2018-06-17
Bruno Pizzul: «Le partite? Più bello seguirle alla radio»
Lo storico telecronista della Nazionale: «La fantasia aiuta a ricostruire l'ambiente, io conosco gli stadi e rivedo tutto. L'assenza dell'Italia in Russia è una ferita. Abbiamo creato le scuole calcio, ma i ragazzi non si affermano perché li imbottiamo di tattica».Qualche sera fa un milione di telespettatori ha rivisto su La7 Italia Francia, finale mondiale del 2006, con la sua telecronaca. Era il giorno dell'inaugurazione di Russia 2018, esclusiva Mediaset. Quale occasione migliore per colmare un triplo sentimento orfano? Gli italiani senza Nazionale, La7 senza partite, i telespettatori senza la voce di Bruno Pizzul. Il quale, com'è noto, non è mai riuscito a commentare in diretta la vittoria italiana di un mondiale. L'ha fatto, in replica, per Germania 2006, quand'era già in pensione dalla Rai.Da un anno Pizzul è tornato a Cormons, Gorizia: terra di confine, di buoni vini e di allenatori. Quando arrivo alla sua villetta con vista sul Collio, la troupe di Telecapodistria, storica emittente slovena, si sta congedando al termine dell'intervista. Come si fa tra colleghi ci diamo del tu.Ti sei riascoltato su La7?«No, non sapevo che avrebbero ritrasmesso Italia Francia. Non mi riascoltavo neanche quando lavoravo». Da quanto sei tornato quassù? «Da un anno. Avevo sempre in animo di tornare, anche se il cordone ombelicale non si era mai reciso. Una volta al mese ci venivamo anche prima».Nonostante la provincia, hai sempre una vita movimentata...«Ho tanti amici ai quali è difficile dire di no. L'altra mattina mia moglie borbottava: “Esiste la Provvidenza… perché sei nato uomo. Se fossi nato donna, con i sì che dici a tutti si potrebbe pensar male…"». La vita di provincia più tranquilla è un'idea da sfatare?«È tranquilla, ma vivace. Ogni paese ha la sagra, il torneo di calcio, tante manifestazioni. Poi c'è il Collio».Patria del vino.«I vignaioli della mia generazione lavoravano le viti e poi aspettavano i triestini in gita. Adesso hanno capito che, oltre che farlo bene, il vino bisogna promuoverlo con le tecniche del marketing moderno. Il Collio si è riempito di tedeschi e inglesi come il Chianti in Toscana».Viva la provincia, ma le trasferte continuano. Nell'ultima hai ricevuto il Premio Ischia per il giornalismo sportivo.«Un premio che mi ha lusingato. Quando mi hanno chiamato pensavo fosse come calciatore, perché da giovane ho giocato nell'Ischia».Come accadde?«Al Catania, serie B, mi ero infortunato a un ginocchio. Così mi mandarono in prestito a Ischia, dove c'era un'équipe specializzata per la riabilitazione. Anche senza infortunio non sarei diventato un campione».Come mai un ragazzo di Cormons finisce al Catania?«Mi vendette la Pro Gorizia. I calciatori friulani andavano di moda. Un anno in Serie A c'erano sei calciatori di San Lorenzo Isontino, neanche mille abitanti. Al Catania invece eravamo 6 o 7 friulani: in spogliatoio si parlava furlàn. Il cronista sportivo della Sicilia brontolava: “Va bene che ci hanno sempre invaso… turchi, arabi, normanni. Ma minchia! Ci mancavano i friulani…". Era Candido Cannavò».Perché il Friuli è stato laboratorio di calciatori?«Abbiamo sopportato le invasioni. Siamo figli di contadini, alti, robusti, abituati ai sacrifici, disponibili agli allenamenti». E terra di allenatori? Nereo Rocco, Enzo Bearzot, Cesare Maldini, Fabio Capello, Dino Zoff…«Gigi Delneri, Edy Reja… Rocco parlava di razza Piave. Anche se precisava: “Mi son de Francesco Giuseppe". Nel dopoguerra c'era tanta povertà. È la fame che ti fa fare bene le cose. Il calcio è stato un riscatto. Oggi con la pancia piena e i telefonini in mano ci si impigrisce. I giocatori più forti sono meridionali».Quanto è scomodo fare questo mestiere senza la patente?«Abbastanza. Però, non sono un caso isolato. Non ce l'avevano Indro Montanelli, Maurizio Mosca, Adriano De Zan. È un fatto di pigrizia e di circostanze. A 18 anni, quando hai la fregola della macchina, ero a Catania e non ce la facevano usare. A Ischia non serviva. E nemmeno da militare. A un certo punto è diventato un vezzo. A Milano ero il più puntuale perché con la bicicletta non patisci il traffico».Parlando di puntualità, alla prima telecronaca, Juventus Bologna, finale di Coppa Italia a Como, arrivasti un quarto d'ora in ritardo.«Vero. Fortunatamente la partita andava in differita. Ero da poco in Rai e quello era il primo incarico ufficiale. La partita iniziava alle 14 e l'auto aziendale mi aspettava in Corso Sempione alle 10.30. Ma Beppe Viola mi convinse a partire più tardi: “Basta un'ora per arrivare a Como". Invece, la Brianza bianconera intasò le strade. Non fu un esordio lusinghiero. Ci fu una piccola inchiesta interna, che si risolse quando si scoprì che c'era di mezzo Beppe».Imperdibili i suoi servizi per la Domenica sportiva.«Un talento e una persona colta, autore di cabaret, dei testi di Enzo Jannacci... Un grande amico, generoso. Sempre senza soldi, scommettitore incallito. Spuntava nel cuore della notte per portarmi a vedere qualche cavallo di sicuro successo. Che puntualmente non si classificava». Che rapporto avevate con i calciatori?