
Saltano per abusi pure Cox Huneeus e Ordenes Fernandez. Ma il New York Times critica il Pontefice: «L'omertà resta». Tutto andrà dimostrato nelle opportune sedi, però uno dei maggiori giornali degli Stati Uniti ne ha abbastanza per rimandare al mittente la lettera di Francesco. Negli Stati Uniti la lettera di papa Francesco al cardinale dimissionario Donald Wuerl, arcivescovo di Washington, non ha passato l'esame della grande stampa. Il laicissimo New York Times con un duro editoriale accusa il Papa di «sbagliare il punto» quando definisce «nobile» il passo indietro del porporato.«Possiedi elementi sufficienti», dice il Papa a Wuerl, «per “giustificare" il tuo agire e distinguere tra ciò che significa coprire delitti o non occuparsi dei problemi, e commettere qualche errore». Ma il New York Times cita il terribile rapporto del Gran giurì di Pennsylvania. Questo documento «ha dimostrato», si legge nell'editoriale, «che il cardinale Wuerl, (all'epoca dei fatti, ndr) vescovo di Pittsburgh, era immerso in una cultura clericale che nascondeva crimini pedofili dietro eufemismi, conduceva indagini e valutazioni non professionali per i sacerdoti accusati, manteneva segreti casi riconosciuti di abusi sessuali alle comunità parrocchiali e ha evitato di denunciare l'abuso alla polizia».Tutto andrà dimostrato nelle opportune sedi, però uno dei maggiori giornali degli Stati Uniti ne ha abbastanza per rimandare al mittente la lettera di Francesco. «Indicando che considera le passate azioni del cardinale Wuerl semplicemente come “errori" e permettendogli di rimanere un membro della potente congregazione per i vescovi», chiude il New York Times, «il Papa rafforza la sensazione di non comprendere lo straordinario danno fatto dai chierici che hanno crudelmente e spudoratamente abusato del loro potere su bambini e adulti».Anche l'altra accusa rivolta a Wuerl, quella di aver saputo da tempo della cattiva condotta imputata al suo predecessore, l'ex cardinale Theodore McCarrick, viene considerata dal giornale newyorkese. La posizione del porporato dimissionario viene ritenuta «indebolita» in seguito al memoriale dell'ex nunzio Carlo Maria Viganò, «anche se insiste che non sapeva nulla delle accuse» rivolte a McCarrick. Comunque, sul memoriale Viganò lo stesso Wuerl si è espresso venerdì scorso, concedendo un'intervista alla rivista dei gesuiti America, generando però un ulteriore cortocircuito. Wuerl, infatti, dice che «nella sua testimonianza, l'arcivescovo Viganò afferma chiaramente che c'erano delle sanzioni segrete (comminate da Benedetto XVI, ndr), ma dice anche di non averle comunicate neppure a me. Eppure questo avrebbe dovuto essere il suo dovere». Però rileggendo il memoriale Viganò, quello pubblicato dalla Verità, questa affermazione risulta quantomeno strana: «Ovviamente», scrive infatti Viganò, «il primo a essere stato informato dei provvedimenti presi da papa Benedetto XVI fu il successore di McCarrick alla sede di Washington, il cardinal Donald Wuerl […]. È assolutamente impensabile che il nunzio Sambi, persona altamente responsabile, leale, diretto ed esplicito nel suo modo di essere da vero romagnolo, non gliene abbia parlato. In ogni caso, io stesso venni in più occasioni sull'argomento con il cardinal Wuerl e non ci fu certo bisogno che entrassi in particolari perché mi fu subito evidente che ne era pienamente al corrente».Quindi, sembra proprio che Viganò, al contrario di quello che ha affermato venerdì Wuerl, gli abbia comunicato direttamente - «io stesso venni in più occasioni sull'argomento» - circa i problemi che riguardavano il suo predecessore a Washington. Se il cardinale Wuerl, rispondendo alla rivista America, voleva rimandare al mittente le accuse dell'ex nunzio, bisogna dire che il tentativo non cancella i dubbi sul fatto che «non poteva non sapere» delle accuse rivolte a McCarrick. Peraltro, la lettera aperta che qualche giorno fa il cardinale canadese Marc Ouellet, prefetto della congregazione dei vescovi, ha rivolto a Viganò, dice chiaramente che due nunzi a Washington, Pietro Sambi e lo stesso Viganò, erano stati informati per iscritto dal Vaticano del fatto che McCarrick era stato esortato «a uno stile di vita discreto di preghiera e penitenza per il suo stesso bene e per quello della Chiesa».Un sacerdote che scrive su un giornale cattolico americano, il National Catholic Register, padre Raymond de Souza, ha detto che non è possibile concludere che Wuerl possa aver mentito, ma, ha aggiunto, le sue dimissione sono arrivate perché «non riusciva a convincere i suoi sacerdoti che stava dicendo la verità». E così mette il dito nella piaga di una grande malattia che attanaglia la Chiesa e parla di una «cultura della mendacità clericale», che si ciba di mezze verità, eufemismi, reticenze. Una strada per uscire da questo vicolo cieco è quella fornita ieri dal