- Comunicazioni, pagamenti, comandi militari: il 95% del traffico digitale globale passa sui fondali marini. Una infrastruttura delicata, difesa da (scarsi) investimenti privati.
- L’esperto Elio Calcagno: «La miglior protezione è la ridondanza: va aumentato il numero di collegamenti per evitare che da un solo snodo dipendano troppi scambi di dati. La Cina sta investendo ingenti risorse per mappare la rete».
Comunicazioni, pagamenti, comandi militari: il 95% del traffico digitale globale passa sui fondali marini. Una infrastruttura delicata, difesa da (scarsi) investimenti privati.L’esperto Elio Calcagno: «La miglior protezione è la ridondanza: va aumentato il numero di collegamenti per evitare che da un solo snodo dipendano troppi scambi di dati. La Cina sta investendo ingenti risorse per mappare la rete».Lo speciale contiene due articoli.All’inizio del 1959, nel pieno delle tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica sulla crisi di Berlino, cinque cavi transatlantici smisero improvvisamente di funzionare. A Washington scattò l’allarme: non erano linee qualsiasi, ma le arterie vitali attraverso cui passavano i messaggi più sensibili di intelligence e difesa della Nato. Il sospetto cadde immediatamente sul Cremlino, anche perché nelle vicinanze era stato avvistato un peschereccio sovietico. Non emersero prove concrete, ma quell’episodio bastò per spingere l’Alleanza Atlantica a considerare la resilienza dei cavi una priorità strategica, inaugurando un’epoca in cui la vulnerabilità delle reti sottomarine entrò a pieno titolo tra le questioni di sicurezza nazionale. Sessanta anni dopo, la situazione non è molto diversa. Oggi esistono più di 550 cavi sottomarini attivi che si estendono per oltre 1,3 milioni di chilometri di fondale marino. Sono le autostrade invisibili dell’informazione, attraverso cui passa circa il 95% delle telecomunicazioni mondiali. La loro funzione non si limita al traffico civile e commerciale: quelle fibre trasmettono anche dati sensibili, messaggi di comando e flussi critici per le operazioni militari. La fragilità è evidente: i cavi sono lunghi, fissi e difficili da proteggere, diventando così un bersaglio perfetto tanto per incidenti quanto per attacchi deliberati. Le cronache recenti confermano questi timori. Alla fine del 2024, nel Mar Baltico, una serie di interruzioni compromise le connessioni europee e costrinse le autorità a ipotizzare un sabotaggio. Sebbene l’ipotesi prevalente resti quella di incidenti, la vicenda ha mostrato quanto poco serva per destabilizzare la rete. Nello stesso anno, nel Mar Rosso, si registrarono danni a più cavi che collegano Asia ed Europa. Il traffico digitale tra i due continenti calò del 25% e ci vollero oltre dieci giorni per riportarlo ai livelli precedenti. La portata di questi episodi non è marginale: basta un taglio per isolare interi Paesi, bloccare flussi finanziari o ritardare comunicazioni strategiche. Il problema non è nuovo. Tra il 1957 e il 1959 furono registrate 122 rotture di cavi transatlantici, perlopiù dovute a reti da pesca, e negli ultimi quindici anni la media globale si è attestata intorno ai 200 guasti l’anno. Alcuni casi hanno fatto storia: nel 1964 un terremoto sottomarino recise il cavo del Commonwealth Pacific che collegava Canada e Hawaii, interrompendo le comunicazioni commerciali e militari. La continuità fu garantita grazie alle radio a onde corte. Molto più di recente, nel 2022, un’eruzione vulcanica distrusse l’unico cavo di Tonga. L’isola rimase isolata per settimane e poté tornare online solo grazie a 50 terminali Starlink donati da SpaceX. Due anni più tardi lo stesso cavo si ruppe di nuovo e ci vollero oltre trenta giorni per ripristinarlo. Anche le Svalbard, l’arcipelago norvegese che ospita una delle più grandi stazioni satellitari al mondo, subirono nel 2022 il taglio di uno dei due cavi che lo collegano alla terraferma. In piena crisi ucraina il sospetto di un sabotaggio