
L'azienda americana affitta gli spazi della metropolitana di Porta Venezia a Milano. I dem insorgono: «Non toccate l'arcobaleno simbolo dei diritti». Alla fine, la multinazionale accetta il compromesso. In effetti, il sottosuolo sembra essere il luogo più adatto per le straordinarie battaglie di civiltà del Partito democratico. I volonterosi progressisti, nei giorni scorsi, hanno trovato una trincea da difendere con le unghie e con i denti: la stazione della metropolitana di Porta Venezia, a Milano. Direte: finalmente qualcuno a sinistra pronto a occuparsi della gente normale che usa i mezzi pubblici. E invece no: l'impegno dei dem va in senso contrario. Pur di accontentare un manipolo di attivisti arcobaleno, i nostri eroi hanno protestato perfino contro una campagna pubblicitaria della Nike. Per capire come si sia prodotto questo spettacolo grottesco dobbiamo fare un passo indietro e tornare al giugno del 2018. In occasione del gay pride di Milano, il colosso Netflix decise di affiggere nella fermata della metropolitano di Porta Venezia (ovvero al centro del «Pride village») alcuni cartelloni molto particolari. Raffiguravano le coppie gay protagoniste di alcune delle serie di maggior successo del network, accompagnate dalla scritta «non esistono». Un riferimento - anche piuttosto diretto - a ciò che disse il ministro per la Famiglia, Lorenzo Fontana, in un'intervista al Corriere della Sera, e cioè che le famiglie arcobaleno «per la legge non esistono in questo momento» (cosa, per altro, vera e più volte ribadita persino dagli stessi gruppi gay). In sostanza, il colosso dell'intrattenimento decise di attaccare frontalmente il ministro di uno Stato democratico. Ovviamente, nessuno a sinistra si scandalizzò. Anzi, il sindaco di Milano, Beppe Sala, decise - qualche tempo dopo - che la pubblicità di Netflix si sarebbe trasformata in una sorta di installazione celebrativa delle istanze Lgbt. Dal giugno 2018 a oggi, dunque, le pareti della fermata della metropolitana di Porta Venezia sono rimaste agghindate con i colori dell'arcobaleno poiché, come ha detto Sala, «i colori del pride sono i colori di Milano». Insomma, i cartelloni di Netflix sono stati tolti (anche perché l'azienda ha smesso di pagare gli spot), ma le decorazioni sono rimaste. Ed è qui che sorge il problema. La concessionaria di pubblicità che gestisce gli spazi della fermata di Porta Venezia ha firmato un grosso accordo con la Nike per una campagna che dovrebbe partire il 18 febbraio. L'azienda americana non si è limitata ad acquistare qualche cartellone. No, intende pagare per una copertura totale. Il progetto prevede che nei corridoi della metro siano allestite aree per il fitness e altre attività. Inoltre, tutte le pareti saranno coperte dalle inserzioni Nike. Ciò comporterebbe la rimozione delle decorazioni arcobaleno, almeno in teoria. In un mondo normale, nessuno si scandalizzerebbe. È bene che una grande azienda voglia acquistare spazi pubblicitari e portare soldi nelle casse dell'Atm, la società dei trasporti di Milano. Inoltre, Nike organizzerà attività che vivacizzeranno spazi finora poco e male utilizzati. Eppure, al Partito democratico e agli attivisti Lgbt tutto ciò non piace. Per loro, levare i colori arcobaleno sarebbe un affronto inaccettabile. «Ci uniamo alle voci di protesta e chiediamo ad Atm di ripristinare al più presto la fermata arcobaleno di Porta Venezia, perché quello è il suo posto», ha dichiarato il segretario metropolitano del Pd, Silvia Roggiani. «L'installazione ha un carattere identitario e simbolico molto forte in un quartiere che rappresenta i diritti e l'apertura, a livello internazionale, rispetto alla comunità Lgbt». Come prevedibile, pure Francesco Pintus, coordinatore della Pride Week milanese, si è rivolto al Comune guidato dal democratico Beppe Sala chiedendo che l'arcobaleno restasse al suo posto. Lo stesso hanno fatto Ivan Scalfarotto e Monica Cirinnà. L'appello non è caduto nel vuoto: l'amministrazione comunale si è spesa affinché Atm e la sua concessionaria di pubblicità trovassero un compromesso e chiedessero a Nike di «integrare» l'installazione Lgbt nella sua campagna. Tutta questa pantomima ridicola viene venduta come la coraggiosa battaglia contro la multinazionale in nome dei diritti, però la realtà è molto diversa. Il gay pride di Milano è stato sponsorizzato da una marea di aziende transnazionali, e le decorazioni multicolori non sono un'opera d'arte, ma sostanzialmente il residuo delle pubblicità di Netflix. In questo caso, la vendita di spazi a Nike va - più o meno direttamente - a beneficio di chi ogni giorno usa la metropolitana (omosessuali compresi). Ma al Pd non sta bene: le esigenze dei militanti Lgbt vengono prima di tutto, e poco importa se il quartiere di Porta Venezia è pieno di bandiere arcobaleno in ogni angolo. Per altro, quando le pubblicità di una multinazionale attaccavano il ministro «nemico» tutti zitti; ora che non piacciono ai protestatari Lgbt, apriti cielo. Per risolvere la faccenda sono stati tirati in ballo persino i dirigenti americani di Nike. Alla fine, la multinazionale ha deciso di accontentare gli attivisti: sulle pareti di Porta Venezia rimarranno i colori arcobaleno, a cui si aggiungerà qualche cartellone dell'azienda sportiva. Non stupisce: di fronte alle pretese Lgbt nessuno può tirarsi indietro, pena lo stigma. Il Pd adesso potrà festeggiare l'epocale successo, fiero di aver vinto l'ennesima battaglia fondamentale...
