2018-05-04
Nella Catalogna degli indipendentisti chi parla spagnolo è come uno straniero
A Barcellona il fanatismo domina nelle piazze, in tv e a scuola Aziende in fuga: 3.400 si sono trasferite a Madrid e in altre cittàIl clima politico è sempre bollente a Barcellona: le manifestazioni si susseguono, piccole e di migliaia di cittadini, ovunque. All’università, nei luoghi di lavoro, sulla rambla, anzi sulle ramblas, davanti al palazzo della Generalitat de Catalogna, sulla Gran Via de Les Cortes Catalanes e altrove. Manifestazioni che chiedono la liberazione dal carcere dei leader catalani e il ritorno (senza arresto) del presidente Carles Puigdemont, fuggito prima a Bruxelles, poi in Germania. Abbiamo cercato di capire, ascoltando le opinioni dei separatisti e di chi, invece, appare fermamente deciso a considerarsi spagnolo. Quello che colpisce particolarmente è la diffidenza, il gelo, quel senso di paura nel parlare liberamente. Gli unionisti si sentono asserragliati, intimiditi, minacciati di rappresaglie (per fortuna non ancora violente). Non mancano, però, soprattutto all’università, le zuffe, i dissensi animati fra studenti e persino fra questi ultimi e alcuni docenti. Le vicende degli ultimi tempi (dal referendum alle elezioni politiche sino al commissariamento di tutte le istituzioni catalane da parte del governo di Madrid) ha creato nella gente scontenti, delusioni, profonde amarezze, molta rabbia e desiderio di rivalsa da parte dei separatisti. Colpisce subito, girando nel centro di Barcellona, vedere alle finestre dei palazzi una grande quantità di bandiere della Catalogna, insieme a cartelloni e scritte murali con slogan antiMadrid. Ovunque il nastro giallo, simbolo dell’indipendentismo (copiato da quello del femminismo di colore rosa e da quello dei gay di colore arancione) dipinto sui muri e persino sui sedili dei giardini pubblici, mentre sulle migliaia di targhe stradali sono state apposte, sotto le denominazioni, le etichette «Repubblica catalana». La polemica politica ha finito col dividere e lacerare anche le famiglie, insieme all’intera società, alimentando conflittualità latenti anche violente. Una negoziante di Marquès de l’Argentera ci ha detto che «vi sono famiglie che non si parlano più, per non litigare; mio figlio mi porta la nipotina per stare con me qualche ora, ma non mi dice più una sola parole perché io sto dalla parte di Madrid e lui vuole la separazione del Paese». Parliamo con chi ci capita, negli alberghi, al mercato Santa Caterina, nei piccoli negozi, nelle tapa e gallerie, all’università, nei vicoli del quartiere Baròc. In una galleria, specializzata nella vendita di litografie e acqueforti di artisti notissimi (come Pablo Picasso, Salvador Dalì, Joan Mirò), un giovane mercante, Roberto Garcia, ci descrive uno scenario da paese dell’Est, al tempo dei regimi comunisti: «Siamo dominati dal fanatismo più bieco dei separatisti; sono prevalentemente giovani indottrinati nelle scuole (che godono, come da noi, di autonomia gestionale) da docenti che hanno scelto, senza ragionare troppo, l’indipendenza della Catalogna. Impongono agli studenti, dalle elementari al liceo, lo studio della lingua catalana. La lingua spagnola, prescritta esplicitamente dalla Costituzione nazionale, viene insegnata al massimo un’ora la settimana: è considerata come una lingua straniera, al pari dell’inglese e del francese. Anzi, si studia più inglese che castigliano. Questo è solo un esempio. I separatisti si sentono tutti superiori, il loro fanatismo rasenta il razzismo e molti, per conformismo o quieto vivere, si adeguano: gli altri cittadini, a cominciare dagli spagnoli, sono considerati esseri inferiori, poco intelligenti e non sembrano interessarsi troppo dei nostri legami con l’Europa».