«Era tutto più spontaneo. Quando andavamo a Milanello o ad Appiano Gentile, ci si fermava a giocare a biliardo o a carte con Giacinto Facchetti, Gianni Rivera, Cesare Maldini, triestino. Io avevo un buon rapporto con Rocco…».Perché? «Le famiglie avevano due macellerie e si frequentavano per lavoro. “Te go tegnùo sui zenoci", diceva. Io non me lo ricordo. Ma ricordo che al Milan i giocatori si allenavano volentieri perché era un divertimento, una battuta continua... Se facevo un buon commento mi diceva: “Te ze omo"; ma se ero critico: “Bruto mona de furlàn, traditor de l'impero…"».Austroungarico…«Era un vezzo, ma fino a un certo punto. I vecchi di allora erano nostalgici di Francesco Giuseppe. Mio padre era del '10. Ai Mondiali del '90 feci la telecronaca di Italia Austria e quando Totò Schillaci segnò il gol vincente alzai un po' la voce, soddisfatto. Quando telefonai a casa scherzò: “Te fa el tifo contro l'Austria?"».Cosa ti aspetti da questo mondiale?«Il fatto che non ci sia l'Italia è un vulnus. Non meritavamo di esserci, e non solo per le partite contro la Svezia».Qual è la causa?«Paghiamo il mancato ricambio generazionale. Da quando abbiamo ristrutturato, con epocale ritardo, i settori giovanili, l'abbandono dei ragazzi è aumentato. Ci sono le scuole calcio, ma non nascono più campioni perché già a dieci anni li imbottiscono di tattica e giri di campo. Se poi ci si mettono anche i genitori...». Chi vincerà in Russia?«Pronostico difficile. Le sudamericane hanno tanti campioni, difficili da assemblare. Germania e Spagna sono le più accreditate. Sono curioso di vedere il Belgio, e anche la Croazia che ha tanti talenti».Il più grande giocatore che hai visto?«Pelé era di un altro livello. La finale è tra lui e Maradona, ma l'eleganza ha il suo peso».La partita più emozionante che hai commentato?«A Messico '70, quand'ero all'inizio, fui chiamato come quarto telecronista. Avendo iniziato senza preavviso, quelle partite lì - penso a Germania Inghilterra, rivincita della finale del 1966 - mi sono rimaste impresse. Poi Milan Barcellona ad Atene, dove il Milan partiva sfavorito».La squadra di cui hai più apprezzato il gioco?«La Honvéd di Puskas giocava in maniera splendida. Il Grande Torino per il quale tifavo. E il Brasile che vinse in Svezia. Ricordo che dissi a Nils Liedholm, altra persona adorabile: “Siete stati sfortunati a imbattervi nel Brasile più forte del secolo". E lui: “Hai ragione, Bruno siamo stati sfortunati. Non per il motivo che dici tu, ma perché quel giorno io non stavo tanto bene"».Ti diverti di più a guardare le partite ora o quando le commentavi?«Quando le commentavo perché era un calcio diverso. Quando Vicini fu esonerato dopo Italia '90 mi disse: “Caro Bruno, da qui in poi ti divertirai meno". Aveva ragione, il calcio ha perso la capacità di sorridere. È diventato un fatto economico e finanziario in cui l'evento agonistico è quasi secondario». Hai qualche rito quando guardi le partite?«Niente riti. A volte preferisco seguirle alla radio».Sul serio?«Sì, le radiocronache sono più coinvolgenti. La fantasia aiuta a ricostruire l'ambiente. Poi io conosco gli stadi e quando il cronista parla degli spalti o della squadra che attacca da destra a sinistra, rivedo il campo, la mia postazione...».È quasi un fatto poetico.«Paradossalmente, le immagini della tv ti schiacciano. Con la radio, sei più protagonista nella costruzione dell'evento». Pierluigi Pardo dice che il telecronista è il secondo miglior lavoro del mondo, il primo è il calciatore.«Concordo con Pardo. Giocare a calcio è bellissimo, fare il telecronista è affascinante. Ma può essere insidioso, nel senso che ti dà una grande notorietà, la gente ti ferma per strada. Se ti lasci andare puoi dimenticarti di essere una persona e diventi un personaggio». Ti cito alcune espressioni dei tuoi colleghi più giovani: «Ha un tiro importante», «Ha molta fisicità», oppure le formule cinematografiche: «Mucchio selvaggio», «Sliding doors».«E “miracolo", “numero", “magia". Direi che l'enfasi abbonda, come i tormentoni involontari. Anche a me hanno segnalato frasi che ripetevo senza accorgermi. L'importante è che non diventino una firma, un narcisismo che oscura quello che succede sul terreno di gioco».Perché un ragazzo di Cormons diventa tifoso del Torino?«Nel dopoguerra qui c'erano le truppe titine. La gente spariva, le famiglie si dividevano tra Italia e Jugoslavia. Il prete dell'oratorio aveva affidato la gestione dell'unico pallone ai ragazzi di qualche anno più vecchi di noi. Erano tutti juventini. Diventammo torinisti per protesta contro quelli che non ci davano il pallone. Un po' alla volta, vedendo che i figli giocavano insieme, anche il clima tra le famiglie si stemperò. Allora bastava un pallone per 100 ragazzi. Ora ci sono decine di palloni, ma mancano i ragazzi».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)