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2023-03-16
«Contro gli immobili verdi usiamo la frattura nella coalizione Ursula»
La battaglia contro la patrimoniale europea sulla casa è solo all’inizio. È il concetto su cui stanno insistendo da martedì pomeriggio tutti gli esponenti dei gruppi dell’Europarlamento che hanno detto no alla direttiva green, in particolare i deputati dei partiti del centrodestra italiano, i quali hanno dato prova di compattezza, favorendo una spaccatura in seno a Popolari e liberali che induce a essere ottimisti per i prossimi passaggi.
Perché l’iter delle leggi europee è piuttosto complesso, e sebbene il voto della plenaria che impone un salasso ai milioni di proprietari di case del nostro Paese in nome dell’efficientamento energetico a tappe forzate abbia sicuramente indirizzato la partita verso l’esito più infausto per chi chiedeva ragionevolezza, gli step che mancano affinché il percorso legislativo possa dirsi completo sono diversi.
Tanto per cominciare, nell’architettura tricefala con cui è stata costituita l’Ue, il via libera alla direttiva ha certificato qual è la posizione del Parlamento europeo. Che è quella più estrema e condizionata dall’ideologia, dato il forte peso delle sinistre a Strasburgo. Il testo approvato martedì ora sarà sul tavolo del cosiddetto trilogo, vale a dire l’interlocuzione tra l’Europarlamento, la Commissione e il Consiglio: queste due ultime istituzioni, come è noto, avevano manifestato posizioni più morbide o quantomeno improntate a maggiore flessibilità. Qualora questa fase di negoziazione al più alto livello europeo porti a un esito che modifichi il testo approvato a Strasburgo, si dovrebbe procedere a una seconda lettura in Parlamento, dove ovviamente le varie forze politiche valuterebbero dette modifiche e si comporterebbero in Aula di conseguenza. A quel punto, visti i numerosi dubbi espressi dai Popolari ma anche dai liberali di Renew, le possibilità di un ammorbidimento si farebbero più concrete. La fase in cui i partiti della maggioranza che sostiene il governo di Giorgia Meloni ripongono più speranze, però, è quella del negoziato con i governi nazionali, che investe anche le modalità di recepimento della direttiva.
Qui il nostro esecutivo è stato chiarissimo: all’inizio di questa settimana, infatti, la Camera dei deputati ha approvato una mozione presentata su iniziativa della Lega e votata da tutto il centrodestra che impegna il governo a stoppare il testo attuale. Posizione che il presidente del Consiglio ha ribadito anche ieri nel corso del question time a Montecitorio, quando ha detto che si tratta di un testo che «prevede obiettivi temporali non raggiungibili per l’Italia, il cui patrimonio immobiliare è inserito in un contesto molto diverso da quello di altri Stati membri per ragioni storiche, per ragioni di conformazione geografica oltre che per una radicata visione della casa come bene rifugio delle famiglie italiane» e che «l’azione negoziale italiana in sede di Consiglio europeo aveva consentito di rivedere le tempistiche di adeguamento delle prestazioni energetiche degli edifici per renderle più graduali e meno stringenti, e in modo da garantire l’esenzione per alcune categorie», mentre «con il voto di ieri (martedì, ndr) il Parlamento europeo ha ritenuto di inasprire ulteriormente il testo iniziale e questa scelta che noi consideriamo irragionevole, mossa da un approccio ideologico, impone al governo di continuare a battersi per difendere gli interessi dei cittadini e della nazione».
Nelle fila della Lega, a Bruxelles come a Roma, l’attenzione è ora volta a definire la strategia per questi passaggi: gli emendamenti proposti dalla pattuglia europea leghista in stretto coordinamento con Fdi e Fi sono stati tutti respinti, e gli accolti tra quelli presentati dagli altri gruppi non smuovono di un millimetro l’impianto della direttiva. Il presidente leghista del gruppo Id Marco Zanni spiega che «la lotta per difendere le case degli italiani è appena cominciata e noi continueremo a opporci a ogni livello, per fermare questa eurofollia, proprio come sta accadendo con un’altra proposta di Bruxelles che ci ha trovato fortemente contrari, quella sul bando alle auto a diesel e benzina dal 2035 e che ha visto l’Italia tornare protagonista in Europa per guidare il fronte del no grazie all’iniziativa di Matteo Salvini e del governo». «È necessario fare squadra con altri Paesi, spiega Zanni, «per creare un fronte comune capace di arginare e fermare questa direttiva. Non riusciamo a comprendere l’entusiasmo di Pd e M5s per una norma che porterebbe nuove imposizioni e nuovi oneri agli italiani, come un’europatrimoniale nascosta, da decine di migliaia di euro a famiglia. Tuttavia l’esito del voto in plenaria, con una coalizione Ursula ormai ridotta in pezzi, lascia ben sperare in vista dei negoziati del trilogo e dei successivi passaggi: il voto negativo da parte di molti, a cominciare dai Popolari tedeschi, è significativo e conferma che la maggioranza è tutto fuorché compatta. Siamo certi che riusciremo a ottenere importanti risultati a difesa dell’Italia e degli italiani», conclude Zanni , «La battaglia è appena cominciata».