russo fu inevitabile, anche se mai dimostrato. Questi episodi raccontano che il vero punto critico non è tanto evitare i danni quanto garantire la continuità del traffico. Negli anni della Guerra Fredda, gli Stati Uniti e i loro alleati maturarono la consapevolezza che la resilienza passa dalla ridondanza dei percorsi e dalla rapidità nelle riparazioni. Non a caso già allora si iniziò a diversificare le rotte, a integrare cavi e radio, e infine a utilizzare anche i satelliti, creando una «stratificazione» che rendeva molto più difficile isolare del tutto la Nato con un singolo attacco. Oggi però la sfida è ancora più complessa. La flotta mondiale di posa e riparazione dei cavi conta appena 62 navi, con un’età media superiore ai 25 anni. Secondo le proiezioni, entro il 2040 quasi la metà sarà fuori servizio, mentre la lunghezza complessiva dei cavi aumenterà del 48%. Il divario tra domanda e capacità di manutenzione rischia di diventare esplosivo. Una nave di posa costa oltre 100 milioni di dollari e i margini del settore sono così bassi che poche aziende hanno interesse a investire. Gli Stati Uniti hanno creato il programma Cable Security Fleet, che prevede l’utilizzo di due navi commerciali in caso di emergenza nazionale. Ma due imbarcazioni per coprire un sistema globale che regge il 95% del traffico digitale appaiono del tutto insufficienti. A rendere il quadro più complicato è la natura stessa del settore, ormai dominato dalle logiche di mercato. Google, Meta e altri colossi finanziano gran parte dei consorzi che costruiscono e gestiscono i cavi, mentre le manutenzioni sono affidate a operatori privati che vedono in questo comparto un business poco redditizio. È un paradosso: infrastrutture strategiche per la sicurezza degli Stati vengono governate da interessi privati, senza un impegno diretto degli Stati. Durante la Guerra Fredda il Regno Unito manteneva una piccola flotta pubblica di riparazione, proprio per garantire l’indipendenza in caso di crisi. Oggi quella capacità è scomparsa, e i governi devono negoziare con le aziende per ottenere interventi che hanno impatti diretti sulla difesa nazionale. Alcuni analisti propongono di rafforzare la sorveglianza dei fondali con veicoli sottomarini autonomi dotati di sensori. Questi sistemi sarebbero in grado di rilevare anomalie e potenziali minacce, migliorando l’attribuzione delle responsabilità. Tuttavia, anche con le tecnologie più sofisticate, resta irrisolto il problema centrale: individuare un danno non significa poterlo riparare in tempi rapidi, e distinguere tra un incidente e un sabotaggio continua a essere spesso impossibile. La posta in gioco, del resto, non riguarda solo la connettività civile. I cavi sottomarini sono ormai il tessuto connettivo della rivoluzione digitale e della guerra moderna. Su di essi si fonda lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, la stabilità dei mercati finanziari globali e la capacità del Pentagono di gestire i propri sistemi di comando e controllo. Nell’Indo-Pacifico, dove transitano alcune delle rotte più dense, Paesi come Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda considerano la resilienza dei cavi una questione di sopravvivenza nazionale. Non a caso le loro marine militari hanno iniziato a includere la protezione delle dorsali sottomarine nei piani strategici. Il futuro non lascia spazio a dubbi: entro il 2040 i chilometri totali di cavi cresceranno quasi del 50% rispetto a oggi. Ma questa espansione rischia di diventare insostenibile senza un investimento parallelo nelle flotte di posa e riparazione. La lezione della storia è chiara: non esiste protezione assoluta, ma esiste la capacità di rialzarsi subito dopo un taglio. È questa la vera forza strategica, trasformare un’infrastruttura fragile in un sistema resiliente. Perché su quelle fibre, invisibili e silenziose, corre il destino della connettività mondiale, dell’economia digitale e della sicurezza internazionale.