Papa, con la riduzione allo stato laicale di due vescovi emeriti cileni accusati di abusi, Francisco José Cox Huneeus, arcivescovo emerito di La Serena, e Marco Antonio Ordenes Fernandez, vescovo emerito di Iquique. Quella del Cile è una chiesa devastata dallo scandalo abusi, ad oggi otto vescovi, tra cui il cardinale Ricardo Ezzati, sono chiamati dalla giustizia civile a difendersi dall'accusa di aver coperto abusi. Il Papa ha ridotto allo stato laicale Cox e Fernandez, «senza possibilità di appello» e «in conseguenza di atti evidenti di abuso di minori». Eppure, soprattutto Cox è stato un prelato importante per la Chiesa, fino a diventare segretario dell'ex Pontificio consiglio per la famiglia, posizione ricoperta dal 1981 al 1985. Quando Giovanni Paolo II accettò la sua rinuncia nel 1997 si disse che era per problemi di salute mentale, tuttavia nei corridoi romani, nelle redazioni dei giornali e tra il clero, circolavano a suo carico numerose storie di abusi sessuali. Allora, se questo provvedimento sui due vescovi cileni può rappresentare l'unica via per uscire dal tunnel degli abusi, il caso stesso solleva ancora il problema della piaga che attanaglia la Chiesa da tempo, quella «cultura della mendacità clericale» che deve essere spazzata via prima di ogni altra cosa. La verità non può far paura a una Chiesa il cui fondatore ha insegnato: «la verità vi farà liberi».
Francesco Zambon (Getty Images)
Audito dalla commissione Covid Zambon, ex funzionario dell’agenzia Onu. Dalle email prodotte emerge come il suo rapporto, critico sulle misure italiane, sia stato censurato per volontà politica, onde evitare di perdere fondi per la sede veneziana dell’Organizzazione.
Riavvolgere il nastro e rivedere il film della pandemia a ritroso può essere molto doloroso. Soprattutto se si passano al setaccio i documenti esplosivi portati ieri in commissione Covid da Francesco Zambon, oggi dirigente medico e, ai tempi tragici della pandemia, ufficiale tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Di tutte le clamorose notizie diffusamente documentate in audizione, ne balzano agli occhi due: la prima è che, mentre gli italiani morivano in casa con il paracetamolo o negli ospedali nonostante i ventilatori, il governo dell’epoca guidato da Giuseppe Conte (M5s) e il ministro della salute Roberto Speranza (Pd) trovavano il tempo di preoccuparsi che la reputazione del governo, messa in cattiva luce da un rapporto redatto da Zambon, non venisse offuscata, al punto che ne ottennero il ritiro. La seconda terribile evidenza è che la priorità dell’Oms in pandemia sembrava proprio quella di garantirsi i finanziamenti.
Quest’anno in Brasile doppio carnevale: oltre a quello di Rio, a Belém si terrà la Conferenza Onu sul clima Un evento che va avanti da 30 anni, malgrado le emissioni crescano e gli studi seri dicano che la crisi non esiste.
Due carnevali, quest’anno in Brasile: quello già festeggiato a Rio dei dieci giorni a cavallo tra febbraio e marzo, come sempre allietato dagli sfrenati balli di samba, e quello - anch’esso di dieci giorni - di questo novembre, allietato dagli sfrenati balli dei bamba che si recheranno a Belém, attraversata dall’equatore, per partecipare alla Cop30, la conferenza planetaria che si propone di salvarci dal riscaldamento del clima.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Il 9 novembre 1971 si consumò il più grave incidente aereo per le forze armate italiane. Morirono 46 giovani parà della «Folgore». Oggi sono stati ricordati con una cerimonia indetta dall'Esercito.
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Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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Teresa Ribera (Ansa)
Il capo del Mef: «All’Ecofin faremo la guerra sulla tassazione del gas naturale». Appello congiunto di Confindustria con le omologhe di Francia e Germania.
Chiusa l’intesa al Consiglio europeo dell’Ambiente, resta il tempo per i bilanci. Il dato oggettivo è che la lentezza della macchina burocratica europea non riesce in alcun modo a stare al passo con i competitor mondiali.
Chiarissimo il concetto espresso dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: «Vorrei chiarire il criterio ispiratore di questo tipo di politica, partendo dal presupposto che noi non siamo una grande potenza, e non abbiamo nemmeno la bacchetta magica per dire alla Ue cosa fare in termini di politica industriale. Ritengo, ad esempio, che sulla politica commerciale, se stiamo ad aspettare cosa accade nel globo, l’industria in Europa nel giro di cinque anni rischia di scomparire». L’intervento avviene in Aula, il contesto è la manovra di bilancio, ma il senso è chiaro. Le piccole conquiste ottenute nell’accordo sul clima non sono sufficienti e nei due anni che bisogna aspettare per la nuova revisione può succedere di tutto.