Primi obblighi nel 2026. In meno di dieci anni soltanto edifici in classe D
Quella disegnata dalla direttiva sulla casa green è una marcia a tappe forzate che impone traguardi impossibili da raggiungere nei tempi stabiliti a tavolino. Già l’obiettivo di lungo periodo che si staglia all’orizzonte fa tremare i polsi: entro il 2050, gli immobili europei dovranno essere a emissioni zero. Peccato che, come rivela il testo approvato dall’Europarlamento, il 75 % degli immobili dell’Unione sia «tuttora inefficiente sul piano energetico. Il gas naturale è usato principalmente per il riscaldamento degli edifici e rappresenta circa il 42% dell’energia utilizzata per il riscaldamento degli ambienti nel settore residenziale. Seguono il petrolio, con il 14%, e il carbone, con circa il 3%».
I primi a doversi adeguare saranno i nuovi edifici, sui quali sarà almeno possibile intervenire già in fase di progettazione. Fra meno di tre anni, ovvero dal 1° gennaio 2026, tutti i nuovi edifici occupati, gestiti o di proprietà delle autorità pubbliche dovranno essere a emissioni zero. La norma poi si estenderà, a partire dal 1° gennaio 2028, agli edifici privati in costruzione.
Passiamo alla stangata per gli immobili esistenti. Dal 1° gennaio 2027 dovranno fare il salto in classe E tutti gli edifici non residenziali privati e tutti gli edifici e le unità immobiliari di proprietà di enti pubblici, che dovranno poi salire in classe D entro il 1° gennaio 2030. Agli edifici residenziali privati invece viene concesso qualche anno in più: dovranno raggiungere la classe E entro il 1° gennaio 2030 e la classe D entro il 1° gennaio 2033. Verranno introdotte nuove prescrizioni anche per quel che riguarda l’installazione di pannelli fotovoltaici: tutti i nuovi edifici per cui sarà tecnicamente ed economicamente possibile dovranno dotarsi di tecnologie solari entro il 2028. Il limite massimo si sposta al 2032 per gli edifici residenziali oggetto di importanti ristrutturazioni.
Tutto quello che potranno fare i proprietari, che secondo le prime stime saranno costretti a sborsare fra i 40.000 e i 60.000 euro per ogni appartamento, sarà decidere se affrontare e pagare una ristrutturazione monstre una volta sola per raggiungere l’agognata classe D o se eseguire più interventi nel tempo. L’Ue nel frattempo stabilirà criteri uniformi per assegnare la classe energetica agli edifici, scavalcando le norme nazionali.
Ogni Stato dovrà poi preparare un piano nazionale di ristrutturazione e «una tabella di marcia dettagliata fino al 2050 del fabbisogno d’investimenti per l’attuazione del piano nazionale di ristrutturazione, delle fonti e delle misure di finanziamento pubbliche e private e delle risorse amministrative per la ristrutturazione degli edifici». La tabella di marcia comprenderà «obiettivi nazionali ed emissioni nell’intero ciclo di vita per le diverse tipologie di edifici, da fissare a seguito dell’esercizio di valutazione globale, per il 2025 (meno di due anni, ndr), il 2030, il 2035 e il 2040, conformemente al meccanismo “al rialzo” stabilito nell’accordo di Parigi e a una tabella di marcia sulle prestazioni nell’intero ciclo di vita».