Il toro iconico di Wall Street a New York (iStock)
Democratici spaccati sul via libera alla ripresa delle attività Usa. E i mercati ringraziano. In evidenza Piazza Affari: + 2,28%.
Il più lungo shutdown della storia americana - oltre 40 giorni - si sta avviando a conclusione. O almeno così sembra. Domenica sera, il Senato statunitense ha approvato, con 60 voti a favore e 40 contrari, una mozione procedurale volta a spianare la strada a un accordo di compromesso che, se confermato, dovrebbe prorogare il finanziamento delle agenzie governative fino al 30 gennaio. A schierarsi con i repubblicani sono stati sette senatori dem e un indipendente affiliato all’Asinello. In base all’intesa, verranno riattivati vari programmi sociali (tra cui l’assistenza alimentare per le persone a basso reddito), saranno bloccati i licenziamenti del personale federale e saranno garantiti gli arretrati ai dipendenti che erano stati lasciati a casa a causa del congelamento delle agenzie governative. Resta tuttavia sul tavolo il nodo dei sussidi previsti ai sensi dell’Obamacare. L’accordo prevede infatti che se ne discuterà a dicembre, ma non garantisce che la loro estensione sarà approvata: un’estensione che, ricordiamolo, era considerata un punto cruciale per gran parte del Partito democratico.
2025-11-10
Indivia belga, l’insalata ideale nei mesi freddi per integrare acqua e fibre e combattere lo stress
iStock
In autunno e in inverno siamo portati (sbagliando) a bere di meno: questa verdura è ottima per idratarsi. E per chi ha l’intestino un po’ pigro è un toccasana.
Si chiama indivia belga, ma ormai potremmo conferirle la cittadinanza italiana onoraria visto che è una delle insalate immancabili nel banco del fresco del supermercato e presente 365 giorni su 365, essendo una verdura a foglie di stagione tutto l’anno. Il nome non è un non senso: è stata coltivata e commercializzata per la prima volta in Belgio, nel XIX secolo, partendo dalla cicoria di Magdeburgo. Per questo motivo è anche chiamata lattuga belga, radicchio belga oppure cicoria di Bruxelles, essendo Bruxelles in Belgio, oltre che cicoria witloof: witloof in fiammingo significa foglia bianca e tale specificazione fa riferimento al colore estremamente chiaro delle sue foglie, un giallino così delicato da sfociare nel bianco, dovuto a un procedimento che si chiama forzatura. Cos’è questa forzatura?
Zohran Mamdani (Ansa)
Nella religione musulmana, la «taqiyya» è una menzogna rivolta agli infedeli per conquistare il potere. Il neosindaco di New York ne ha fatto buon uso, associandosi al mondo Lgbt che, pur incompatibile col suo credo, mina dall’interno la società occidentale.
Le «promesse da marinaio» sono impegni che non vengono mantenuti. Il detto nasce dalle numerose promesse fatte da marinai ad altrettanto numerose donne: «Sì, certo, sei l’unica donna della mia vita; Sì, certo, ti sposo», salvo poi salire su una nave e sparire all’orizzonte. Ma anche promesse di infiniti Rosari, voti di castità, almeno di non bestemmiare, perlomeno non troppo, fatte durante uragani, tempeste e fortunali in cambio della salvezza, per essere subito dimenticate appena il mare si cheta. Anche le promesse elettorali fanno parte di questa categoria, per esempio le promesse con cui si diventa sindaco.
Ecco #DimmiLaVerità del 10 novembre 2025. Il deputato di Sud chiama Nord Francesco Gallo ci parla del progetto del Ponte sullo Stretto e di elezioni regionali.






