagno. L'Uso, Us oil fund ha venduto futures a maggio per ricomprarli a giugno spostando quasi 4 miliardi di dollari in pochi giorni. Nel contempo l'Arabia Saudita ha spinto il piede sull'acceleratore della produzione per poi fare sconti sul prezzo: una sorta di rappresaglia contro la Russia. Solo che le navi piene di greggio a un certo punto hanno dovuto trovare un porto e così la speculazione finanziaria e il prezzo reale sono andati in totale contrasto. «Tutto questo porterà a forti vendite sul mercato obbligazionario e su quello azionario come già stiamo vedendo», spiega Massimo Siano, direttore generale per il Sud Europa di Amun, emittente di Etf. «L'effetto contagio porterà alcuni piccoli produttori di petrolio a collassare. Il problema è che i prezzi resteranno a lungo intorno ai 30 dollari, soglia ritenuta insostenibile per molti Paesi e per molte società». E a farne le spese oltre a nostri fornitori come l'Algeria potrebbero essere anche migliaia di investitori che hanno scommesso su fondi ed Etf.