2022-04-02
C’è già tregua nella guerra dei rubli. Flussi regolari nei gasdotti europei
Gazprom chiude la filiale tedesca, però lo stop alla pipeline Yamal è un falso allarme: era inutilizzata da mesi. Roma smentisce l’innalzamento dell’allerta e Roberto Cingolani ammette: «Le richieste di Putin non cambiano nulla».L’Italia si butta sull’eolico marino. Piano per le rinnovabili nelle acque di Puglia, Calabria e Sicilia: le pale produrrebbero fino a 1.400 megawatt in più di quelle installate a terra, generando 20.000 posti di lavoro.Lo speciale comprende due articoli.«Il decreto studiato nelle ultime ore, in realtà, richiede agli importatori europei di avere due conti in Russia: uno in euro e l’altro in rubli. Si pagherebbe in euro, poi una banca russa non soggetta a sanzioni li cambierebbe in rubli, mettendoli in un secondo conto e a quel punto l’importatore darebbe l’ok al pagamento. Se le cose fossero così tutto sommato non cambierebbe molto». L’ha detto ieri al Tg1 Roberto Cingolani. «Se nelle pieghe del contratto ci fossero elementi adesso ancora poco chiari, che vanno contro le sanzioni o contro gli impegni contrattuali, questo potrebbe complicare le cose, ma per ora non sembra essere così», ha proseguito, mettendo le mani avanti, il ministro della Transizione ecologica. Quello che sembrava uno scenario possibile e da noi descritto ieri a proposito della guerra del rublo (o del gas, fate voi), vale a dire «sono tutti vincitori», diventa ogni minuto che passa sempre più probabile. Il decreto firmato da Vladimir Putin prevede infatti che i Paesi «ostili» aprano da adesso in poi «conti speciali di tipo K» in rubli e in euro presso Gazprombank, ma a Mosca e non in Lussemburgo, come fino a oggi. Secondo questo schema, i Paesi acquirenti continuano a pagare in euro, si rispettano i contratti e tutti salvano la faccia. Gazprombank converte gli euro prima depositati dall’importatore presso la Borsa di Mosca in rubli, e li accredita sul secondo conto, quello in rubli, da cui poi partirebbe il bonifico a Gazprom. Come spiegato da noi ieri, la querelle non verte tanto sulla valuta di pagamento, ma sul luogo in cui gli euro sarebbero depositati da ora in poi: a Mosca e non più in Lussemburgo. Stessa moneta ma piazze diverse, per intendersi. Mosca non vuole correre più rischi. In uno scenario di conflitto prolungato - che quindi, non sembrerebbe escluso - l’Occidente potrebbe inasprire le sanzioni e bloccare i depositi in valuta estera di Gazprom in Lussemburgo e quindi versati in Bce. I nuovi depositi in valuta estera, invece, grazie a questo decreto, sarebbero stoccati presso la Banca centrale russa e quindi al riparo da ritorsioni. Gli importatori salvano la faccia e Putin gli euro incassati. Mentre ieri Gazprom ha notificato a Eni i nuovi termini di pagamento, il quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt rilanciava un’indiscrezione secondo cui la Germania starebbe pensando alla possibilità di espropriare le filiali tedesche di Gazprom e Rosneft, i due colossi russi del gas e del petrolio. Ma in serata, ad anticipare le mosse del governo tedesco, è giunto un clamoroso comunicato di Gazprom, che annunciava la chiusura della filiale tedesca Gazprom Germania, Gmnh. Una mossa improvvisa e spiazzante, perché a questa controllata fanno capo società attive anche in Gran Bretagna, Svizzera e Repubblica Ceca. Inoltre, a Gazprom Germania Gmbh appartiene anche Astora, che possiede stoccaggi in Germania e Austria. Proprio l’ultima proposta di regolamento della Commissione europea, di qualche giorno fa, prevede espressamente la possibilità di nazionalizzare questo tipo di asset nel caso in cui i proprietari non diano sufficienti garanzie di sicurezza per il sistema. Gazprom Germania è anche indagata dalle autorità europee, perché sospettata di aver provocato artatamente l’innalzamento dei prezzi del gas. Il tutto mentre, in Italia, veniva data con grande risalto e preoccupazione la notizia secondo cui, sul gasdotto Yamal, si sarebbe verificata una interruzione dei flussi di gas dalla Russia