2020-08-29
Carolina, l’ambasciatrice del ragù in Italia
L'Asburgo Lorena sposò Ferdinando IV di Borbone e portò a Napoli questo modo di preparare la carne mediante lunghi tempi di cottura a bassa temperatura. Con varianti, si diffuse poi un po' in tutto il Paese trovando a Bologna il principale polo antagonista.Un tempo Indro Montanelli ebbe a dire che l'Italia si divideva tra quella del burro e quella dell'olio. Essendo lui un toscano verace, nativo di Fucecchio, una vita passata a Milano, era una semplificazione congruente applicata a un'Italia dai mille campanili, ognuno a rivendicare la sua eccellenza. Per certi versi si potrebbe dire che anche l'Italia dei ragù ha due ambasciatori principali, quello bolognese e quello napoletano, pur se il dna va ricercato lontano, in terra d'oltralpe. Qui si usava uno stufato di carne e verdure chiamato ragout, che stava anche a significare un termine che risvegliava l'appetito. Ambasciatrice Carolina d'Asburgo Lorena che andò in sposa a Ferdinando IV di Borbone. Da Napoli poi, con relative varianti, questo modo di preparare la carne con lunghi tempi di cottura e a bassa temperatura si diffuse un po' in tutta Italia, con Bologna principale polo antagonista anche se ogni regione può vantare le sue varianti golose. Il primo a lasciare memoria scritta di un ragù primordiale Vincenzo Corrado che, nel 1773, ebbe a pubblicare il Cuoco galante. Un ragù all'italiana che però non prevedeva né pasta, né pomodoro. Un primo abbinamento con i maccheroni lo troviamo nelle memorie di Alberto Alvisi, cuoco personale del cardinale di Imola, a fine secolo e, poco dopo, nella seconda edizione dell'Apicio moderno ci penserà Francesco Leonardi a citare per la prima volta, con i maccaroni alla napoletana, l'uso del pomodoro. L'Ottocento vede Napoli all'avanguardia, con Ippolito Cavalcanti che dà per scontato l'uso del pomodoro tra gli ingredienti e, a metà ottocento, è Carlo Tito Dal Bono nel capitolo «La Taverna» de Usi e Costumi a Napoli a darne un quadretto che colpisce l'attenzione anche del lettore più distratto. Protagonista il piatto fumante di maccheroni «poi, dopo il formaggio, si tingono di color purpureo o paonazzo, quando il tavernaio, con il sugo di pomodoro o del ragù, copra quasi rugiada di fiori, la polvere del formaggio». Dobbiamo arrivare al 1891 perché Bologna faccia sentire la sua voce. Ci pensa Pellegrino Artusi con «La Scienza in Cucina e l'Arte di mangiar bene, alla ricetta numero 87 si citano i maccheroni alla bolognese. Non c'è ancora il pomodoro, ma tra gli ingredienti vi sono pancetta, vitello, sedano, brodo di carne. Per i palati più raffinati si concedono funghi secchi o lamelle di tartufo bianco. All'inizio la pasta sono i denti di cavallo, una sorta di maccheroni, detti così perché i bambini si divertivano, appoggiandoli alle labbra, a soffiarci sopra con l'emissione di suoni sibilanti.Il Novecento vede i due ragù prendere strade oramai ben codificate, con le loro regole, quelle piccole varianti che fanno la differenza. Il ragù padano prevede una carne di vitello macinata, con il maiale che arriverà solo più tardi. Un tempo la lavorazione poteva essere piuttosto lunga, anche cinque, sei ore perché si impiegava una carne di vacche anziane, non più utili al lavoro sui campi. Per questo motivo si utilizzava il latte che serviva ad ammorbidire le fibre. I maccheroni furono sostituiti poi dalle tagliatelle, più adatte a fare propri gli umori del ricco condimento. Rigorosamente esclusi i tortellini anche se, con gli spaghetti, si è aperta una questione a livello internazionale. Era successo che, nel 1917, l'americana Julia Lovejoy Cuniberti aveva pubblicato un libro per insegnare la cucina italiana agli americani. I proventi della vendita destinati ad aiutare le famiglie dei nostri soldati impegnati al fronte. A quel tempo le tagliatelle non erano facili da reperire oltreoceano, mentre il ragù stava diventando una curiosità assieme al mito nascente degli spaghetti, tra i migliori ambasciatori dell'italian way of life. Fu così che prese piede la consuetudine di abbinare