2021-01-19
Rischio Caporetto a Palazzo Madama. E adesso Zinga rivaluta le elezioni
Filippo Attili /Italian Prime Ministry / Handout/Anadolu Agency via Getty Images
Il segretario dem ammette: «La strada è strettissima». Così, se la maggioranza in Aula fosse troppo al di sotto di quota 161, potrebbe dare l'assenso al ritorno alle urne, pur di liberarsi di Matteo Renzi. Con il beneplacito del Colle.La crisi di governo precipita, e ormai il voto anticipato non è più una ipotesi remota. La giornata di ieri alla Camera fa emergere come nel Pd si stia facendo strada l'idea di farla finita, una volta per tutte, con i renziani, sia quelli di Italia viva sia quelli rimasti nel Pd. I gruppi dem di Camera e Senato, lo ricordiamo, nel 2018 sono stati «nominati» da Matteo Renzi. L'attuale segretario, Nicola Zingaretti, li controlla solo in parte. L'occasione è troppo ghiotta per non tornare alla strategia del post Papeete, quando Zinga voleva le elezioni dopo la caduta del governo Lega-M5s, ma proprio Renzi, con la «mossa del cavallo», lo costrinse a allearsi con i grillini. La classe dirigente dem è cambiata, ovunque in Italia. I segretari regionali, provinciali, cittadini del Pd di fede renziana sono stati sostituiti da esponenti di osservanza (più o meno) zingarettiana. Scalpitano per un posto in Parlamento. Le elezioni anticipate le vincerebbe il centrodestra? Zingaretti fa spallucce: prima o poi, del resto, al voto si dovrà pur andare, e non si vede all'orizzonte nessun elemento che può far sperare i giallorossi in una rimonta. Oggi al Senato il premier col ciuffo, salvo clamorosi imprevisti, non raggiungerà la famigerata «quota 161», quella che vuol dire maggioranza assoluta, e saranno guai. Guai in cui Giuseppi si è cacciato in buona parte da solo, rifiutando il passaggio delle dimissioni al Quirinale che avrebbero consentito ai «responsabili» di uscire allo scoperto giustificando la piroetta con il sostegno a un nuovo governo, e cadendo nella trappola delle provocazioni di Renzi, che ha indotto il premier a chiudergli la porta in faccia, tagliando il ramo su cui lui stesso era aggrappato. Al di sotto di quota 161, si aprono i giochi del dopo Conte: la strada maestra sono le elezioni a giugno, fino ad allora il Paese verrebbe guidato da un governo affidato a un tecnico come ad esempio Carlo Cottarelli. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, non potrà fare altro che prendere atto della non sussistenza di una maggioranza né politica né numerica. Ottenere la fiducia al Senato con una maggioranza relativa intorno ai 155 voti, grazie all'astensione di Iv, non basterà a Conte per evitare di dimettersi. È già accaduto, nel 2011: il premier era Silvio Berlusconi, la maggioranza era in crisi, l'estate dello spread a 574 punti, delle risatine di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy aveva prodotto ferite insanabili. L'11 novembre il Senato approvò con 156 sì la legge di stabilità 2012. Il giorno dopo, Berlusconi salì al Colle e presentò le dimissioni a Giorgio Napolitano, che nominò Mario Monti presidente del Consiglio. Certo, c'è chi ancora in queste ore immagina un nuovo governo del quadripartito Pd, M5s, Iv e Leu, con un premier politico: Luigi Di Maio o Dario Franceschini. Mezzo Pd e una parte del M5s, però, non hanno nessuna intenzione di dare il via libera a uno sbocco di questo tipo. Se Di Maio andasse a Palazzo Chigi, il M5s dovrebbe dire addio a metà dei suoi ministri, per compensare la promozione a premier di un grillino. L'ipotesi Franceschini appare meno lunare, ma c'è sempre il fattore Renzi da tenere in considerazione: Zingaretti non ne vuole sapere di assegnare al leader di Iv la palma di trionfatore di questa crisi. In una fase così delicata, la famigerata credenza popolare «nessuno vuole il voto» rischia di infrangersi contro l'iceberg della realtà. Il segretario del Pd, alle 18 di ieri, esplode: «La strada», dice Zingaretti nel corso di un'assemblea coi senatori dem, «è strettissima, molto più stretta di quanto si immagini, perché non possiamo in prospettiva accettare di tutto. La strada non può che essere quella di ottenere una fiducia con il massimo del consenso al governo. Oggi il presidente Conte in modo molto importante nel suo intervento ha riproposto il tema del patto di legislatura e quindi non con una visione statica, non arriviamo al massimo dei voti possibili e poi si vede. Conte ha preso su di sé l'esigenza di continuare una stagione di rilancio dell'azione di governo che però avviene non solo con numeri molto angusti», aggiunge Zinga, «ma all'interno di una compagine che è molto più complessa di quello che ci si immagina. Non sempre il presidente del Consiglio ha condiviso questa esigenza di affrontare i nodi politici sul tappeto, soprattutto alcuni nodi posti dal Pd, penso alle riforme istituzionali». Conte ieri ha provato a convincere i singoli parlamentari, con un elenco di promesse e lusinghe, mascherati da programmi e intenti per il futuro. L'impegno a varare una legge elettorale proporzionale è il più plateale degli ammiccamenti, ed è rivolto a Forza Italia, che il premier tiene fuori da ogni critica alle opposizioni e che considera un possibile alleato della coalizione «europeista e liberale». Il proporzionale libererebbe i parlamentari di Silvio Berlusconi dall'assillo dell'alleanza con Lega e Fratelli d'Italia, indispensabile invece per accaparrarsi qualche collegio uninominale blindato. L'apertura alle tradizioni socialiste, invece, potrebbe aver fatto breccia nel cuore di Riccardo Nencini, senatore, custode dell'eredità del garofano e «padrone di casa» di Italia viva, che si è costituita in gruppo a Palazzo Madama utilizzando il simbolo del Psi. Un paio di senatori di Iv potrebbero alla fine votare per la fiducia. Il pallottoliere si ferma però abbondantemente al di sotto di quota 161. Se Conte deciderà di andare avanti lo stesso, potrebbe essere il Quirinale a fermarlo. Altrimenti, ci penseranno il Pd o Luigi Di Maio.