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2025-07-09
Sui dazi Berlino vuole la guerra Usa-Europa
Friedrich Merz e Donald Trump (Ansa)
Il bastone e la carota. È questa la strategia che Donald Trump sta continuando a usare sul commercio: una strategia che tuttavia sta irritando sia Berlino sia Pechino. Ma andiamo con ordine. L’altro ieri, il presidente americano ha inviato delle lettere a vari Paesi, fissando il livello tariffario che potrebbero dover affrontare per i beni da loro importati negli Stati Uniti. Giappone, Corea del Sud, Malesia, Kazakistan e Tunisia saranno soggetti a una pressione del 25%; Sudafrica e Bosnia del 30%; l’Indonesia del 32%; Bangladesh e Serbia del 35%; Cambogia e Thailandia del 36%; Laos e Myanmar, infine, del 40%. La Casa Bianca ha fatto inoltre sapere che, nei prossimi giorni, saranno inviate altre lettere. Il segretario al Commercio, Howard Lutnick, ha annunciato una quindicina di missive nei prossimi giorni.
Dall’altra parte, sempre lunedì, Trump ha firmato un ordine esecutivo stabilendo che le varie tariffe entreranno in vigore il 1° agosto: il che, come lasciato intendere dalla Cnn, ha scongiurato che le misure potessero scattare già oggi. Più ambiguo il presidente si è invece mostrato sulla deadline del 1° agosto stesso. Quando lunedì gli è stato chiesto se fosse «rigida», ha replicato: «Direi rigida, ma non rigida al 100%. Se ci chiamano e dicono che vorrebbero fare qualcosa di diverso, saremo aperti a questa possibilità». Tuttavia, tornando sull’argomento ieri, ha affermato: «Il pagamento delle tariffe inizierà il 1° agosto 2025. Questa data non ha subito modifiche e non subirà modifiche. In altre parole, tutti i pagamenti avverranno a partire dal 1° agosto 2025. Non saranno concesse proroghe». Il presidente non ha neanche escluso dei dazi «ancora più elevati».
Insomma, la Casa Bianca mostra, sì, un atteggiamento oscillante e fa la voce grossa, ma non sembra neanche propensa a una linea graniticamente dura. Pare piuttosto orientata a mettere sotto pressione i suoi interlocutori, in vista di ulteriori trattative. Non a caso, ieri, il presidente del Council of economic advisers della Casa Bianca, Stephen Miran, ha detto che potrebbero essere siglati dei nuovi accordi commerciali entro la fine di questa settimana. Sempre ieri, mentre La Verità andava in stampa, circolavano indiscrezioni secondo cui si fosse ormai a un passo da una «mini intesa» tra Washington e Nuova Delhi. Al contempo, il governo di Tokyo faceva sapere di voler proseguire «attivamente» le trattative con gli Usa, con particolare riferimento al settore automobilistico.
Continuano intanto i negoziati con l’Unione europea. Ieri, Trump ha detto che potrebbe presto fissare le aliquote tariffarie per l’Ue a cui potrebbe arrivare una lettera entro due giorni. Tutto questo, mentre, secondo Politico, Washington avrebbe proposto a Bruxelles un accordo in base a cui verrebbero imposti dazi del 10% a tutti i prodotti europei, pur a fronte di alcuni settori esentati (sono stati citati, in particolare, alcolici e aerei). Stando a Euractiv, i funzionari dell’Ue sarebbero comunque preoccupati, puntando alla salvaguardia di ulteriori comparti: siderurgia, automotive e farmaceutica. Nel frattempo, Bruxelles non esclude delle tariffe ritorsive in caso di naufragio dei negoziati con l’amministrazione statunitense: tariffe ritorsive che, in caso, potrebbero valere circa 72 miliardi di euro. Da questo punto di vista, è Berlino che spinge per l’approccio duro. «Vogliamo un accordo con gli americani, ma dico anche molto chiaramente che questo accordo deve essere equo. E, se non riusciremo a raggiungere un accordo equo con gli Stati Uniti, l’Unione europea dovrà adottare contromisure per proteggere la nostra economia», ha dichiarato ieri il ministro delle Finanze tedesco, Lars Klingbeil. Non è del resto un mistero che Berlino tema ricadute negative per la propria industria automobilistica. Al contempo, la Commissione europea sta incontrando delle difficoltà a tenere compatta l’Ue sulla questione dei dazi.
