2018-08-08
Le cannucce di plastica hanno i mesi contati. Berremo con il bamboo
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Starbucks ha annunciato che entro il 2020 eliminerà tutte le cannucce di plastica dai suoi locali. Il motivo? Inquinano l'ambiente. Si sono già portate avanti Disney, American airlines, McDonald's e le grandi catene di alberghi. È partita la corsa ai materiali sostitutivi. Sui social spopolano immagini di influencer con varianti in metallo, bamboo, vetro o carta. Sarà un nuovo business tutto fatto di marketing Lo speciale contiene due articoli. Chi l'avrebbe mai detto che una semplice cannuccia di plastica potesse divenire in quattro e quattr'otto il più cattivo dei cattivi del mondo? Per gli ambientalisti di tutto il mondo questo piccolo strumento che si utilizza, quasi senza pensarci, per gustare bevande non è altro che il principio di tutti i mali. Una sorta di emissario del demonio sceso sulla terra per distruggere tutto, inquinando e uccidendo lentamente ma inesorabilmente tutte le specie viventi. Vi sembra una storia senza fondamento? Vi sbagliate. Negli ultimi mesi il «cannuccia-gate» è esploso un po' in tutto il mondo con orde di ambientalisti che demonizzano l'utilizzo, a loro dire smodato, di quel tubicino di plastica leggera. «Quel che non capisce la gente» spiegano i militanti del progetto The Last Straw (L'ultima cannuccia) «è che una sola cannuccia impiega circa 200 anni prima di disperdersi nell'ambiente. Nel frattempo, la sua forma si modifica, viene assorbita dal terreno e spesso ingurgitata da animali inconsapevoli di quello che gli sta succedendo intorno». Ma non solo. «Spesso le cannucce non possono essere riciclate e viste le loro dimensioni minuscole sfuggono facilmente nei processi di compressione di grandi volumi di plastica» spiegano gli attivisti che ribadiscono come «una sola cannuccia è in grado di rilasciare agenti chimici che possono avvelenare le specie viventi». A sostegno di questa campagna contro le cannucce, ecco comparire online foto strazianti di balene e delfini che sguazzano in acqua e plastica, immagini di ignari pesciolini che vengono pescati insieme a cumuli di plastichine colorate, uccelli morti stecchiti con il corpo pieno di residui plasticosi e, soprattutto, video di tartarughe marine a cui vengono estratte cannucce putrefatte dalle vie respiratorie. Sono proprio queste ultime le vere protagoniste di una battaglia estiva che, a furor di popolo, sta coinvolgendo aziende big di tutto il mondo. Peccato che quel video sia virale ormai da circa tre anni e che, ciclicamente, venga riproposto con lo slogan «la plastica fa male». E se nel 2015 era toccato ai sacchetti, quelli in cui si infila la spesa, di essere messi al bando quasi in tutto il mondo, quest'anno è il turno delle cannucce che da compagne di vita quotidiana sono diventate il male assoluto. A differenza delle borse di plastica, abbandonate davvero solo in alcune aree del mondo, la crociata ambientalista, sembra aver attecchito. E anche bene. La guerra alle cannucce inizia da Seattle. La città più grande dello stato di Washington dal primo luglio scorso è cannuccia di plastica-free. I più chic della città utilizzano la loro personale cannuccia in metallo che trasportano con cura, all'interno di pregiati astucci, da uno Starbucks all'altro. Per tutti gli altri, la soluzione è fatta da carta o materiali biodegradabili, come per esempio la pasta. Anche grandi brand, come Starbucks o McDonald's, hanno annunciato che presto diranno addio alle cannucce di plastica. Rispettivamente entro il 2020 e il 2019. Carta e materiali biodegradabili saranno invece di casa nei parchi Disney che dal prossimo anno saranno sgomberi da ogni tipo di cannuccia di plastica. Anche le catene di hotel Hyatt e Marriott si sono unite nella battaglia dichiarando che le loro strutture «metteranno a disposizione valide alternative su richiesta». Un po' come American Airlines che utilizzerà solo cannucce in bamboo o la compagnia di crociera Royal Caribbean che rimpiazzerà la plastica con carta. Solo negli Stati Uniti si stima che vengano utilizzate quotidianamente circa 500 milioni di cannucce. Il tutto per un lasso di tempo mai superiore ai tre minuti e mezzo. Dopotutto, per bere una Coca Cola o un Frappuccino, non ci vuole di certo una vita. In Italia, i numeri sono più contenuti: 2 miliardi. Annuali. Complice forse