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2022-08-11
Brasillach critico cinematografico: quando i «dreamers» di Bertolucci erano fascisti
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Robert Brasillach
Dreamers, ma 40 anni prima. Nel 2003, Bernardo Bertolucci portò a Venezia il suo film omaggio al Sessantotto e al cinema stesso. The Dreamers raccontava di un giovane americano sbarcato a Parigi nel 1968 e coinvolto nel contorto rapporto sentimentale tra due fratelli francesi. Sullo sfondo, l'occupazione della Cinémathèque française e la nascita delle barricate della contestazione. Per la maggior parte del tempo, tuttavia, i tre ragazzi non parlavano di politica, bensì guardavano film, su film, su film. Una passione bulimica, figlia del loro tempo. Ma non solo di quello. Nel suo bellissimo Senza romanticismo. Robert Brasillach, il cinema e la fine della Francia, edito da Bietti, lo studioso Claudio Siniscalchi ci racconta di un'altra generazione che ha avuto la sua educazione sentimentale e politica davanti al grande schermo. Altri giovani, altrettanto impegnati politicamente, ma su fronti opposti. Siniscalchi svela infatti un lato misconosciuto di Brasillach, scrittore noto soprattutto per il suo impegno filo fascista, pagato con la morte dopo la Liberazione: quello di critico d'arte. E, ancora prima, di appassionato cinefilo.
Fatto non scontato, per un maurassiano di formazione come lui. Fondatore dell'Action française, Charles Maurras era per la generazione di Brasillach un vero maestro. Teorico del nazionalismo integrale, visceralmente anti tedesco, Maurras aveva colmato lo iato tra giornalismo popolare e colto, inventando una formula comunicativa a un tempo raffinata e battagliera. Nella destra francese, godeva di un prestigio unanime. Ma era un uomo del secolo precedente, per il quale il cinema era modernità decadente, oltraggio alla vera arte, americanismo invadente, creazione smaccatamente ebraica (Maurras era anche piuttosto antisemita). In questo, Brasillach si distanziava nettamente dal maestro e anzi fu tra i primi a comprendere le potenzialità artistiche e mitopoietiche del grande schermo.
Nelle pagine di Siniscalchi – che espande il suo sguardo ben al di là della biografia brasillachiana, per aprire più di uno spaccato sulla Francia politica e culturale della prima metà del Novecento – emerge bene questo mondo di cinefili entusiasti che si abbeverano alla settima arte con passione e vivacità culturale. E sembra quasi di vederle, quelle salette impregnate di fumo di sigarette, affollate di giovani pronti a scatenare il dibattito alla fine della proiezione. Così Brasillach raccontava gli improvvisati cineforum dell'epoca: «In queste diatribe collettive ognuno diceva la sua, appassionatamente, sull’amore, la filosofia, l’educazione sessuale, gli omicidi politici e via discorrendo. In questi Club dello schermo si affrontavano i fan di Greta Garbo e i suoi denigratori, gli anziani cultori del cinema muto [...]. Al termine della proiezione si accendevano le luci e il “moderatore” del dibattitto dava il via alle discussioni. Poi, dal loro angolino, timidamente dapprima, con sempre maggior sicurezza man mano che parlavamo, gli spettatori esprimevano il loro punto di vista. Era uno spettacolo molto più divertente!».
Abbiamo già parlato della Cinémathèque française, tuttora il più grande archivio cinematografico del mondo. Era stata fondata nel 1936 da Henri Langlois e Georges Franju. Nel Sessantotto fu al centro di occupazioni e battaglie politiche, come appunto narra il film di Bertolucci. Ma è interessante vedere come Brasillach fu tra i primi a comprenderne l'importanza culturale e politica. Nel 1943 scrive a proposito della necessità di creare una «Comédie française de l’écran», cioè di fare per il cinema ciò che lo Stato francese ha già fatto per il teatro. L'importanza del cinema, per lui, è totale, capitale. «Non è più sufficiente», scrive, «affermare che il cinema è un’arte: per me è un linguaggio [...]. Come il romanzo ci mostra una storia, ci mostra dei personaggi; assorbe la danza e la pittura; ha bisogno della musica [...]. Il cinema è legato al danaro. Ci vuole del danaro, molto danaro, per realizzare un film». Interessante il rifiuto di ogni considerazione moralistica circa il rapporto tra soldi e arte. «Bisogna smettere» conclude, «di considerare il cinema una barzelletta. Bisognerà pensarlo seriamente, studiarlo, insegnarlo – senza dubbio – seriamente».
