2023-06-24
Dopo gli ultimatum al Parlamento la Cartabia scopre la Corte «neutrale»
L’ex Guardasigilli tifava per le toghe creative. Ma se la destra ha voce in capitolo nella nomina dei futuri giudici, cambia idea.Tra l’autunno del 2023 e il 2024, sei giudici della Corte costituzionale termineranno il loro novennio. Le scadenze dei mandati arrivano proprio mentre ci sono un governo e una maggioranza politica di centrodestra. La coincidenza ha scatenato un misto di panico e indignazione preventiva nella stampa di sinistra, Repubblica in primis, terrorizzata dalla prospettiva che Giorgia Meloni adotti il «modello Trump»: monopolizzare la nomina dei successori delle toghe, per alterare in suo favore gli equilibri interni alla Consulta. Come se, adesso, la Corte fosse del tutto equilibrata. Quella dell’alchimia perfetta, almeno, è stata la tesi dell’attuale presidente, Silvana Sciarra, che il quotidiano romano, giorni fa, ha provato ad arruolare con una sorta di intervista-monito.Ieri è intervenuto l’ex numero uno della Consulta, nonché ex Guardasigilli, Marta Cartabia. La quale, dopo essere stata protagonista della stagione degli ultimatum al Parlamento, a partire dalla famigerata sentenza sul caso Cappato, riscopre il ruolo delle toghe come arbitri imparziali. Citando un po’ alla rinfusa le dispute sulle modalità di elezione dei giudici delle leggi in Ucraina e Israele. E aggrappandosi alla favola bella del «potere neutro». Amenità cui, senza dover citare il controverso Carl Schmitt, presumibilmente non credevano neppure i padri del liberalismo. Tant’è che sentirono l’esigenza di propinarne la divisione: del potere e della sua imperturbabile equanimità si fidavano poco. Alla fine, si viene colti dal sospetto che, per gli esponenti del côté progressista, il potere sia neutro solo quando ce l’hanno in mano loro.Non passa inosservata, comunque, l’ennesima disinvolta capriola della Cartabia. Lei, che da giurista aveva sostenuto che le Corti costituzionali debbano svolgere una funzione «dinamizzante» dell’ordinamento, ora che ai «barbari» sovranisti si attribuisce la volontà di mettere le grinfie sul collegio, torna alla versione originale: «Le Corti costituzionali» devono limitarsi a vigilare, «da una posizione di neutralità», affinché «le decisioni delle istituzioni politiche rispettino il patto costituzionale, senza mai diventare esse stesse parti in causa del gioco politico». Si parlerebbe del tipico esempio di chi predica bene e razzola male, se la professoressa, a parte l’opinabilità del razzolare, non avesse saltellato qua e là pure nel predicare. Basta ripercorrere la sua carriera accademica: vicina a Mary Ann Glendon, docente di Harvard, fiera contestatrice dell’abortista Barack Obama; poi allieva di Joseph H. H. Weiler, difensore dell’Italia nel processo alla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche; critica risoluta dei «nuovi diritti», rivendicati dalle minoranze Lgbt; nominata alla Corte costituzionale da Giorgio Napolitano, in ottimi rapporti con lo stesso Weiler, in quota Comunione e liberazione; pian piano, la Cartabia si è dissociata dalle radici cattoliche e conservatrici. Diventando l’innocua portabandiera del fantozziano «medio progressismo», in voga nell’élite laica e liberal. Perché, neutro o meno, il potere seduce. E non è mai stato un mistero che, a parte sfondare il «tetto di cristallo» e diventare la prima presidente donna della Consulta, la giurista coltivasse persino ambizioni quirinalizie, salvo dover ripiegare, smentite le voci che la volevano papabile premier di un governissimo, sull’incarico al ministero della Giustizia, alle dipendenze di Mario Draghi.La Cartabia e i suoi colleghi, che in particolare sui temi etici, si sono fatti latori di una giurisprudenza creativa, quindi politicizzata, hanno sempre sfruttato la foglia di fico della «leale collaborazione» tra istituzioni. È esattamente la possibilità di rifugiarsi in simili formulette di comodo a mostrare i limiti del «sistema misto» di elezione dei giudici delle leggi, affidato alle Camere, al capo dello Stato e alle supreme magistrature. E lodato dalla prof, poiché avrebbe evitato che «una sola parte politica possa avere il controllo della maggioranza» dei membri della Consulta.Repubblica ha agitato lo spauracchio della Corte Suprema americana. Ebbene, gli Usa non paiono proprio l’archetipo di una democrazia fallita. Sì, magari fallibile, fiaccata, difettosa, però storicamente vincente. La selezione delle toghe costituzionali è appannaggio dei presidenti e dei partiti, eppure conserva un’autentica istanza di contenimento del potere. Oltreoceano hanno preferito abbandonare la storiella ipocrita della sua neutralità. Il potere è sempre partigiano. E per i cittadini, la miglior garanzia è che tale partigianeria sia esposta, senza complesse geometrie studiate per sopprimerla. Senza manuali Cencelli. Stratagemmi il cui effetto concreto è di occultare gli orientamenti ideologici sottostanti, dietro il velo dell’obiettività e dell’equilibrio. Per carità, si deve confidare che l’autorevolezza di chi ricopre incarichi prestigiosi impedisca derive faziose. Si può bocciare il modello americano. Basta che l’idea di giurisprudenza non viaggi a targhe alterne: creatrice di nuovi diritti se vince la sinistra, tenuta all’imparzialità quando perde.
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