l'assenza, per ora, di Starbucks che si classifica tra i più grandi consumatori di cannucce a livello mondiale. E che dire del business che ruota attorno alle cannucce? Si stima che Tetra Pak, l'azienda multinazionale svedese che si occupa di creare, tra le altre cose, il tanto chiacchierato oggetto, abbia incassato dalla vendita delle sue cannucce di plastica 11 miliardi di dollari. Solo nell'ultimo anno. Ma il business è molto più ampio. E combattere l'utilizzo delle cannucce è diventato così di moda che anche Kim Kardashian, che del web è la regina indiscussa, sul suo profilo Instagram ha annunciato a un pubblico di oltre 115 milioni di persone che nella sua abitazione non si sarebbero mai più usato le cannucce. Ecco quindi che tutte le seguaci della casata Kardashian-Jenner hanno dichiarato guerra allo strumento bandito dal castello della regina. E che decine di brand si sono accodati alla decisione della più famosa del clan californiano e hanno scelto di dire addio alla cannuccia di plastica che, fino a ieri, utilizzavano senza chiedersi perché. Che tutto questo clamore non sia altro che una moda estiva in un'estate in cui manca un vero e proprio tormentone? Forse. Susan Clayton, professoressa di psicologia al Wooster college, in Ohio, ha comparato il clamore attorno al «cannuccia-gate» a quello creato nel 2014 dall'ice bucket challege, la famosa sfida che spopolava sui social di tutto il mondo in cui la gente si versava sulla testa un secchio d'acqua ghiacciata e donava ingenti cifre in beneficienza. «Chi annuncia al mondo di aver smesso di utilizzare le cannucce semplicemente si "pulisce la coscienza"» ha spiegato la dottoressa Clayton «il risultato infatti non comporta un effettivo beneficio per la Terra, ci vorrebbe molto di più, ma funziona da palliativo e serve a sentirsi moralmente sollevati da qualsiasi ruolo nella distruzione del nostro Pianeta». Insomma, sebbene l'allarme sia reale e al mondo si stimi che ogni anno muoiano a causa della plastica oltre un milione di uccelli marini e 100.000 animali acquatici, quella delle cannucce sembra essere l'ennesima moda. Che con le prime piogge autunnali verrà spazzata via e dimenticata. Almeno fino alla prossima estate. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/cannucce-di-plastica-2593723376.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-nuova-moda-la-cannuccia-di-metallo" data-post-id="2593723376" data-published-at="1757924559" data-use-pagination="False"> La nuova moda? La cannuccia di metallo Instagram Chi si aspettava che la moda dell'estate fosse l'ennesimo gonfiabile a forma di animale più o meno esotico, si sbaglia di grosso. Estate 2018 fa rima con salviamo l'ambiente. Così, anche le più accanite fashion blogger di tutto il mondo si sono viste costrette a cedere alla moda dilagante della cannuccia di metallo. Avete letto bene. La nuova moda, che sta spopolando sui social con gli hashtag #metalstraw e #stopsucking è quello di portarsi in borsetta o in saccoccia una bella bustina, magari personalizzata con il proprio nome o le iniziali, al cui interno conservare con cura la propria cannuccia riutilizzabile e lo scovolino per pulirla dopo ogni bevuta. La cannuccia di metallo è il vero must di questa estate in cui la guerra alla plastica, o meglio, alle cannucce di plastica, si combatte a colpi di selfie in vacanza bevendo cocktail da jar di vetro o da bicchieri coloratissimi. Il tutto, ovviamente, con la propria cannuccia riutilizzabile. Un set da 3 cannucce, sacchettina e scovolino per la pulizia, su Amazon, costa tra gli 8 e i 15 euro. Ma davvero è questa l'unica opzione? Per chi sente che, in cuo suo, anche il metallo «è davvero troppo», esistono moltissime altre alternative, tutte estremamente alla moda e amiche dell'ambiente.Un esempio? La cannuccia in bamboo. Un set da 12 costa pochi centesimi in più di 12 euro e il figurone è assicurato. Il sapore, un po' meno. Perché dopotutto, pur essendo le cannucce trattate, passare dei liquidi all'interno di un bastoncino legnoso potrebbe lasciarvi comunque un certo amaro in bocca. Altre valide alternative sono le cannucce in vetro, quelle in pasta, in carta o addirittura in paglia. Il tutto, condito da una buona dose di hashtag vi renderà estremamente popolari e aiuterà a salvare il Pianeta. Forse.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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