verso l’Europa. In realtà, quel gasdotto è di fatto inutilizzato già dallo scorso dicembre e nei mesi di gennaio e febbraio ha lavorato per alcuni giorni addirittura con un flusso inverso Ovest-Est, sia pure per quantitativi trascurabili. A marzo il gasdotto ha portato in alcuni giorni modesti quantitativi per qualche ora, tipicamente la notte, per poi tornare a zero. La notizia dell’azzeramento dei flussi di ieri è dovuta al fatto che il giorno prima si era verificato un piccolo transito verso la Germania, che dalle ore 6 del mattino si è azzerato. Negli ultimi tre mesi si è assistito a questi piccoli flussi e contro-flussi momentanei ripetute volte, dunque la notizia è che non c’è nessuna notizia. Anche perché i quantitativi importanti di gas che viaggiano verso l’Europa lo fanno attraverso il Nord Stream 1 e il gasdotto Ucraina-Slovenia-Austria-Italia: su queste direttrici i flussi sono regolari, anzi, nel mese di marzo sono stati leggermente superiori ai due mesi precedenti. Sempre ieri è emerso che il governo italiano starebbe pensando di alzare il livello di allerta e passare dal preallarme (situazione in cui ci troviamo dal 26 febbraio scorso) a quello di allarme. Ciò, in considerazione della richiesta russa di ricevere i pagamenti in rubli, cosa che, come spieghiamo qui, in realtà non modifica nulla nei contratti e dunque di per sé non appare motivo di particolare allarme. Infatti la notizia è stata smentita nel tardo pomeriggio. Resta però la sensazione che il governo agisca, o meglio reagisca, al rallentatore e senza avere ben chiaro cosa fare. La situazione del sistema gas italiano è da allarme già da dicembre, quando i prezzi sono esplosi e hanno reso quelli estivi più alti di quelli invernali, così che, per gli operatori, è diventato proibitivo partecipare alle aste per gli stoccaggi (che infatti sono andate deserte). A stagione di riempimento iniziata, ancora il Mite non ha dato indicazioni su come intende rimediare. Se c’è un’emergenza, oggi, è questa.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ce-gia-tregua-nella-guerra-dei-rubli-flussi-regolari-nei-gasdotti-europei-2657080534.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="litalia-si-butta-sulleolico-marino" data-post-id="2657080534" data-published-at="1648844958" data-use-pagination="False"> L’Italia si butta sull’eolico marino Una tecnologia innovativa per l’Italia, quella delle pale eoliche galleggianti in mare, è alla base dell’iniziativa congiunta di Falck Renewables e BlueFloat Energy, che insieme puntano a sviluppare cinque grandi impianti nelle acque di Puglia, Calabria e Sardegna. I numeri forniti ieri dall’amministratore delegato di Falck Renewables, Toni Volpe, alla presentazione del progetto alla stampa, sono importanti: un investimento di 14 miliardi per una potenza installata complessiva di 4.600 Mw e una stima di energia prodotta superiore ai 14 miliardi di kilowattora all’anno. Ricadute occupazionali dirette e indirette per 20.000 posti di lavoro, e un importante impatto sull’economia locale in termini di infrastrutture e rilancio delle attività marittime. «L’eolico marino galleggiante rappresenta uno straordinario punto di svolta perché, oltre a minimizzare l’impatto sull’ambiente, consente di produrre grandi quantità di energia rinnovabile», ha affermato Volpe. I tempi non sono brevi (si parla di un’entrata in esercizio nel 2029-2030), sia per via dei processi autorizzativi, per i quali si stimano almeno tre anni, sia per la parte di esecuzione lavori, per cui si ipotizzano tre-quattro anni. La realizzazione di un impianto eolico marino galleggiante è del resto decisamente più complessa di un impianto a terra. Soprattutto, impianti offshore di questa dimensione hanno delle ricadute locali notevoli che altri tipi di impianti a fonte rinnovabile non hanno, poiché la realizzazione di gran parte dei manufatti deve essere condotta in loco. Per i territori interessati ci sarebbero dei ritorni occupazionali importanti, oltre che investimenti infrastrutturali specifici. Riguardo alle obiezioni