Ma Trump deve anche gestire il fronte cinese. Ieri, il Quotidiano del Popolo, vale a dire l’organo di stampa ufficiale del Pcc, ha annunciato che Pechino è pronta ad adottare delle «contromisure», qualora dovessero riprendere le tensioni commerciali tra Washington e la Repubblica popolare. Trump aveva d’altronde fatto sapere che avrebbe colpito con dazi più pesanti quei Paesi terzi che si fossero occupati di esportare merci cinesi verso gli Stati Uniti. Ricordiamo inoltre che Pechino ha tempo fino al 12 agosto per concludere un’intesa commerciale con Washington.
E attenzione: la Cina fa parte di quei Brics che Trump ha detto ieri di voler colpire «molto presto» con «dazi aggiuntivi al 10%». Il presidente americano si è irritato specialmente dopo che il blocco aveva de facto criticato la Casa Bianca sia per le politiche commerciali sia per i bombardamenti contro l’Iran (Paese che, ricordiamolo, è entrato nel gruppo). Vale la pena di sottolineare che, già a fine gennaio, Trump aveva lanciato minacce tariffarie contro i Brics a causa delle loro intenzioni volte a favorire un processo di de-dollarizzazione. La questione ha quindi anche una valenza di natura geopolitica, oltre che legata alla sicurezza nazionale. La Casa Bianca vede infatti nei dazi non solo uno strumento per tutelare i colletti blu della Rust belt ma anche per rendere più resilienti le catene di approvvigionamento: proprio ieri il presidente ha minacciato tariffe al 200% sui prodotti farmaceutici e ne ha annunciate altre al 50% sul rame.
Bilancio tedesco, 144 miliardi di buco. Ma è in arrivo una pioggia di sussidi
Il governo tedesco ha presentato al Bundestag il bilancio per il 2025 ed è subito polemica. Il ministro delle Finanze, il socialdemocratico Lars Klingbeil, ha presentato i conti per quest’anno, con grande ritardo a causa della congiuntura politica. Lo scorso anno proprio le discussioni sul bilancio 2025 portarono alla caduta del governo semaforo tra verdi, liberali e socialdemocratici. La Germania, dunque, si trova da gennaio in esercizio provvisorio e vi resterà fino all’approvazione di questo bilancio, prevista per settembre.
Il bilancio 2025 contiene una spesa di 503 miliardi di euro. Gli investimenti pubblici previsti ammontano a 115,7 miliardi di euro, di cui quasi 63 miliardi nel bilancio di base e il resto da fondi speciali. È previsto un nuovo debito di circa 143 miliardi di euro: 82 miliardi nel bilancio di base, 37 miliardi per le infrastrutture e 24 per la Difesa.
Il piano finanziario prevede un debito di 847 miliardi di euro al 2029, ma con un buco nel finanziamento di ben 144 miliardi dopo il 2027. Secondo le parole di Klingbeil, la maggiore crescita economica genererà le entrate necessarie a coprire il buco. Una bella scommessa, non c’è che dire, su cui ci sarà battaglia in Parlamento e su cui probabilmente anche la Corte dei conti avrà qualcosa da dire.
Il budget della Difesa passerà dai 62 miliardi di quest’anno a 153 miliardi nel 2029, pari al 3,5% del Pil, come da accordi in sede Nato.
Il ministro tedesco prevede un aumento degli interessi passivi sul debito, che raggiungeranno i 61,9 miliardi di euro nel 2029.
Al Bundestag il maggior partito di opposizione, Alternative für Deutschland (Afd), ha criticato l’aumento del debito: «I governi possono essere cacciati, ma il debito no», ha affermato l’esponente del partito Michael Espendiller. Per ragioni opposte, critiche anche le opposizioni di sinistra, Die Linke e i verdi.
Intanto ieri la Corte dei conti tedesca ha accusato il governo di inganno sulla spesa per la Difesa. La Corte critica Berlino per aver dichiarato nei suoi bilanci spese per la Difesa che in realtà sono destinate a tutt’altro. Questo dà al governo un margine di manovra per altre misure. La ragione di questi giochetti è semplice: la riforma costituzionale della scorsa primavera ha stabilito che tutte le spese per la Difesa superiori all’1% del Pil non saranno più soggette al freno al debito. Così, il governo ha deciso che la spesa di 1,2 miliardi di euro per il 2025 e di 1,5 miliardi di euro per gli anni successivi per il ripristino di strade e ferrovie sarà ora a carico del ministero della Difesa, insieme con altre spese per 3 miliardi di euro.
