2024-12-03
Il premio per aver rovinato i dipendenti Fiat: 100 milioni
L'ex ceo di Stellantis Carlos Tavares (Getty Images)
Il manager licenziato ha molte colpe, ma gli Agnelli per decenni hanno usato i soldi pubblici per tappare buchi e distribuirsi dividendi. E poi ci sono le responsabilità di politici (Prodi in primis) e sindacalisti: vero Landini? Mentre ciò che resta dell’impero Fiat oggi boccheggia e rischia di essere inghiottito da una crisi che pare irreversibile, per trovare i colpevoli bisogna andare indietro nel tempo e ripartire le responsabilità fra azionisti, manager, sindacalisti e politici. Dei primi non c’è molto da dire: presi com’erano a distribuire dividendi a una famiglia sempre più numerosa, si sono semplicemente disinteressati dell’industria automobilistica che ha fatto la loro fortuna. Fedeli alla massima dell’Avvocato, secondo cui quanto andava bene alla Fiat doveva per forza andare bene al Paese, hanno pensato che le esigenze dell’azienda potessero essere tranquillamente soddisfatte con i soldi pubblici e dunque per anni hanno usato i finanziamenti dello Stato italiano per tappare buchi e fare investimenti. Federcontribuenti ha calcolato che dal 1975 al 2012, sotto forma di incentivi alla rottamazione, prepensionamenti, cassa integrazione e contributi per la realizzazione di nuovi impianti, l’Italia abbia regalato agli Agnelli 220 miliardi di euro, cifra esorbitante che è superiore all’intero importo del Pnrr. Questo fiume di denaro è stato speso in maniera dissennata, ritardando scelte strategiche, vendendo asset fondamentali ma, soprattutto, lasciando la Fiat sguarnita di nuovi modelli. Per anni il colosso di Torino è campato sulle scelte azzeccate di Vittorio Ghidella, il papà della Uno, il quale aveva ipotizzato una fusione con l’americana Ford ma poi, in seguito a una guerra di potere con Cesare Romiti, fu messo alla porta. Dall’addio di Ghidella all’arrivo di Sergio Marchionne, la Fiat è rimasta in una specie di limbo per oltre un decennio, senza idee per il futuro, senza alleanze ma, soprattutto, senza manager che sapessero fare le auto. Che un’industria complessa come quella dell’automotive potesse restare in piedi gestendo debiti e crediti come un qualsiasi altro gruppo fu un errore che si comprese all’inizio degli anni Duemila quando, dopo il pensionamento di Romiti, la Fiat si trovò sull’orlo dell’abisso. A salvarla dal fallimento, evitando in cambio di 2 miliardi di dollari la fusione con General motors per poi legarsi a Chrysler grazie ai generosi finanziamenti di Barack Obama, fu Sergio Marchionne che riuscì a tenere in piedi un business che privo di grandi alleanze appariva senza futuro. È il manager italo-canadese che si inventa lo scorporo e la successiva quotazione di Ferrari, garantendo agli azionisti altri miliardi di dividendi. Ma morto lui, gli eredi dell’Avvocato, oltre a litigare non sanno fare altro che vendere ai francesi, mettendo il destino della casa automobilistica nelle mani di manager senza carisma e senza idee. Carlos Tavares, fino all’altro ieri amministratore delegato di Stellantis, forse qualche idea l’aveva, ma purtroppo sbagliata. Mentre Marchionne non credeva all’elettrico, il suo successore ci ha creduto fin troppo. Risultato: l’azienda è al minimo storico delle vendite. Un gran risultato per il manager dell’auto più pagato al mondo, il quale pare che con le dimissioni anticipate, dopo i 40 milioni l’anno, ne incasserà altri 100.Tuttavia, se il disastro della Fiat è da spartire equamente tra azionisti e dirigenti, perché sia i primi che i secondi ci hanno messo del loro (è per questo che al pensiero di John Elkann che subentra a Tavares la Borsa ha avuto un brivido di terrore), poi bisogna dare a Cesare quel che è di politici e sindacalisti. I primi, a partire da Romano Prodi che agli Agnelli regalò l’Alfa Romeo oltre che la rottamazione degli anni Novanta, hanno molte responsabilità, sia per quello che hanno fatto che per quello che non hanno messo in pratica. Pur di non disturbare la Sacra famiglia hanno assecondato ogni volere di Torino, accettando perfino lo sdegnoso rifiuto del presidente di Stellantis che invitato in Parlamento a riferire ha preferito andare altrove. Quanto ai sindacalisti, non ci si può dimenticare del ruolo avuto da Maurizio Landini, il quale prima nella segreteria della Fiom e poi come numero uno della Cgil avrebbe dovuto occuparsi in prima persona della crisi della Fiat ma invece per anni ha evitato di prendere posizioni chiare sul destino del gruppo automobilistico. Di lui si ricorda un libro dal titolo autobiografico: Cambiare la fabbrica per cambiare il mondo: la Fiat, il sindacato, la sinistra assente. Purtroppo, da allora sono trascorsi quasi quindici anni, ma la fabbrica non ha cambiato il mondo e nemmeno il sindacato. A mutare è stata solo la carriera di Landini, il quale ora prepara un altro salto, ovvero quello dalla Cgil al Parlamento. Anche se il caso Fiat rischia di trasformare il balzo in un capitombolo.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 18 settembre con Carlo Cambi
La commemorazione di Charlie Kirk in consiglio comunale a Genova. Nel riquadro, Claudio Chiarotti (Ansa)