«Contano più gli interessi economici», ci dice un’operatrice turistica che lavora in un grande albergo del centro. «Infatti la Catalogna è paragonata alla nostra Lombardia, la regione più ricca e più industrializzata della Spagna».Gli unionisti preferiscono tollerare e sperano che le cose possano cambiare, anche con l’intervento di Bruxelles, per non litigare con i fedelissimi della nuova religione che viene chiamata «catalinismo». In realtà, dicono altri negozianti, gli interessi economici sono dominanti. A giocare la carta della Repubblica catalana non sono solo gli irredentisti (le radici storiche risalgono al 1714, poi «risvegliati» nell’Ottocento e nel Novecento), con la lingua e la cultura specifica, ma soprattutto il grande sviluppo industriale e portuale, promosso dal regime di Francisco Franco nel tentativo di reprimere ogni velleità nazionalista catalana. Un calcolo, che con gli anni, si è rivelato errato. Anzi, il progresso ha finito con l’accelerare ancora di più la spinta indipendentista. Non è bastata una Costituzione democratica, che concede una larga autonomia alla Catalogna (approvata il 6 dicembre 1978, con il 90,46% dei voti degli elettori di questa Regione). Non sono bastate neanche le leggi del 2006 che riconoscevano poteri ancora più estesi alla Catalogna, nell’ambito amministrativo e giudiziario. Il treno dell’indipendenza è diventato inarrestabile, a giudicare da tutti gli eventi di questi ultimi mesi.Sino a pochi giorni fa le aziende che hanno abbandonato la Catalogna erano più di 3.400: si sono trasferite a Madrid e in altre località della Spagna. Il governo di Madrid ha favorito questo esodo facendo approvare dal Parlamento una legge ad hoc in un solo giorno. Questo significherà la perdita di migliaia di posti di lavoro, non ancora quantificabile esattamente. «La crisi però già si sente. Anche il turismo ne ha risentito», dice sempre il gallerista Roberto Garcia. Quasi tutti denunciano l’eccessiva tolleranza del governo di Madrid. La tv nazionale può contare su giornalisti e registi catalani, che ogni giorno condiscono il palinsesto con programmi filoseparatisti. «Le feste nazionali», dice Vanessa, una giovane negoziante del quartiere Gòtic, «non vengono più celebrate, anzi vengono disprezzate, dagli unionisti. Chi non è d’accordo con loro è considerato alla stregua di un fascista. Chi ama la Spagna, che è la mia patria, è definito nostalgico del regime franchista».Ma c’è anche di peggio. Gli italiani, se non si professano esplicitamente favorevoli all’indipendenza, non vengono rispettati. Un pugliese che gestisce una gelateria al porto ci ha detto: «Ci chiamano tutti terroni, in senso spregiativo. Spesso però ci attaccano e ci definiscono mafiosi o camorristi se non scriviamo i cartelli dei prezzi in lingua catalana, invece che spagnola».I piccoli capi del separatismo non risparmiano mezzi per indottrinare anche i bambini, costretti quasi sempre a ingrossare le fila dei manifestanti pro Repubblica catalana. Non solo, ma viene favorita senza ritegno la falsificazione della storia. Al punto che non sono pochi i docenti che insegnano ai loro studenti che la Catalogna è superiore a tutti i popoli della terra per la qualità dei suoi artisti, degli imprenditori e degli scrittori. E se qualcuno fa loro osservare che la storia racconta cose un po’ diverse, e cioè che i catalani sono il risultato storico di numerose popolazioni nel corso dei secoli - cartaginesi, romani, arabi, visigoti e innumerevoli altri popoli arrivati dal Nord e dall’Africa - si arrabbiano. Preferiscono credere (e insegnare ai ragazzi) che Cristoforo Colombo è nato a Barcellona (e non a Genova) ed è stato sempre un catalano doc.