Il governo guidato da Friedrich Merz prevede altresì un piano di sussidi da 4 miliardi destinato a ridurre i costi energetici per circa 2.200 imprese per tre anni. Il sussidio coprirà il 50% del prezzo dell’energia per le aziende energivore con un minimo di 50 euro/megawattora. Su questa misura vi è stata grande polemica nel Paese, perché il governo ha annullato le agevolazioni fiscali sull’elettricità promesse nell’accordo di coalizione. Il ministro dell’Economia Katherina Reiche (Cdu) ha detto agli industriali che occorreva trovare un compromesso «tra le possibilità finanziarie e la realtà». Vi saranno inoltre sgravi fiscali per le imprese per circa 46 miliardi nel quadriennio 2025-29.
L’economia continua però a preoccupare. Dopo il dato sugli ordini manifatturieri, in calo dell’1,4% (il calo degli ordini interni è del 7,8% e quello dall’area euro è del 6,5%), è arrivato il dato sulle esportazioni tedesche, in calo a maggio (-1,4% a 129,4 miliardi) a causa della domanda statunitense più debole degli ultimi tre anni. Unico dato positivo, la produzione industriale di maggio, che è salita dell’1,2% rispetto al mese precedente e dell’1% rispetto ad un anno prima.
Intanto, la Porsche continua a perdere quote di mercato in Cina, mentre nel complesso nel primo semestre le vendite del gruppo sono in calo del 6%. E ieri Daimler truck ha annunciato il taglio di 5.000 posti di lavoro in Germania.
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Mentre continua la trattativa, la Germania alza il tiro: «Contromisure senza un accordo equo». Trump: «La scadenza del 1° agosto non verrà spostata. Lettera all’Ue entro due giorni. In arrivo altre sanzioni al 200% sui farmaci, al 50% sul rame e al 10% sui Brics».Germania, presentata la manovra: aiuti per le imprese energivore e maxi spese per la Difesa.Lo speciale contiene due articoli.Il bastone e la carota. È questa la strategia che Donald Trump sta continuando a usare sul commercio: una strategia che tuttavia sta irritando sia Berlino sia Pechino. Ma andiamo con ordine. L’altro ieri, il presidente americano ha inviato delle lettere a vari Paesi, fissando il livello tariffario che potrebbero dover affrontare per i beni da loro importati negli Stati Uniti. Giappone, Corea del Sud, Malesia, Kazakistan e Tunisia saranno soggetti a una pressione del 25%; Sudafrica e Bosnia del 30%; l’Indonesia del 32%; Bangladesh e Serbia del 35%; Cambogia e Thailandia del 36%; Laos e Myanmar, infine, del 40%. La Casa Bianca ha fatto inoltre sapere che, nei prossimi giorni, saranno inviate altre lettere. Il segretario al Commercio, Howard Lutnick, ha annunciato una quindicina di missive nei prossimi giorni.Dall’altra parte, sempre lunedì, Trump ha firmato un ordine esecutivo stabilendo che le varie tariffe entreranno in vigore il 1° agosto: il che, come lasciato intendere dalla Cnn, ha scongiurato che le misure potessero scattare già oggi. Più ambiguo il presidente si è invece mostrato sulla deadline del 1° agosto stesso. Quando lunedì gli è stato chiesto se fosse «rigida», ha replicato: «Direi rigida, ma non rigida al 100%. Se ci chiamano e dicono che vorrebbero fare qualcosa di diverso, saremo aperti a questa possibilità». Tuttavia, tornando sull’argomento ieri, ha affermato: «Il pagamento delle tariffe inizierà il 1° agosto 2025. Questa data non ha subito modifiche e non subirà modifiche. In altre parole, tutti i pagamenti avverranno a partire dal 1° agosto 2025. Non saranno concesse proroghe». Il presidente non ha neanche escluso dei dazi «ancora più elevati». Insomma, la Casa Bianca mostra, sì, un atteggiamento oscillante e fa la voce grossa, ma non sembra neanche propensa a una linea graniticamente dura. Pare piuttosto orientata a mettere sotto pressione i suoi interlocutori, in vista di ulteriori trattative. Non a caso, ieri, il presidente del Council of economic advisers della Casa Bianca, Stephen Miran, ha detto che potrebbero essere