2023-04-17
Caro Galli, lei insulta perché non le dà retta più nessuno
Caro professor Massimo Galli, sono stato indeciso fino all’ultimo se scriverle questa cartolina perché mi ero ripromesso di non dare più visibilità a lei e ai suoi colleghi, compreso quel medico di Genova con un cognome proporzionato alla sua statura umana, che ormai citerò soltanto in tribunale. Ho l’impressione, infatti, che siate caduti nella più classica sindrome da astinenza di telecamere e cerchiate ogni pretesto per far polemica e tornare un pochino in auge. Perciò, immagino, l’altro giorno durante un incontro al teatro Roi di Cavazzale, in provincia di Vicenza, mentre presentava il suo libro dal titolo decisamente esagerato (Gallipedia), ha pensato bene di attaccare il sottoscritto dicendo che prima la invitavo nella mia trasmissione e che poi invece ho cambiato linea perché qualcuno me l’avrebbe ordinato. Dichiarazione quest’ultima fondata più o meno come tutte quelle cui ci ha abituato durante la pandemia. E cioè nulla.Per carità, confesso la mia colpa: all’inizio della pandemia l’ho invitata spesso alla mia trasmissione perché speravo che dicesse cose sensate. Ho smesso di invitarla quando invece ho capito che diceva minchiate. È semplice, no? Lo so che per lei, intriso di cultura sinistramente sessantottina, è impossibile immaginare che qualcuno agisca senza ordini politici. Evidentemente lei fa così. Noi no. Noi abbiamo smesso di invitarla perché lei ha cominciato a dire, per esempio, che «parlare di cure alternative al vaccino è inaccettabile» (16 marzo 2021) mentre noi vedevamo che c’erano medici di base che le cure alternative le praticavano eccome. Allora abbiamo preferito invitare quei medici, anziché lei. E la nostra stima nei suoi confronti è scesa ancora di più quando abbiamo visto che lei, dopo aver negato l’esistenza di cure alternative per gli altri, appena si è ammalato è ricorso alle cure alternative, cioè alle monoclonali, per sé. Roba che una persona normale non si sarebbe più guardata allo specchio, altro che tv.Non infieriremo, caro Galli, sul fatto che lei, sempre pronto a dare lezioni di moralità, risulta rinviato a giudizio per i concorsi truccati all’università. Non infieriremo sulle sue numerose contraddizioni, come quando diceva: «Terza dose? Inutile» poche settimane prima di invitare tutti a fare la terza dose. E non infieriremo sul fatto che, messo di fronte alle precise domande sui documenti segreti dell’Aifa, non ha saputo rispondere. Non infieriremo. Ci basta vedere la foto del teatro durante la sua conferenza. È vuoto. Desolatamente vuoto. Vuotissimo. Ormai non la seguono nemmeno più gli amici intimi. Dunque non infieriamo perché c’è già la realtà che infierisce su di lei.E dire che si erano messi d’impegno per organizzarle una serata importante: Comune, Pro Loco, editore, Biblioteca Dino Buzzati, con buona pace di Dino Buzzati. Ci si aspettava il pienone tanto che sui manifesti avevano scritto: «È gradita prenotazione». Direi che non ce n’è stato bisogno. Per questo, caro professore Galli, ho deciso di scriverle. Perché, nonostante tutto, voglio darle un ultimo consiglio, spero non molesto, per consegnarla poi all’oblio che merita: mi creda, la Gallipedia, l’enciclopedia del suo pensiero, non convince più nessuno. Provi a scrivere la Frottolopedia. Vedrà che sarà un best seller.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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