2018-05-08
Bugie e omissioni affondano il made in Italy
L'Europa boccia il decreto italiano sull'etichetta di origine ma l'esecutivo lo nasconde per mesi ai produttori. Aziende sul piede di guerra: spese onerose per un obbligo inapplicabile. L'imbarazzante fallimento del quartetto Paolo Gentiloni, Maurizio Martina, Carlo Calenda e Angelino Alfano.Quello che doveva essere il trionfo del ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina e del responsabile del dicastero per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda, si è trasformato in un imbarazzante fallimento. Parliamo della difesa del made in Italy, vessillo politico dell'attuale reggente del Partito democratico e del suo collega, leader emergente del Pd in agonia. La vicenda, scoperchiata dall'esperto di agroalimentare Dario Dongo e anticipata, sulla Verità del 20 aprile, da Carlo Cambi, riguarda il decreto che obbliga le aziende a indicare, nell'etichetta dei cibi made in Italy, la sede dello stabilimento di produzione. Norma sacrosanta, reclamata dalle associazioni dei consumatori, da quando un regolamento Ue del 2011 abrogò la norma in vigore nel nostro Paese dal 1992. Finalmente, a settembre 2017, il governo aveva varato il decreto legislativo che, a decorrere dal 5 aprile 2018, introduceva la nuova disposizione in materia di tracciabilità. A questo punto, era partito l'iter di notifica alla Commissione europea, sottoposta alle pressioni della lobby del cibo, Food drink Europe, cui l'attuale regime permissivo sul cosiddetto italian sounding consente di smerciare tonnellate di alimenti taroccati e che, in difesa del proprio business, a dicembre 2017 aveva presentato all'esecutivo Ue un reclamo nei confronti dell'Italia.Inspiegabilmente, però, il governo italiano ha abbandonato la procedura di notifica iniziale per avviarne una seconda, invocando l'articolo 114 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Per aggirare i tentennamenti della commissione Ue, il nostro Paese ha tentato la furbata: fingere che la legge del 2017 fosse identica a quella 1992 e ricorrere al comma 4 dell'articolo 114 per ottenerne il mantenimento in vigore, in deroga al regolamento europeo. Un sotterfugio che, naturalmente, non poteva ingannare Bruxelles. Tanto che il Commissario per la salute e la sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, il 28 gennaio 2018 aveva fatto pervenire al ministro degli Esteri, Angelino Alfano, una missiva in cui giudicava irricevibile la notifica del decreto legislativo sull'etichettatura d'origine. Ma con le elezioni del 4 marzo alle porte, il governo guidato da Paolo Gentiloni (che qualche giorno dopo il voto avrebbe rilevato l'interim delle Politiche agricole) e i paladini del made in Italy, Martina e Calenda, hanno evitato di divulgare la notizia.Così, dal 5 aprile, i produttori italiani si sono dovuti adeguare a una norma che in realtà non era valida. Le imprese, come ha spiegato al quotidiano La Repubblica Mario Piccialuti, direttore di Aidepi, consorzio delle aziende produttrici di pasta, prodotti da forno e cereali, hanno sborsato «milioni di euro per modificare le etichette», sebbene l'Unione europea avesse stoppato il decreto emesso dall'esecutivo italiano. Il paradosso, ha spiegato invece Dongo, è che in Italia vige una legge, ma «le autorità di controllo hanno il dovere di disapplicarla. Questo significa che i produttori inadempienti, che non indicano cioè lo stabilimento di produzione, non potranno essere multati». Eppure, in concomitanza con l'entrata in vigore dei nuovi obblighi, il viceministro delle Politiche agricole, Andrea Olivero, aveva pontificato: «Le nostre imprese agroalimentari sapranno cogliere appieno questa opportunità, andando incontro alle esigenze di un consumatore sempre più attento». Consumatore che il governo piddino aveva beffato, dapprima adottando puerili sotterfugi nei confronti di Bruxelles, poi con il silenzio tattico per coprire l'insuccesso e, infine, diffondendo una nota con la quale il ministero delle Politiche agricole assicurava che l'«interlocuzione con la Commissione» europea «è ancora in corso» e che il governo «conta di risolvere in modo positivo la vicenda».I ministri dem, ottenuta l'autoinvestitura a protettori dell'italianità culinaria, dell'Italia hanno sposato non le virtù, bensì i vizi: la ricerca di uno stratagemma per infinocchiare i commissari europei e l'insabbiamento del pasticcio, nella speranza di evitare ripercussioni elettorali. A pagarne le conseguenze sono sia le aziende, costrette a spese onerose per ottemperare a un obbligo inapplicabile, sia i consumatori, ancora privi di adeguati strumenti di tutela. Sullo sfondo, si staglia un'Europa messa in scacco dai colossi dell'industria agroalimentare. Un'Europa da sempre ostile a tutti i provvedimenti necessari a riconoscere l'autenticità dei prodotti italiani, votata alla missione di prosciugare il giro d'affari delle nostre imprese. Ecco le meraviglie del mercato unico, delle presunte regole comuni e della libera concorrenza senza barriere nazionali.La Verità ha chiesto al Ministero delle politiche agricole dei chiarimenti sull'operato del governo: in particolare, vorremmo sapere come mai sono state modificate in corso d'opera le procedure di notifica alla commissione Ue e perché, una volta ricevuta la bocciatura da parte di Andriukaitis, i produttori non siano stati informati. Il nostro giornale, per ora, non ha ottenuto risposte.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.