2019-12-13
Casapound vince la battaglia di libertà. Facebook non può cancellare le pagine
Roma, il magistrato dispone l'immediata riattivazione del social Il gip di Siena: no al sequestro del profilo Twitter del prof filonazi.I social network non possono essere arbitri assoluti della libertà di espressione nei Paesi occidentali. È questo, in soldoni, ciò che emerge dalla clamorosa sentenza del giudice Stefania Garrisi che ha accolto il ricorso di Casapound Italia contro Facebook, che lo scorso 9 settembre aveva disattivato la pagina nazionale del movimento e tutte le pagine locali, nonché quelle personali dei suoi principali esponenti politici. Cpi aveva scelto di appellarsi alla magistratura contro quello che aveva definito un attentato alla libertà d'espressione. Ieri è arrivata la sentenza con cui il giudice ha disposto «l'immediata riattivazione della pagina dell'associazione di promozione sociale Casapound». Non solo: il magistrato chiede al social network di pagare 15.000 euro di spese processuali, nonché una penale di 800 euro «per ogni giorno di violazione dell'ordine impartito, successivo alla conoscenza legale dello stesso». Le ostilità tra il movimento di Gianluca Iannone e Mark Zuckerberg si erano aperte, come detto, lo scorso 9 settembre: mentre l'Italia seguiva il dibattito sulla fiducia al governo Conte bis, Facebook e Instagram avevano deciso arbitrariamente di cancellare tutti i profili ufficiali legati a Casapound: pagina nazionale, pagine locali, i profili pubblici dei dirigenti ma anche quelli privati dei gestori delle stesse. Lo stesso era accaduto a Forza Nuova, per un totale di un migliaio di cancellazioni fra profili e pagine. Il social network aveva spiegato che «le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram». La multinazionale americana proprietaria di entrambe le piattaforme aveva inoltre spiegato di aver monitorato non solo l'attività online, ma anche quella offline dei movimenti messi nel mirino: non solo il «linguaggio d'odio», quindi, ma anche i comportamenti nella vita reale. Una pretesa decisamente eccessiva, che si è infine scontrata con la giustizia italiana. Il tribunale civile di Roma ha infatti spiegato che quello tra Casapound e Facebook «non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto Facebook, ricopre una speciale posizione» tale da essere particolarmente vincolata al rispetto della libertà di espressione. Si spiega, infatti, come sia ormai «evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all'attuazione di principi cardine essenziali dell'ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento». Il social network deve quindi «strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell'utente». Una bella bordata ai deliri di onnipotenza della multinazionale statunitense, che si è limitata a un laconico comunicato: «Siamo a conoscenza della decisione del tribunale civile di Roma e la stiamo attentamente esaminando». Rimane a bocca asciutta, quindi, quella sinistra che aveva esultato per il provvedimento censorio, arrivando a sostenere che fossero semmai i magistrati italiani a dover apprendere i rudimenti del diritto costituzionale da Menlo Park. Peccato che, solo poche settimane dopo, la stessa arbitraria censura si era abbattuta su una serie di pagine di sostegno alla causa curda (erano i giorni della guerra al confine tra Siria e Turchia), per lo più legate al mondo dell'antagonismo di sinistra. Poco tempo dopo, anche le neonate Sardine si erano scontrate con i meccanismi orwelliani dell'algoritmo di Facebook vedendo la loro pagina cancellata. Insomma, si era puntualmente avverato quello che qualche commentatore aveva paventato dopo la purga anti Casapound: una volta sdoganato l'arbitrio censorio contro chi ci sta sulle scatole, ne farà le spese anche chi ci sta simpatico. «Questa sentenza smentisce finalmente chi segue a pappagallo i diktat globalisti e sostiene arbitrariamente che “i privati e le multinazionali fanno quello che vogliono". Oggi un giudice ha stabilito che in una nazione comandano ancora i popoli e lo stato di diritto», ha commentato a caldo l'ex candidato premier di Casapound, Simone Di Stefano, sul portale sovranista Il Primato nazionale. Sullo stesso sito, il presidente Gianluca Iannone ha detto che ieri è stata «una bella giornata, abbiamo vinto e portiamo a casa una sentenza importante che dimostra come il tribunale politico messo su contro di noi non avesse motivo di esistere». Ma ieri i giudici italiani si sono dovuti occupare anche di Twitter. Il giudice per le indagini preliminari di Siena, Roberta Malavasi, ha infatti disposto che non venga sequestrato il profilo Twitter di Emanuele Castrucci, il professore di Filosofia del diritto che aveva postato online frasi che inneggiavano a Hitler. Un profilo bifronte, quello di Castrucci: raffinato traduttore per Adelphi di libri importanti come Il nomos della terra, di Carl Schmitt, ma anche esondante utente social dai riferimenti decisamente estremisti. Secondo il gip, nel post incriminato non ci sarebbero gli estremi del reato di propaganda e istigazione all'odio razziale, ma si tratterebbe di una rilettura storica e apologetica della figura del dittatore. L'ateneo ha comunque stabilito che per il momento il professore non possa fare lezione e tenere sessioni d'esame.