Originario del New Mexico, lo yemenita Anwar Al Awlaki è stato uno dei più efficaci reclutatori di Al Qaeda grazie a media estremisti patinati. La sua storia nel libro di Marta Serafini, di cui pubblichiamo un estratto.
Originario del New Mexico, lo yemenita Anwar Al Awlaki è stato uno dei più efficaci reclutatori di Al Qaeda grazie a media estremisti patinati. La sua storia nel libro di Marta Serafini, di cui pubblichiamo un estratto.Un passo decisivo è stato l'arrivo in rete di Dabiq, la rivista patinata del Califfato, tradotta in più lingue (se ne sono contate fino a venti versioni, cinese e tagiko compreso). Il titolo è un omaggio a una piccola località al confine tra la Turchia e la Siria, dove, secondo il Corano, l'esercito dei cristiani un giorno sarà definitivamente sconfitto dai musulmani che conquisteranno il mondo. La mossa è stata interpretata dai media occidentali come un salto di qualità da parte del gruppo terroristico. In realtà l'idea di un giornale del jihad non è nuova. Il predicatore yemenita Anwar Al Awlaki, uno dei più potenti reclutatori jihadisti mai esistiti, anni prima ha creato un magazine molto simile dal titolo Inspire, con l'obiettivo di svecchiare la propaganda qaedista. La sua storia è importante perché dà l'idea di come la propaganda sia in grado di manipolare le menti dei più giovani e di come la nascita di un jihadista sia spesso frutto di errori e casualità. Anwar Al Awlaki nasce in New Mexico il 22 aprile 1971. Negli Stati Uniti ha un'infanzia felice. Visita Disney World e, ogni tanto, accompagna il padre ai seminari di agronomia della Stanford University. Frequenta le elementari a St. Paul, in Minnesota. Sei anni dopo, la famiglia Awlaki torna in Yemen, dove il padre viene nominato ministro dell'Agricoltura. A diciannove anni, Anwar si trasferisce nuovamente negli Stati Uniti e si iscrive a ingegneria alla Colorado State. Frequentando la moschea del campus scopre la sua vera inclinazione di predicatore religioso. «Sapeva parlare bene e aveva una bella voce», ricorda chi l'ha conosciuto in quegli anni. Il suo inglese perfetto, a differenza di quello di tanti imam immigrati negli Usa, gli permette di affascinare la folla, la sua arte oratoria fa il resto. Trasferitosi a San Diego, ottiene un incarico da un editore per pubblicare una collana di 53 cd con le sue letture in cui ripercorre in lingua inglese la vita del Profeta. Suo padre Nasser non è però certo che la carriera da predicatore sia la scelta migliore. Così, per accontentare il genitore, Anwar fa domanda per un dottorato alla George Washington University. Non abbandona però il suo sogno e, contemporaneamente, diventa imam di una moschea vicino a Washington. In questa fase i suoi sermoni sono molto conservatori ma mai radicali. Non c'è spazio per il jihad, ancora. Per il giovane Al Awlaki tutto sembra procedere. Anche la sua vita privata è apparentemente felice: con la moglie Gihan e i tre figli frequenta i teatri e i ristoranti di Washington mantenendo un tenore di vita più che dignitoso. Nel 2000, appoggia addirittura la candidatura di George W. Bush alla presidenza e confida al padre il desiderio di essere invitato alla Casa Bianca. Al Awlaki non arriverà mai a tanto, ma si fa presto notare in città e viene chiamato a tenere un sermone al Campidoglio, data la sua fama di uomo pacato. I suoi toni e il suo approccio educato lo rendono perfetto per rappresentare la comunità musulmana moderata. «Siamo il ponte tra l'America e un miliardo di musulmani nel mondo», ama ripetere in pubblico. L'11 settembre 2001 Al Awlaki apprende dell'attacco alle Torri Gemelle mentre sta tornando in taxi dall'aeroporto. Immediatamente condanna gli attentati. «È stato terribile, sono preoccupato: i media sono tutti contro di noi», dice. E poi aggiunge: «Quello che è successo non è giustificabile». Ma, nonostante le sue parole non lascino ancora trasparire odio per il suo Paese, delle ombre iniziano a insinuarsi nella sua mente. Il 13 dicembre 2001, dopo aver predicato che i musulmani si devono astenere dal sesso durante il Ramadan ed essersi scagliato contro Hollywood che mostra il corpo delle donne, Al Awlaki entra nella stanza 1010 del Marriott Residence Inn, nei sobborghi di Washington. Ad aspettarlo c'è una prostituta che l'uomo paga 220 dollari per fare sesso orale. Al Awlaki consuma il rapporto. Poi chiede un altro giro e paga altri 220 dollari. Il predicatore non sa ancora che l'Fbi, nell'ambito di un'indagine sugli attentatori dell'11 settembre - due di loro hanno frequentato la stessa moschea di Al Awlaki a San Diego - lo sta tenendo sotto controllo e sta registrando tutti i suoi incontri. Lo scoprirà solo più tardi, quando il manager del servizio di escort cui si è rivolto lo avvertirà di essere stato contattato da un federale che