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Consiglio e Commissione possono bloccare tutto. Giorgia Meloni annuncia battaglia. L’eurodeputato Marco Zanni: «Popolari spaccati dopo il no dei tedeschi. Fermeremo questa follia come il bando dei motori termici».Se non ci saranno modifiche, gli Stati dovranno presentare una tabella di marcia da aggiornare al rialzo ogni cinque anni.Lo speciale contiene due articoli.La battaglia contro la patrimoniale europea sulla casa è solo all’inizio. È il concetto su cui stanno insistendo da martedì pomeriggio tutti gli esponenti dei gruppi dell’Europarlamento che hanno detto no alla direttiva green, in particolare i deputati dei partiti del centrodestra italiano, i quali hanno dato prova di compattezza, favorendo una spaccatura in seno a Popolari e liberali che induce a essere ottimisti per i prossimi passaggi.Perché l’iter delle leggi europee è piuttosto complesso, e sebbene il voto della plenaria che impone un salasso ai milioni di proprietari di case del nostro Paese in nome dell’efficientamento energetico a tappe forzate abbia sicuramente indirizzato la partita verso l’esito più infausto per chi chiedeva ragionevolezza, gli step che mancano affinché il percorso legislativo possa dirsi completo sono diversi.Tanto per cominciare, nell’architettura tricefala con cui è stata costituita l’Ue, il via libera alla direttiva ha certificato qual è la posizione del Parlamento europeo. Che è quella più estrema e condizionata dall’ideologia, dato il forte peso delle sinistre a Strasburgo. Il testo approvato martedì ora sarà sul tavolo del cosiddetto trilogo, vale a dire l’interlocuzione tra l’Europarlamento, la Commissione e il Consiglio: queste due ultime istituzioni, come è noto, avevano manifestato posizioni più morbide o quantomeno improntate a maggiore flessibilità. Qualora questa fase di negoziazione al più alto livello europeo porti a un esito che modifichi il testo approvato a Strasburgo, si dovrebbe procedere a una seconda lettura in Parlamento, dove ovviamente le varie forze politiche valuterebbero dette modifiche e si comporterebbero in Aula di conseguenza. A quel punto, visti i numerosi dubbi espressi dai Popolari ma anche dai liberali di Renew, le possibilità di un ammorbidimento si farebbero più concrete. La fase in cui i partiti della maggioranza che sostiene il governo di Giorgia Meloni ripongono più speranze, però, è quella del negoziato con i governi nazionali, che investe anche le modalità di recepimento della direttiva. Qui il nostro esecutivo è stato chiarissimo: all’inizio di questa settimana, infatti, la Camera dei deputati ha approvato una mozione presentata su iniziativa della Lega e votata da tutto il centrodestra che impegna il governo a stoppare il testo attuale. Posizione che il presidente del Consiglio ha ribadito anche ieri nel corso del question time a Montecitorio, quando ha detto che si tratta di un testo che «prevede obiettivi temporali non raggiungibili per l’Italia, il cui patrimonio immobiliare è inserito in un contesto molto diverso da quello di altri Stati membri per ragioni storiche, per ragioni di conformazione geografica oltre che per una radicata visione della casa come bene rifugio delle famiglie italiane» e che «l’azione negoziale italiana in sede di Consiglio europeo aveva consentito di rivedere le tempistiche di adeguamento delle prestazioni energetiche degli edifici per renderle più graduali e meno stringenti, e in modo da garantire l’esenzione per alcune categorie», mentre «con il voto di ieri (martedì, ndr) il Parlamento europeo ha ritenuto di inasprire ulteriormente il testo iniziale e questa scelta che noi consideriamo irragionevole, mossa da un approccio ideologico, impone al governo di continuare a battersi per difendere gli interessi dei cittadini e della nazione».Nelle fila della Lega, a Bruxelles come a Roma, l’attenzione è ora volta a definire la strategia per questi passaggi: gli emendamenti proposti dalla pattuglia europea leghista in stretto coordinamento con Fdi e Fi sono stati tutti respinti, e gli accolti tra quelli presentati dagli altri gruppi non smuovono di un millimetro l’impianto della direttiva. Il presidente leghista del gruppo Id Marco Zanni spiega che «la lotta per difendere le case degli italiani è appena cominciata e noi continueremo a opporci a ogni livello, per fermare questa eurofollia, proprio come sta accadendo con un’altra proposta di Bruxelles che ci ha trovato fortemente contrari, quella sul bando alle auto a diesel e benzina dal 2035 e che ha visto l’Italia tornare protagonista in Europa per guidare il