2025-01-03
        «Ci mancano ingegneri minerari. Così è assurdo spingere sul green»
    
 
        Nel riquadro, Giovanni Brussato (IStock)
    
L’esperto Giovanni Brussato: «In Cina se ne laureano 2.500 l’anno, da noi invece aboliamo i corsi universitari. Se non scaviamo, dipenderemo dalle materie prime di Pechino. Le rinnovabili non assicurano la continuità della rete elettrica».Giovanni Brussato ingegnere minerario ed autore del libro Cina, la nuova egemonia. La guerra dei metalli rari, edito da Guerrini e Associati. La transizione energetica significa «prepariamoci a scavare». Parole sue. La sua è quindi la professione del momento e del futuro. I giovani andranno matti per questa professione.«Esattamente il contrario in Occidente. Prestigiose università registrano cali degli iscritti fino ad un terzo rispetto a dieci fa. In Australia l’industria mineraria dà un lavoro ben retribuito. Eppure, il numero totale di laureati nelle Scienze minerarie è crollato del 63% dal 2014 al 2020. In Italia il corso di laurea in Ingegneria mineraria è stato soppresso dagli ordinamenti universitari statali e gli insegnamenti nel settore estrattivo drasticamente ridotti. Per il 71% dei manager dell’industria mineraria, il fallimento del ricambio generazionale impedirà il raggiungimento degli obiettivi di produzione proprio mentre affrontiamo le sfide della transizione. Invece in Cina ogni anno si laureano circa 2.500 ingegneri minerari. Il 70% degli intervistati da McKinsey tra 15 e 30 anni dichiara che sicuramente o probabilmente non lavorerebbe nel settore minerario. Le compagnie minerarie si affannano a dire che il core business aziendale è “salvare il Pianeta”. Evidentemente molti sono convinti che si possa salvarlo senza andare in miniera…».Lei sostiene che l’Ue «ha ridotto significativamente la produzione mineraria nazionale degli ultimi venti anni».«Siamo un’economia postindustriale. Commerciamo beni astratti; servizi e informazioni. Lasciamo al resto del mondo il compito di estrarre, elaborare e trasformare le materie prime in prodotti finiti. Pretendiamo una transizione verde accelerata ma nessuna miniera “nel proprio giardino”. Ci dimentichiamo di come siamo entrati nell’era dell’elettricità, della luce in casa, dei telefoni e degli elettrodomestici. Nel dibattito pubblico, pur concentrato su energia e metalli, miniere e fonderie con cui è stata costruita l’Europa ricevono scarsa attenzione. Memorie del passato, se va bene. Quando non si arriva a disprezzarle. Su auto elettriche, computer, batterie, eolico e fotovoltaico siamo sempre più dipendenti dalle importazioni. Abbiamo spostato i costi ambientali e sociali all’estero. Lontano dagli occhi, lontano dalla coscienza. Ma minerali e metalli sono gli elementi costitutivi di tutte le infrastrutture: dalla sanità alla difesa, alle reti energetiche e digitali».Lei intravede l’impossibilità di «costruire catene di approvvigionamento puramente nazionali per soddisfare la domanda di materie prime della transizione energetica». Le rinnovabili non fanno scopa con autonomia energetica.«Un paradigma che funziona solo in Cina. Questa ha il controllo della filiera delle tecnologie verdi. I cosiddetti “nuovi tre”: pannelli fotovoltaici, batterie ed auto elettriche. Pechino detiene il 68% della capacità globale di produzione di turbine eoliche. I produttori cinesi cercano mercati dove scaricare la sovraccapacità. Fanno passi da gigante nei mercati emergenti. Sfruttano l’impronta cinese esistente nei Paesi che aderiscono alla Via della Seta. Nel sottosuolo cinese ci sono circa 60 metalli. Le sue riserve di molti metalli necessari alla sua industria sono limitate. In termini di sicurezza energetica anche con le rinnovabili saremo soggetti ad una nuova forma di dipendenza. Da un oligopolio di potenziali fornitori di combustibili fossili verso un monopolio di nuove tecnologie».Franco Prodi nella prefazione sottolinea come «sia folle cambiare le fondamenta energetiche di un’economia mondiale da 90 trilioni di dollari in un quarto di secolo, mentre in Cina Xi ordina di non abbandonare le pratiche consolidate in patria, carbone incluso». L’ultimo rapporto Iea lo conferma. Bruciamo carbone come non mai. Un mondo alimentato esclusivamente da energie rinnovabili è possibile?