gli ha fatto numerose domande. Al Awlaki va su tutte le furie: all'indomani dell'11 settembre era già stato interrogato sulle sue connessioni con gli attentatori ma gli agenti non avevano trovato nulla. Ora, invece, tutti i dettagli della sua vita privata sono registrati nei file dell'Fbi. E possono distruggere la sua immagine di predicatore e di marito integerrimo. «Non sono uno psicologo ma credo che Al Awlaki fosse in collera perché vedeva violato il principio fondamentale del suo Paese, la libertà», mi ha raccontato Scott Shane, giornalista che si occupa di terrorismo per il New York Times. Il 22 marzo, in un sermone, racconta come la moglie e la figlia di un leader della comunità musulmana siano state perquisite da agenti maschi. La voce è furente: «Questa non è la guerra al terrorismo, questa è guerra all'islam», grida dal pulpito. Il giorno successivo incontra il fratello in una camera di albergo, gli chiede di staccare la batteria dello smartphone per eludere le intercettazioni e gli confida di aver deciso di tornare in Yemen per evitare che l'Fbi possa mandare in pezzi la sua vita. Negli anni successivi cerca di contattare i federali per chiudere la questione dei suoi incontri sessuali una volta per tutte, ma viene ignorato. Intanto la sua retorica si fa sempre più radicale. L'anno dopo viene arrestato a Sana'a, in Yemen, trascorre 18 mesi in carcere senza accuse e viene fatto uscire anche grazie all'intervento del padre. Ed è a questo punto che Al Awlaki, eludendo i controlli, si sposta nella provincia di Shabwa, dove viene in contatto con Aqap (sigla che indica Al Qaeda nella Penisola arabica e in Yemen). Il predicatore entra nel santuario jihadista da cui non uscirà mai più, se non da morto. Da questa regione remota, prima di essere ucciso, addestra uno dei fratelli Kouachi, autore dell'attacco a Charlie Hebdo. Qui incontra Abdulmutallab, ventitreenne nigeriano e aspirante kamikaze del volo Amsterdam-Detroit del 25 dicembre 2009. Ma Al Awlaki non si è limitato a manipolare le menti dei giovani attraverso i suoi sermoni. È negli anni che precedono la sua uccisione che il predicatore ha dato vita a Inspire, il magazine patinato. L'obiettivo è rilanciare la propaganda qaedista facendo diventare un residuato bellico l'approccio di Bin Laden e Al Zawahiri. La nuova generazione del jihad vuole di più. Nel 2010 Al Awlaki realizza un video di dodici minuti dal titolo Call to jihad. Quel filmato, divulgato in rete dopo la sua morte, ancora oggi è uno dei più guardati su Youtube. «Avete due scelte, o l'hijra (la migrazione) o il jihad (la guerra santa)» afferma il predicatore che nel video si presenta in divisa militare brandendo un antico pugnale. E poi aggiunge, attaccando direttamente Obama, «io vi invito a combattere in Occidente oppure a unirvi ai fratelli sui fronti del jihad: Afghanistan, Iraq e Somalia». È l'«open source» jihad, quella fatta grazie alla rete e che trasforma in terrorista un uomo anche a chilometri di distanza, senza che abbia mai fatto parte di nessuna cellula o sia stato addestrato. Al Awlaki è uno dei primi a usare Internet e a stare al passo con i tempi. Prima vende i suoi sermoni registrandoli su cd, poi inizia a utilizzare la chat Paltalk per rivolgersi al suo pubblico e, nel 2008, apre personalmente un profilo su Facebook. La tecnologia gli permette di raggiungere milioni di persone senza nemmeno incontrarle. Quattro anni più tardi, l'Isis, dal punto di vista della comunicazione, non fa nient'altro che prendere quanto già elaborato da Awlaki e adeguarlo ai nuovi mezzi tecnologici. Ho passato giorni e mesi davanti al computer a scaricare, leggere e archiviare, cercando di capire e di entrare nelle chat, nei forum e nei loro gruppi. Come mi ha detto Lorenzo Vidino, uno dei migliori studiosi di radicalizzazione che ho avuto la fortuna di incontrare, non esiste gruppo terroristico al mondo che abbia saputo utilizzare con così grande sapienza la tecnologia. Il cambio di passo nella comunicazione, iniziato da Al Zarqawi con il filmato di decapitazione di Nicholas Berg, e il superamento dei sermoni di Bin Laden registrati in Vhs si compiono in quegli anni, anche grazie all'ispirazione di Awlaki. Il pubblico del jihad non sono più solo uomini arabi e musulmani. Chiunque può diventare un mujaheddin o una muhajirat (una donna dell'Isis). Anche chi non sa l'arabo. Un'operazione resa possibile da un enorme investimento economico: video, riprese, effetti speciali, infografiche, hub di montaggio e gestione del deep web, la rete nascosta, per caricare i materiali. E, non da ultimo, decine di divisioni media in grado di tradurre e diffondere ogni contenuto in poche ore. È sicuramente questo sforzo, unito alla manipolazione del messaggio religioso, uno dei motivi della capacità di presa dell'Isis.