siglati dei nuovi accordi commerciali entro la fine di questa settimana. Sempre ieri, mentre La Verità andava in stampa, circolavano indiscrezioni secondo cui si fosse ormai a un passo da una «mini intesa» tra Washington e Nuova Delhi. Al contempo, il governo di Tokyo faceva sapere di voler proseguire «attivamente» le trattative con gli Usa, con particolare riferimento al settore automobilistico. Continuano intanto i negoziati con l’Unione europea. Ieri, Trump ha detto che potrebbe presto fissare le aliquote tariffarie per l’Ue a cui potrebbe arrivare una lettera entro due giorni. Tutto questo, mentre, secondo Politico, Washington avrebbe proposto a Bruxelles un accordo in base a cui verrebbero imposti dazi del 10% a tutti i prodotti europei, pur a fronte di alcuni settori esentati (sono stati citati, in particolare, alcolici e aerei). Stando a Euractiv, i funzionari dell’Ue sarebbero comunque preoccupati, puntando alla salvaguardia di ulteriori comparti: siderurgia, automotive e farmaceutica. Nel frattempo, Bruxelles non esclude delle tariffe ritorsive in caso di naufragio dei negoziati con l’amministrazione statunitense: tariffe ritorsive che, in caso, potrebbero valere circa 72 miliardi di euro. Da questo punto di vista, è Berlino che spinge per l’approccio duro. «Vogliamo un accordo con gli americani, ma dico anche molto chiaramente che questo accordo deve essere equo. E, se non riusciremo a raggiungere un accordo equo con gli Stati Uniti, l’Unione europea dovrà adottare contromisure per proteggere la nostra economia», ha dichiarato ieri il ministro delle Finanze tedesco, Lars Klingbeil. Non è del resto un mistero che Berlino tema ricadute negative per la propria industria automobilistica. Al contempo, la Commissione europea sta incontrando delle difficoltà a tenere compatta l’Ue sulla questione dei dazi. Ma Trump deve anche gestire il fronte cinese. Ieri, il Quotidiano del Popolo, vale a dire l’organo di stampa ufficiale del Pcc, ha annunciato che Pechino è pronta ad adottare delle «contromisure», qualora dovessero riprendere le tensioni commerciali tra Washington e la Repubblica popolare. Trump aveva d’altronde fatto sapere che avrebbe colpito con dazi più pesanti quei Paesi terzi che si fossero occupati di esportare merci cinesi verso gli Stati Uniti. Ricordiamo inoltre che Pechino ha tempo fino al 12 agosto per concludere un’intesa commerciale con Washington.E attenzione: la Cina fa parte di quei Brics che Trump ha detto ieri di voler colpire «molto presto» con «dazi aggiuntivi al 10%». Il presidente americano si è irritato specialmente dopo che il blocco aveva de facto criticato la Casa Bianca sia per le politiche commerciali sia per i bombardamenti contro l’Iran (Paese che, ricordiamolo, è entrato nel gruppo). Vale la pena di sottolineare che, già a fine gennaio, Trump aveva lanciato minacce tariffarie contro i Brics a causa delle loro intenzioni volte a favorire un processo di de-dollarizzazione. La questione ha quindi anche una valenza di natura geopolitica, oltre che legata alla sicurezza nazionale. La Casa Bianca vede infatti nei dazi non solo uno strumento per tutelare i colletti blu della Rust belt ma anche per rendere più resilienti le catene di approvvigionamento: proprio ieri il presidente ha minacciato tariffe al 200% sui prodotti farmaceutici e ne ha annunciate altre al 50% sul rame.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/germania-usa-dazi-2672964378.