spaghetti e ragù. Una sorta di innocente tarocco nato quale frutto della necessità contingenti. Il problema era che, una volta arrivati in Italia, i turisti yankee chiedevano a stupefatti trattori petroniani questo piatto, snobbando le tradizionali tagliatelle. A scanso di equivoci, nel 1982, la delegazione di Bologna dell'Accademia italiana della cucina deposita la ricetta originale del vero ragù alla bolognese. Precisa anche la liturgia di servizio. Una prima dose va aggiunta subito dopo che la pasta è stata scolata. Poi, giunta al tavolo, ogni commensale può integrarla a piacere, secondo suo gusto. Varianti lo prevedono con la polenta, ma anche a farcire, assieme alla besciamella, le lasagne al forno. Tra gli appennini romagnoli una piccola variante autoctona. Il sugo della carne viene chiamato «brodo scuro». Si usa il pomodoro in salsa, non concentrato, una puntina di zucchero per attenuare l'acidità pommarola. Si preferiscono i garganelli, il vitello al maiale e i fegatini di pollo a manzo e pancetta. Il marsala dà una marcia in più rispetto al tradizionale vino rosso. Per i napoletani osservanti le buone tradizioni il ragù è il piatto della domenica, anche perché, per prepararlo, ci vuole tempo e pazienza e se questo avviene il sabato ancora meglio così ha tutta la notte per liberare al meglio le sue virtù. La carne viene tagliata al coltello. Vi sono le «tracchiulelle», ovvero le puntine di maiale e il vitello è una braciola imbottita di aglio, pinoli, uva sultanina, prezzemolo e pecorino. Il pomodoro è concentrato e va dosato con abilità da alchimista. All'inizio viene aggiunto un po' alla volta in maniera tale che si sciolga nel grasso senza bruciare. Poi, a metà cottura, si tolgono le puntine di maiale e si mettono da parte, perché non si sfaldino troppo. È a questo punto che salta fuori il talento della vera massaia. Si continua a versare il pomodoro a piccole dosi perché, continuando la cottura della carne, questa non si abbia ad attaccare alla pentola. È l'arte della «pippiatura». Dal fondo della pentola affiorano bolle d'aria che poi, rompendosi, producono un suono simile a quello di chi tira una boccata di fumo dalla pipa. Ecco perché il ragù non va mai abbandonato, ma seguito, rimestandolo lentamente con la cucchiarella.Nella tradizione orale si sosteneva che il migliore era quello dei portinai che, dalla guardiola, comunque non perdevano mai di vista quanto accadeva in cucina. Nel suo L'Oro di Napoli, un cantore della miglior tradizione partenopea, Giuseppe Marotta, sosteneva che «questa salsa impegna chi la prepara come un quadro il pittore». Il sugo va a maritarsi con ziti o rigatoni, mentre invece la carne così preparata è la regina del secondo piatto. Ecco spiegarsi un famoso passaggio di Sabato, Domenica e Lunedì, per la regia di Lina Wertmüller, con protagonista Sofia Loren. Eduardo de Filippo, rivolto alla moglie, è lapidario. «Il ragù che piace a me lo fa la mia mammà. Da quando ti ho sposata ne parliamo tanto per parlarne». Una variante è il ragù genovese, sempre con vista Vesuvio, che però è in bianco, senza pomodoro e molta cipolla. O' raù non è necessariamente lo stesso, di quartiere in quartiere. Vi è qualcuno che usa il cioccolato fondente per contrastare l'acidità del pomodoro. Un ragù del Vomero può essere leggermente diverso da quello dei Quartieri Spagnoli, tanto che Don Armando, nelle pagine de Il Mistero di Bellavista» di Luciano De Crescenzo, si spazzola un intero piatto per capire quale sia l'origine del suo ragù. Ne esiste anche la versione street food: o' cuzzetiello. All'interno dell'estremità dei panini si scava la mollica e lo si farcisce ammodo. Lino Scarallo, figlio di macellaio, lo propone con la pizza. Massimiliano Alajmo, stellato padovano, ne dà una reinterpretazione a contorno di ravioli soffiati e fritti ma, al di là della versione, moderna o classica che sia, vale la regola di Antonino Cannavacciuolo, «ricordate che la scarpetta è obbligatoria». Amen.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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