2021-06-15
Chi non ha intenzione di fare la cavia potrà presentare un ricorso al Tar
Ema non ha validato il trattamento, i bugiardini riportati da Aifa non lo citano: perciò, è legittimo impugnare i provvedimenti regionali che recepiranno le direttive di Roma. Intanto il Codacons annuncia una class action.Se cocktail sarà, rischia di essere un mix indigesto, anche con potenziali conseguenze legali. E così, proprio mentre la campagna vaccinale stava accelerando e conquistando fiducia tra gli italiani, l'improvvida scelta di Roberto Speranza di imporre autoritativamente il cambio di vaccino per gli under 60 che abbiano avuto una prima dose di Astrazeneca, innescherà quasi certamente una pioggia di ricorsi al Tar. I cittadini interessati potranno infatti impugnare davanti ai Tribunali amministrativi regionali - se non direttamente la circolare ministeriale - i provvedimenti regionali di recepimento della stessa, nel caso in cui le Regioni non riconoscano il diritto del singolo a ottenere una seconda dose omogenea alla prima. In questo caso, pare ragionevole pensare che il cittadino possa vedere leso il proprio diritto alla salute: si configura come arbitrario un atto che - obbligatoriamente - sospenda un trattamento sanitario, e ne imponga un altro, per giunta finora testato su numeri limitatissimi (come nel caso del cocktail di vaccini). Nel caso in cui il provvedimento regionale abbia queste caratteristiche, è forse consigliabile attivarsi per tempo, in modo da sperare di ottenere una pronuncia del Tar compatibile con i tempi del richiamo. Purtroppo, infatti, potrebbe accadere che un cittadino attenda la data originariamente fissata per il suo richiamo, si rechi presso l'hub vaccinale pensando di poter comporre «amichevolmente» la questione, e invece si veda a quel punto costretto a scegliere tra il cocktail e il ritorno a casa senza alcuna seconda dose. A rendere indifendibile la scelta del governo italiano ha contribuito anche la puntualizzazione di Ema, che già domenica pomeriggio, su Twitter, ha parlato testualmente di disinformazione, aggiungendo che «il bilanciamento benefici/rischi di Astrazeneca resta positivo» e che il vaccino «rimane autorizzato per tutta la popolazione». Non solo: il responsabile della strategia sui vaccini di Ema Marco Cavaleri si è affrettato a smentire quanto gli era stato il giorno prima attribuito dalla Stampa, precisando ieri sul Giornale che «la posizione di Ema non è cambiata». E la stessa Ema, sempre ieri, ha aggravato la smentita: «Su Astrazeneca un media italiano ha citato erroneamente un nostro esperto». Resta cioè un complessivo semaforo verde, al momento. A maggior ragione, il cittadino che abbia avuto la prima dose di Astrazeneca e non voglia cambiare in corsa, ha un ulteriore argomento a proprio favore. Al di là degli aspetti squisitamente giuridici, è anche il buon senso a bocciare il diktat di Speranza. Sembra una beffa parlare di «principio di precauzione» (addirittura, con enfasi, il coordinatore del Cts, Franco Locatelli, aveva parlato di «precauzione suprema», riferendosi allo stop verso Astrazeneca), se poi tutto si traduce nell'imposizione di un mix oggetto di studi numericamente limitatissimi. Gli studi attualmente disponibili sul cocktail (si tratta di quattro lavori scientifici) sono stati infatti condotti su poche centinaia di persone. Ora, considerando che gli eventi avversi letali in materia di vaccini sono nell'ordine di poche unità su centinaia di migliaia di casi, basarsi su campioni di 6-7-800 persone appare un azzardo: se ci fosse un morto anche entro campioni di entità così minime, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. E dunque, attraverso analisi tanto limitate, è ben difficile ricavare una fotografia attendibile e tranquillizzante. Uno degli studi è stato anche inserito sui social dal deputato della Lega Claudio Borghi: si tratta di un lavoro pubblicato da The Lancet, che tuttavia, chiosa giustamente il parlamentare, «parla di efficacia e non di sicurezza: si ritiene sia sicuro sulla base di induzioni». Ma ciascuno comprende che il punto è proprio questo: non è in gioco solo la agognata immunizzazione dal Covid, ma anche e soprattutto la sicurezza complessiva e la salute del vaccinato. Oltre alla sentenza tombale di Arnon Shahar, responsabile della campagna vaccinale in Israele, intervistato dal QN («Mixare i vaccini è una scelta che al momento andrebbe presa solo in condizioni disperate»), diverse altre voci sono apparse tutt'altro che appiattite sul governo. Prudente il farmacologo Silvio Garattini, sentito da Repubblica. Da un lato, afferma che a suo avviso non ci saranno problemi; ma dall'altro, aggiunge con ragionevolezza: «È difficile obbligare a fare un richiamo diverso. Io dico di essere pragmatici: lasciamo ai cittadini la scelta della dose». E pure Nino Cartabellotta, della fondazione Gimbe, non ha potuto fare a meno di osservare che al momento i bugiardini di AstraZeneca, Pfizer e Moderna non prevedono la vaccinazione eterologa, e anzi scrivono a chiare lettere che «non ci sono dati disponibili sull'intercambiabilità». La sinistra si espone anche a una contraddizione di principio: si dichiara «pro choice», cioè a favore della scelta individuale sulle questioni eticamente sensibili, ma stavolta vuole precludere la scelta al singolo. Tra l'altro, l'orientamento del governo appare anche poco lungimirante in prospettiva. Si può decidere di «bruciare la strega» chiamata Astrazeneca: ma poi che si fa al prossimo evento avverso letale che dovesse riguardare un altro vaccino o il famigerato «cocktail»? Tornando alle iniziative legali, si è fatto vivo pure il Codacons, che ha lanciato sulla sua pagina online un'azione collettiva per gli under 60 vaccinati Astrazeneca, anche prospettando un ipotetico risarcimento dei danni.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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