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="bilancio-tedesco-144-miliardi-di-buco-ma-e-in-arrivo-una-pioggia-di-sussidi" data-post-id="2672964378" data-published-at="1752005069" data-use-pagination="False"> Bilancio tedesco, 144 miliardi di buco. Ma è in arrivo una pioggia di sussidi Il governo tedesco ha presentato al Bundestag il bilancio per il 2025 ed è subito polemica. Il ministro delle Finanze, il socialdemocratico Lars Klingbeil, ha presentato i conti per quest’anno, con grande ritardo a causa della congiuntura politica. Lo scorso anno proprio le discussioni sul bilancio 2025 portarono alla caduta del governo semaforo tra verdi, liberali e socialdemocratici. La Germania, dunque, si trova da gennaio in esercizio provvisorio e vi resterà fino all’approvazione di questo bilancio, prevista per settembre.Il bilancio 2025 contiene una spesa di 503 miliardi di euro. Gli investimenti pubblici previsti ammontano a 115,7 miliardi di euro, di cui quasi 63 miliardi nel bilancio di base e il resto da fondi speciali. È previsto un nuovo debito di circa 143 miliardi di euro: 82 miliardi nel bilancio di base, 37 miliardi per le infrastrutture e 24 per la Difesa.Il piano finanziario prevede un debito di 847 miliardi di euro al 2029, ma con un buco nel finanziamento di ben 144 miliardi dopo il 2027. Secondo le parole di Klingbeil, la maggiore crescita economica genererà le entrate necessarie a coprire il buco. Una bella scommessa, non c’è che dire, su cui ci sarà battaglia in Parlamento e su cui probabilmente anche la Corte dei conti avrà qualcosa da dire.Il budget della Difesa passerà dai 62 miliardi di quest’anno a 153 miliardi nel 2029, pari al 3,5% del Pil, come da accordi in sede Nato.Il ministro tedesco prevede un aumento degli interessi passivi sul debito, che raggiungeranno i 61,9 miliardi di euro nel 2029.Al Bundestag il maggior partito di opposizione, Alternative für Deutschland (Afd), ha criticato l’aumento del debito: «I governi possono essere cacciati, ma il debito no», ha affermato l’esponente del partito Michael Espendiller. Per ragioni opposte, critiche anche le opposizioni di sinistra, Die Linke e i verdi.Intanto ieri la Corte dei conti tedesca ha accusato il governo di inganno sulla spesa per la Difesa. La Corte critica Berlino per aver dichiarato nei suoi bilanci spese per la Difesa che in realtà sono destinate a tutt’altro. Questo dà al governo un margine di manovra per altre misure. La ragione di questi giochetti è semplice: la riforma costituzionale della scorsa primavera ha stabilito che tutte le spese per la Difesa superiori all’1% del Pil non saranno più soggette al freno al debito. Così, il governo ha deciso che la spesa di 1,2 miliardi di euro per il 2025 e di 1,5 miliardi di euro per gli anni successivi per il ripristino di strade e ferrovie sarà ora a carico del ministero della Difesa, insieme con altre spese per 3 miliardi di euro.Il governo guidato da Friedrich Merz prevede altresì un piano di sussidi da 4 miliardi destinato a ridurre i costi energetici per circa 2.200 imprese per tre anni. Il sussidio coprirà il 50% del prezzo dell’energia per le aziende energivore con un minimo di 50 euro/megawattora. Su questa misura vi è stata grande polemica nel Paese, perché il governo ha annullato le agevolazioni fiscali sull’elettricità promesse nell’accordo di coalizione. Il ministro dell’Economia Katherina Reiche (Cdu) ha detto agli industriali che occorreva trovare un compromesso «tra le possibilità finanziarie e la realtà». Vi saranno inoltre sgravi fiscali per le imprese per circa 46 miliardi nel quadriennio 2025-29.L’economia continua però a preoccupare. Dopo il dato sugli ordini manifatturieri, in calo dell’1,4% (il calo degli ordini interni è del 7,8% e quello dall’area euro è del 6,5%), è arrivato il dato sulle esportazioni tedesche, in calo a maggio (-1,4% a 129,4 miliardi) a causa della domanda statunitense più debole degli ultimi tre anni. Unico dato positivo, la produzione industriale di maggio, che è salita dell’1,2% rispetto al mese precedente e dell’1% rispetto ad un anno prima.Intanto, la Porsche continua a perdere quote di mercato in Cina, mentre nel complesso nel primo semestre le vendite del gruppo sono in calo del 6%. E ieri Daimler truck ha annunciato il taglio di 5.000 posti di lavoro in Germania.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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