Scontri fra pro-Pal e Polizia a Torino. Nel riquadro, Walter Mazzetti (Ansa)
La tenuità del reato vale anche se la vittima è un uomo in divisa. La Corte sconfessa il principio della sua ex presidente Cartabia.
Ennesima umiliazione per le forze dell’ordine. Sarà contenta l’eurodeputata Ilaria Salis, la quale non perde mai occasione per difendere i violenti e condannare gli agenti. La mano dello Stato contro chi aggredisce poliziotti o carabinieri non è mai stata pesante, ma da oggi potrebbe diventare una piuma. A dare il colpo di grazia ai servitori dello Stato che ogni giorno vengono aggrediti da delinquenti o facinorosi è una sentenza fresca di stampa, destinata a far discutere.
Mohamed Shahin (Ansa). Nel riquadro, il vescovo di Pinerolo Derio Olivero (Imagoeconomica)
Per il Viminale, Mohamed Shahin è una persona radicalizzata che rappresenta una minaccia per lo Stato. Sulle stragi di Hamas disse: «Non è violenza». Monsignor Olivero lo difende: «Ha solo espresso un’opinione».
Per il Viminale è un pericoloso estremista. Per la sinistra e la Chiesa un simbolo da difendere. Dalla Cgil al Pd, da Avs al Movimento 5 stelle, dal vescovo di Pinerolo ai rappresentanti della Chiesa valdese, un’alleanza trasversale e influente è scesa in campo a sostegno di un imam che è in attesa di essere espulso per «ragioni di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo». Un personaggio a cui, già l’8 novembre 2023, le autorità negarono la cittadinanza italiana per «ragioni di sicurezza dello Stato». Addirittura un nutrito gruppo di antagonisti, anche in suo nome, ha dato l’assalto alla redazione della Stampa. Una saldatura tra mondi diversi che non promette niente di buono.
Nei riquadri, Letizia Martina prima e dopo il vaccino (IStock)
Letizia Martini, oggi ventiduenne, ha già sintomi in seguito alla prima dose, ma per fiducia nel sistema li sottovaluta. Con la seconda, la situazione precipita: a causa di una malattia neurologica certificata ora non cammina più.
«Io avevo 18 anni e stavo bene. Vivevo una vita normale. Mi allenavo. Ero in forma. Mi sono vaccinata ad agosto del 2021 e dieci giorni dopo la seconda dose ho iniziato a stare malissimo e da quel momento in poi sono peggiorata sempre di più. Adesso praticamente non riesco a fare più niente, riesco a stare in piedi a malapena qualche minuto e a fare qualche passo in casa, ma poi ho bisogno della sedia a rotelle, perché se mi sforzo mi vengono dolori lancinanti. Non riesco neppure ad asciugarmi i capelli perché le braccia non mi reggono…». Letizia Martini, di Rimini, oggi ha 22 anni e la vita rovinata a causa degli effetti collaterali neurologici del vaccino Pfizer. Già subito dopo la prima dose aveva avvertito i primi sintomi della malattia, che poi si è manifestata con violenza dopo la seconda puntura, tant’è che adesso Letizia è stata riconosciuta invalida all’80%.
Maria Rita Parsi critica la gestione del caso “famiglia nel bosco”: nessun pericolo reale per i bambini, scelta brusca e dannosa, sistema dei minori da ripensare profondamente.