fronte del no grazie all’iniziativa di Matteo Salvini e del governo». «È necessario fare squadra con altri Paesi, spiega Zanni, «per creare un fronte comune capace di arginare e fermare questa direttiva. Non riusciamo a comprendere l’entusiasmo di Pd e M5s per una norma che porterebbe nuove imposizioni e nuovi oneri agli italiani, come un’europatrimoniale nascosta, da decine di migliaia di euro a famiglia. Tuttavia l’esito del voto in plenaria, con una coalizione Ursula ormai ridotta in pezzi, lascia ben sperare in vista dei negoziati del trilogo e dei successivi passaggi: il voto negativo da parte di molti, a cominciare dai Popolari tedeschi, è significativo e conferma che la maggioranza è tutto fuorché compatta. Siamo certi che riusciremo a ottenere importanti risultati a difesa dell’Italia e degli italiani», conclude Zanni , «La battaglia è appena cominciata». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/casa-green-europa-opposizione-2659603386.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="primi-obblighi-nel-2026-in-meno-di-dieci-anni-soltanto-edifici-in-classe-d" data-post-id="2659603386" data-published-at="1678914192" data-use-pagination="False"> Primi obblighi nel 2026. In meno di dieci anni soltanto edifici in classe D Quella disegnata dalla direttiva sulla casa green è una marcia a tappe forzate che impone traguardi impossibili da raggiungere nei tempi stabiliti a tavolino. Già l’obiettivo di lungo periodo che si staglia all’orizzonte fa tremare i polsi: entro il 2050, gli immobili europei dovranno essere a emissioni zero. Peccato che, come rivela il testo approvato dall’Europarlamento, il 75 % degli immobili dell’Unione sia «tuttora inefficiente sul piano energetico. Il gas naturale è usato principalmente per il riscaldamento degli edifici e rappresenta circa il 42% dell’energia utilizzata per il riscaldamento degli ambienti nel settore residenziale. Seguono il petrolio, con il 14%, e il carbone, con circa il 3%». I primi a doversi adeguare saranno i nuovi edifici, sui quali sarà almeno possibile intervenire già in fase di progettazione. Fra meno di tre anni, ovvero dal 1° gennaio 2026, tutti i nuovi edifici occupati, gestiti o di proprietà delle autorità pubbliche dovranno essere a emissioni zero. La norma poi si estenderà, a partire dal 1° gennaio 2028, agli edifici privati in costruzione. Passiamo alla stangata per gli immobili esistenti. Dal 1° gennaio 2027 dovranno fare il salto in classe E tutti gli edifici non residenziali privati e tutti gli edifici e le unità immobiliari di proprietà di enti pubblici, che dovranno poi salire in classe D entro il 1° gennaio 2030. Agli edifici residenziali privati invece viene concesso qualche anno in più: dovranno raggiungere la classe E entro il 1° gennaio 2030 e la classe D entro il 1° gennaio 2033. Verranno introdotte nuove prescrizioni anche per quel che riguarda l’installazione di pannelli fotovoltaici: tutti i nuovi edifici per cui sarà tecnicamente ed economicamente possibile dovranno dotarsi di tecnologie solari entro il 2028. Il limite massimo si sposta al 2032 per gli edifici residenziali oggetto di importanti ristrutturazioni. Tutto quello che potranno fare i proprietari, che secondo le prime stime saranno costretti a sborsare fra i 40.000 e i 60.000 euro per ogni appartamento, sarà decidere se affrontare e pagare una ristrutturazione monstre una volta sola per raggiungere l’agognata classe D o se eseguire più interventi nel tempo. L’Ue nel frattempo stabilirà criteri uniformi per assegnare la classe energetica agli edifici, scavalcando le norme nazionali. Ogni Stato dovrà poi preparare un piano nazionale di ristrutturazione e «una tabella di marcia dettagliata fino al 2050 del fabbisogno d’investimenti per l’attuazione del piano nazionale di ristrutturazione, delle fonti e delle misure di finanziamento pubbliche e private e delle risorse amministrative per la ristrutturazione degli edifici». La tabella di marcia comprenderà «obiettivi nazionali ed emissioni nell’intero ciclo di vita per le diverse tipologie di edifici, da fissare a seguito dell’esercizio di valutazione globale, per il 2025 (meno di due anni, ndr), il 2030, il 2035 e il 2040, conformemente al meccanismo “al rialzo” stabilito nell’accordo di Parigi e a una tabella di marcia sulle prestazioni nell’intero ciclo di vita».
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Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
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Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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