ambientaliste, legate all’impatto visivo e all’estensione dei parchi eolici, le due società garantiscono di avere già coinvolto le comunità locali. L’iniziativa, come ha specificato Ksenia Balanda, Direttore generale eolico marino Italia, sarà comunque rispettosa di tutte le normative in tema ambientale e di tutela della fauna ittica, nonché delle rotte migratorie e del fondale marino. Dai dati presentati emerge che la stima di producibilità di questi impianti è intorno alle 3.000-3.200 ore di funzionamento all’anno, un numero significativamente più alto della media degli impianti eolici italiani onshore. Per questi ultimi, infatti, la media è tra le 2.000 e le 2.200 ore di funzionamento. La notevole differenza si giustifica, secondo Carlos Martin (ceo di BlueFloat), con la maggiore costanza di vento nelle zone offshore selezionate. Anche la dimensione dell’investimento, 14 miliardi, è davvero notevole se rapportato al numero di Mw installati. Da un rapido calcolo, risulta che occorrono 3 milioni di euro di investimento per ogni megawatt di potenza installata. «Contiamo comunque sul fatto che la tecnologia, con il passare del tempo e l’accresciuta diffusione, sarà via via meno costosa», ha chiarito Volpe. L’energia prodotta sarà valorizzata con aste competitive, secondo il modello già utilizzato per le fonti rinnovabili, ma non si esclude anche una soluzione come il Power purchase agreement (Ppa) nel caso in cui ve ne fossero le condizioni. Il 2030 in effetti è ancora lontano. L’iniziativa, considerata la ancora scarsa diffusione di applicazioni galleggianti, appare coraggiosa ed attenuerebbe almeno in parte alcuni problemi tipici delle fonti rinnovabili in Italia, come le basse economie di scala e la producibilità eolica modesta. Non c’è che da sperare che i tempi autorizzativi possano essere snelliti.
(Arma dei Carabinieri)
Questa mattina, nei comuni di Gallipoli, Nardò, Galatone, Sannicola , Seclì e presso la Casa Circondariale di Lecce, i Carabinieri del Comando Provinciale di Lecce hanno portato a termine una vasta operazione contro un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti che operava nella zona ionica del Salento. L’intervento ha mobilitato 120 militari, supportati dai comandi territoriali, dal 6° Nucleo Elicotteri di Bari Palese, dallo Squadrone Eliportato Cacciatori «Puglia», dal Nucleo Cinofili di Modugno (Ba), nonché dai militari dell’11° Reggimento «Puglia».
Su disposizione del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Lecce, su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia, sono state eseguite misure cautelari di cui 7 in carcere e 9 ai domiciliari su un totale di 51 indagati. Gli arrestati sono gravemente indiziati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, rapina con armi, tentata estorsione, incendio, lesioni personali aggravate dalla deformazione dell’aspetto e altro, con l’aggravante del metodo mafioso.
Tutto è cominciato nel giugno del 2020 con l’arresto in flagranza per spaccio di stupefacenti avvenuto a Galatone di un giovane nato nel 1999. Le successive investigazioni avviate dai militari dell’Arma hanno consentito di individuare l’esistenza di due filoni parallel ed in costante contatto, che si spartivano le due principali aree di spaccio della zona ionica del Salento, suddivise tra Nardò e Gallipoli. Quello che sembrava un’attività apparentemente isolata si è rivelata ben presto la punta dell’iceberg di due strutture criminali ramificate, ben suddivise sui rispettivi territori, capaci di piazzare gradi quantitativi di droga. In particolare, l’organizzazione che operava sull’area di Nardò è risultata caratterizzata da una struttura verticistica in grado di gestire una sistematica attività di spaccio di stupefacenti aggravata dal tipico ricorso alla violenza, in perfetto stile mafioso anche mediante l’utilizzo di armi, finalizzata tanto al recupero dei crediti derivanti dalla cessione di stupefacente, quanto al controllo del territorio ed al conseguente riconoscimento del proprio potere sull’intera piazza neretina.