«Doverosa premessa: una “adeguata” rete elettrica deve garantire, istante per istante, che l’energia richiesta sia bilanciata dall’energia prodotta dalle centrali elettriche. In Italia il garante è Terna. Un sistema elettrico per legge è adeguato se esiste una probabilità dello 0,03% che almeno un consumatore venga staccato dalla rete per motivi di adeguatezza. Ai fini dell’adeguatezza non tutte le fonti sono uguali. Le termoelettriche contribuiscono alla sicurezza della rete elettrica dieci volte di più delle rinnovabili intermittenti. Anche se nel 2030 disponessimo degli 80 Gw di rinnovabili che ci siamo impegnati ad installare “perché ce lo chiede l’Europa”, comunque non saremo energeticamente indipendenti. Non potremo dismettere le centrali a combustibili fossili. Se la Francia smettesse di fornirci i 50 TWh di elettricità del 2023, le rinnovabili nel frattempo installate non servirebbero a nulla».Secondo lei non si può passare da una fonte energetica all’altra, dimenticandosi completamente di ciò che si abbandona.«Ogni transizione energetica, fino ad oggi, non ha eliminato le precedenti fonti. Ne ha aggiunte di nuove. Il carbone ha superato il legno come combustibile solo nel 1900, e nel 2023 il carbone è ancora la prima fonte di energia elettrica globale col 35%. A novembre la produzione di carbone della Cina ha ufficialmente raggiunto il massimo storico. Non abbiamo ancora completato la prima transizione energetica poiché ancora oggi miliardi di persone nel Sud globale dipendono dalle biomasse tradizionali per scaldarsi e cucinare. Stiamo solo aggiungendo nuove forme, come eolico e fotovoltaico, che soddisfano, solo in parte, la crescente domanda di energia. E a differenza delle altre fonti non sono in grado di fornire un baseload costante». Provo a riassumere un’altra tesi forte del suo libro: «i cinesi marciano divisi per colpire uniti». «L’industria mineraria cinese non agisce sui mercati come monolite ma con aziende che competono l’una contro l’altra ferocemente. Un’intensa competizione tra i gruppi statali che a volte si comportano come feudi privati. Uno sguardo più attento alla struttura proprietaria dei grandi conglomerati societari rivela complesse strutture societarie dove il Partito comunista è al centro. Le partnership di questi consorzi con le aziende statali mettono in luce come l’accesso alle reti di aziende cinesi di proprietà statale permetta di raggiungere gli obiettivi commerciali coniugando insieme le attività estrattive e le infrastrutture civili come ferrovie, strade e porti internazionali».Più che estrarli, i minerali rari vanno lavorati e raffinati. È questo il collo di bottiglia?«L’estrazione è una parte del processo e spesso la meno complicata. Si sente parlare spesso del “dominio” cinese delle terre rare. Pochi sanno che il secondo produttore globale sono gli Usa, che però devono mandare in Cina il loro minerale arricchito perché possa diventare quei magneti permanenti che troviamo nei nostri dispositivi tecnologici. Pechino ha un ruolo dominante nelle catene di approvvigionamento dei minerali perché è il centro globale di fusione e raffinazione. Per alimentare la “Fabbrica del Mondo” il Dragone ha implementato una strategia mineraria a lungo termine che le ha consentito di superare la limitatezza delle riserve e della produzione. Ha costruito una forte posizione nella raffinazione. Questa la rende il principale esportatore mondiale di metalli».
        La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
    
        Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
    
        Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
    
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico. 
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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        Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)