2019-01-24
Chi la deportazione la conosce davvero: «Parola utilizzata a sproposito dal Pd»
Il giornalista Franco Levi: «Mio padre finì ad Auschwitz, legare quel termine ai profughi di oggi è facile ma è una storpiatura».I profughi in attesa davanti a Malta erano «in balìa di una ferocia simile a quella dei nazisti che dividevano le madri dai figli». I centri di accoglienza sono descritti come «lager gestiti da carcerieri». E quando accade che uno di questi venga ridimensionato come quello di Castelnuovo di Porto, ecco che i migranti «vengono deportati come accadeva alle vittime dei nazifascisti». Deportati, deportati, deportati. L'iperbole della stampa più autorevole e potente vorrebbe illuminare, ma i riverberi possono ingannare o peggio accecare. E la pigrizia dei titolisti compie l'opera.Il blackout linguistico avviene soprattutto se una terminologia così drammatica ed evocativa, che sovrappone la gestione di un problema politico e sociale come quello dei profughi alla più terribile tragedia del Novecento, viene volutamente usata adesso, nella tradizionale marcia di avvicinamento al 27 gennaio, Giorno della Memoria. Le ragioni della politica sono sempre buone, ma si fa presto a dire Olocausto. Ancora di più a dare in pasto al feroce popolo dei social quelle parole che evocano storie, quelle storie che evocano drammi, quei drammi che testimoniano la follia della disumanità. «Il termine viene usato in modo del tutto improprio con il rischio di annacquarlo, depotenziarlo agli occhi dei giovani», commenta il professor Marcello Pezzetti, storico, docente all'Università Roma 3, uno dei massimi esperti della Shoah in Italia, direttore del Museo della Shoah di Roma. «Oggi è fondamentale che la memoria rimanga viva e che si riesca a parlare ai bambini con linguaggi adeguati, agli adulti con altri linguaggi e mezzi più consoni. Per tutti, il viaggio è lo strumento migliore per capire e la retorica quello peggiore per spiegare. La retorica del paragone linguistico è pessima, proprio come nel caso della parola deportazione. Un termine usato in modo improprio, esattamente come sterminio».Così quei migranti che risalgono la penisola su pullman riscaldati, sedili di velluto, destinazioni confortevoli e pasti caldi sono tutt'altro che deportati. Il problema esiste, la politica lo enfatizza, ma la malizia della parolina terrificante buttata lì per creare atmosfera è cosa fetida. Continua il professor Pezzetti: «Inflazionare la parola deportazione è sbagliato, la storia non è mai uguale a sé stessa. Io credo che ci sia totale superficialità in chi usa termini così carichi di dolore per altri scopi. E poiché la buona fede è sacra, credo che ciò accada per una sorta di confusione. Certo, quando vedo un uso sistematico d'una terminologia nazista fuori da quel contesto, allora comincio a temere che ciò sia fatto per creare paura». A proposito del caso di Castelnuovo di Porto, alcuni esponenti del Pd come il deputato Roberto Morassut hanno criticato la strategia di organizzazione dei trasferimenti, «con procedure portate avanti senza adeguato preavviso, separando donne, uomini e bambini secondo una modalità che ricorda i lager nazisti». Il filone è quello e sull'argomento ha qualcosa da aggiungere l'avvocato Roberto Bruni, ex sindaco di Bergamo, presidente di Sacbo (la società che gestisce l'aeroporto di Orio), da sempre anima del progressismo illuminato bergamasco. Suo papà Eugenio, partigiano, fu deportato a Dachau; suo zio Roberto (dal quale lui prese il nome) ci morì. «Mi sono sempre sentito orgoglioso, figlio e nipote di eroi. Papà non raccontava molto, ma io capivo sin da bambino che erano stati dalla parte giusta. Se i valori della libertà e dell'uguaglianza mi erano così chiari e altrettanto lo sdegno per ogni sopraffazione, il merito era loro. Oggi, in una società distratta e fragile, il rischio di banalizzare c'è. Il linguaggio è eccessivo, in generale tutto è stato sdoganato e abbassato di livello. Con un effetto: l'omogeneizzazione non è mai positiva». Poi tira le somme: «Quello che sta accadendo ai profughi non c'entra nulla. Pur nella descrizione di un problema enorme e di un modo affrontarlo per me sbagliato, stiamo sovrapponendo cose diverse ed è un errore. Con il rischio di annacquare i messaggi forti che la Storia ci ha tramandato». Ma poiché nessun problema è privo di soluzione, Bruni è ottimista sul perpetuarsi di una Memoria senza equivoci. «La scuola deve svolgere questo compito essenziale e la mia speranza che ci riesca è sempre molto forte». Franco Levi, milanese, giornalista dell'Ansa ora in pensione, ricorda suo padre Emilio realmente vittima delle «modalità» evocate con superficialità da Morassut. Erano quelle delle Waffen SS in uno dei tre campi di Auschwitz. «Chi non ha memoria non ha futuro e confondere le idee è il peggior modo per alimentare la memoria. Usare il termine deportare per i migranti, pur nel massimo rispetto per questa tragedia, significa usare le parole a vanvera. Significa storpiare tutto. Mio padre era un uomo sereno e positivo, addirittura capo Balilla, felice di diffondere sport e ginnastica a tutti. Abbiamo saputo che a tradirlo fu uno dei suoi amici, che faceva la spia per l'Ovra: aveva segnalato che nel quartiere abitavano alcuni ebrei, fra i quali lui. Scrivere la parola deportare oggi è perfino facile, ma finire ad Auschwitz dentro un convoglio blindato era un'altra cosa». E doverlo anche spiegare a coloro che si autodefiniscono competenti rende tutto più malinconico.