Massimo Doris (Imagoeconomica)
Secondo la sinistra, Tajani sarebbe contrario alla tassa sulle banche perché Fininvest detiene il 30% del capitale della società. Ma Doris attacca: «Le critiche? Ridicole». Intanto l’utile netto cresce dell’8% nei primi nove mesi, si va verso un 2025 da record.
Nessun cortocircuito tra Forza Italia e Banca Mediolanum a proposito della tassa sugli extraprofitti. Massimo Doris, amministratore delegato del gruppo, coglie l’occasione dei conti al 30 settembre per fare chiarezza. «Le critiche sono ridicole», dice, parlando più ai mercati che alla politica. Seguendo l’esempio del padre Ennio si tiene lontano dal teatrino romano. Spiega: «L’anno scorso abbiamo pagato circa 740 milioni di dividendi complessivi, e Fininvest ha portato a casa quasi 240 milioni. Forza Italia terrebbe in piedi la polemica solo per evitare che la famiglia Berlusconi incassi qualche milione in meno? Ho qualche dubbio».
Giovanni Pitruzzella (Ansa)
Il giudice della Consulta Giovanni Pitruzzella: «Non c’è un popolo europeo: la politica democratica resta ancorata alla dimensione nazionale. L’Unione deve prendere sul serio i problemi urgenti, anche quando urtano il pensiero dominante».
Due anni fa il professor Giovanni Pitruzzella, già presidente dell’Autorià garante della concorrenza e del mercato e membro della Corte di giustizia dell’Unione europea, è stato designato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica. Ha accettato questo lungo colloquio con La Verità a margine di una lezione tenuta al convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, dal titolo «Il problema della democrazia europea».
Ansa
Maurizio Marrone, assessore alla casa della Regione Piemonte in quota Fdi, ricorda che esiste una legge a tutela degli italiani nei bandi. Ma Avs la vuole disapplicare.
In Italia non è possibile dare più case agli italiani. Non appena qualcuno prova a farlo, subito si scatena una opposizione feroce, politici, avvocati, attivisti e media si mobilitano gridando alla discriminazione. Decisamente emblematico quello che sta avvenendo in Piemonte in queste ore. Una donna algerina sposata con un italiano si è vista negare una casa popolare perché non ha un lavoro regolare. Supportata dall’Asgi, associazione di avvocati di area sorosiana sempre in prima fila nelle battaglie pro immigrazione, la donna si è rivolta al tribunale di Torino che la ha dato ragione disapplicando la legge e ridandole la casa. Ora la palla passa alla Corte costituzionale, che dovrà decidere sulla legittimità delle norme abitative piemontesi.
Henry Winkler (Getty Images)
In onda dal 9 novembre su History Channel, la serie condotta da Henry Winkler riscopre con ironia le stranezze e gli errori del passato: giochi pericolosi, pubblicità assurde e invenzioni folli che mostrano quanto poco, in fondo, l’uomo sia cambiato.
Il tono è lontano da quello accademico che, di norma, definisce il documentario. Non perché manchi una parte di divulgazione o il tentativo di informare chi stia seduto a guardare, ma perché Una storia pericolosa (in onda dalle 21.30 di domenica 9 novembre su History Channel, ai canali 118 e 409 di Sky) riesce a trovare una sua leggerezza: un'ironia sottile, che permetta di guardare al passato senza eccessivo spirito critico, solo con lo sguardo e il disincanto di chi, oggi, abbia consapevolezze che all'epoca non potevano esistere.