Sono stati alcuni episodi a destare l’attenzione degli inquirenti. Un caso eclatante è stato quando,dopo un prelievo di denaro presso un bancomat, una vittima era stata avvicinata da alcuni individui armati che, con violenza e minaccia, la costringevano a cedere il controllo della propria auto.
Durante il tragitto, la vittima veniva colpita con schiaffi e minacciata con una pistola puntata alla gamba destra e al volto, fino a essere portata in un luogo isolato, dove i malviventi la derubavano di una somma in contanti di 350 euro e delle chiavi dell’auto.
Uno degli aggressori esplodeva successivamente due colpi d’arma da fuoco in direzione della macchina, uno dei quali colpiva lo sportello dal lato del conducente.
In un'altra circostanza invece, nei pressi di un bar di Nardò, una vittima era stata aggredita da uno dei sodali in modo violento, colpendola più volte con una violenza inaudita e sproporzionata anche dopo che la stessa era caduta al suolo con calci e pugni al volto, abbandonandolo per terra e causandogli la deformazione e lo sfregio permanente del viso.
Per mesi i Carabinieri hanno seguito le tracce delle due strutture criminose, intrecciando intercettazioni, pedinamenti, osservazioni discrete e perfino ricognizioni aeree. Un lavoro paziente che ha svelato un traffico continuo di cocaina, eroina, marijuana e hashish, smerciati non solo nei centri abitati ma anche nelle località marine più frequentate della zona.
Nell’organizzazione, un ruolo di primo piano è stato rivestito anche dalle donne di famiglia. Alcune avevano ruoli centrali, come referenti sia per il rifornimento dei pusher sia per lo spaccio al dettaglio. Altre gestivano lo spaccio e lo stoccaggio della droga, controllavano gli approvvigionamenti e le consegne, alcune avvenute anche alla presenza del figlio minore di una di loro. Spesso utilizzavano automobili di terzi soggetti estranei alla compagine criminale con il compito di “apripista”, agevolando così lo spostamento dello stupefacente.
Un’altra donna vicina al capo gestiva per conto suo i contatti telefonici, organizzava gli incontri con le altre figure di spicco dell’organizzazione e svolgeva, di fatto, il ruolo di “telefonista”. In tali circostanze, adottava cautele particolari al fine di eludere il controllo delle forze dell’ordine, come l’utilizzo di chat dedicate create su piattaforme multimediali di difficile intercettazione (WhatsApp e Telegram).
Nell’azione delle due strutture è stato determinante l’uso della tecnologia e l’ampio ricorso ai sistemi di messaggistica istantanea da parte dei fruitori finali, che contattavano i loro pusher di riferimento per ordinare le dosi. In alcuni casi gli stessi pusher, per assicurarsi della qualità del prodotto ceduto, ricontattavano i clienti per acquisire una “recensione” sullo stupefacente e quindi fidelizzare il cliente.
La droga, chiamata in codice con diversi appellativi che ricordavano cibi o bevande (come ad es. “birra” o “pane fatto in casa”), veniva prelevata da nascondigli sicuri e preparata in piccole dosi prima di essere smerciata ai pusher per la diffusione sul territorio. Un sistema collaudato che ha permesso alle due frange di accumulare ingenti profitti nel Salento ionico, fino all’intervento di oggi.
Il bilancio complessivo dell’operazione è eloquente: dieci arresti in flagranza, il sequestro di quantitativi di cocaina, eroina, hashish e marijuana, che avrebbero potuto inondare il territorio con quasi 5.000 dosi da piazzare al dettaglio.
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha ritenuto gravi gli elementi investigativi acquisiti dai Carabinieri della Compagnia di Gallipoli, ha condiviso l’impostazione accusatoria della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, emettendo dunque l’ordinanza di custodia cautelare a cui il Comando Provinciale Carabinieri di Lecce ha dato esecuzione nella mattinata di oggi.
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