Insieme a Maurice Bardèche, marito di sua sorella, Brasillach scrive anche quella che è probabilmente una delle prime storie del cinema mai realizzate, uscita in prima edizione in occasione del quarantennale della settima arte, che cadeva nel 1935. Ottenne un eccellente risultato di vendite (57.000 copie) e fu ristampata più volte, anche dopo la morte di Brasillach, con varie aggiunte e modifiche. L'Histoire du cinéma fu preceduta da un incontro dei sue autori con Georges Méliès, l'autore del primo film di fantascienza della storia, il celeberrimo e iconico Voyage dans la Lune.
Tanto interesse per la forma d'arte moderna per eccellenza in autori così distanti dal «progetto filosofico» della modernità può forse stupire (ma giova ricordare che già Auguste e Louis Lumière, gli inventori del cinematografo, erano nazionalisti francesi e saranno coinvolti con il governo di Vichy). Ma bisognerebbe ricordarsi che l'intero linguaggio moderno è stato forgiato da autori come Marinetti, Pound, Céline, ovvero da geni ipermoderni quanto a stile, sensibilità, intuito, ma antimoderni quanto a narrazione ideologica.
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Un recente saggio ricostruisce la passione per il cinema dello scrittore francese, noto per la sua simpatia nei confronti dell’Asse, e i cineforum degli anni Trenta, simili a quelli del Sessantotto ma orientati in tutt’altro senso.Dreamers, ma 40 anni prima. Nel 2003, Bernardo Bertolucci portò a Venezia il suo film omaggio al Sessantotto e al cinema stesso. The Dreamers raccontava di un giovane americano sbarcato a Parigi nel 1968 e coinvolto nel contorto rapporto sentimentale tra due fratelli francesi. Sullo sfondo, l'occupazione della Cinémathèque française e la nascita delle barricate della contestazione. Per la maggior parte del tempo, tuttavia, i tre ragazzi non parlavano di politica, bensì guardavano film, su film, su film. Una passione bulimica, figlia del loro tempo. Ma non solo di quello. Nel suo bellissimo Senza romanticismo. Robert Brasillach, il cinema e la fine della Francia, edito da Bietti, lo studioso Claudio Siniscalchi ci racconta di un'altra generazione che ha avuto la sua educazione sentimentale e politica davanti al grande schermo. Altri giovani, altrettanto impegnati politicamente, ma su fronti opposti. Siniscalchi svela infatti un lato misconosciuto di Brasillach, scrittore noto soprattutto per il suo impegno filo fascista, pagato con la morte dopo la Liberazione: quello di critico d'arte. E, ancora prima, di appassionato cinefilo.Fatto non scontato, per un maurassiano di formazione come lui. Fondatore dell'Action française, Charles Maurras era per la generazione di Brasillach un vero maestro. Teorico del nazionalismo integrale, visceralmente anti tedesco, Maurras aveva colmato lo iato tra giornalismo popolare e colto, inventando una formula comunicativa a un tempo raffinata e battagliera. Nella destra francese, godeva di un prestigio unanime. Ma era un uomo del secolo precedente, per il quale il cinema era modernità decadente, oltraggio alla vera arte, americanismo invadente, creazione smaccatamente ebraica (Maurras era anche piuttosto antisemita). In questo, Brasillach si distanziava nettamente dal maestro e anzi fu tra i primi a comprendere le potenzialità artistiche e mitopoietiche del grande schermo. Nelle pagine di Siniscalchi – che espande il suo sguardo ben al di là della biografia brasillachiana, per aprire più di uno spaccato sulla Francia politica e culturale della prima metà del Novecento – emerge bene questo mondo di cinefili entusiasti che si abbeverano alla settima arte con passione e vivacità culturale. E sembra quasi di vederle, quelle salette impregnate di fumo di sigarette, affollate di giovani pronti a scatenare il dibattito alla fine della proiezione. Così Brasillach raccontava gli improvvisati cineforum dell'epoca: «In queste diatribe collettive ognuno diceva la sua, appassionatamente, sull’amore, la filosofia, l’educazione sessuale, gli omicidi politici e via discorrendo. In questi Club dello schermo si affrontavano i fan di Greta Garbo e i suoi denigratori, gli anziani cultori del cinema muto [...]. Al termine della proiezione si accendevano le luci e il “moderatore” del dibattitto dava il via alle discussioni. Poi, dal loro angolino, timidamente dapprima, con sempre maggior sicurezza man mano che parlavamo, gli spettatori esprimevano il loro punto di vista. Era uno spettacolo molto più divertente!».Abbiamo già parlato della Cinémathèque française, tuttora il più grande archivio cinematografico del mondo. Era stata fondata nel 1936 da Henri Langlois e Georges Franju. Nel Sessantotto fu al centro di occupazioni e battaglie politiche, come appunto narra il film di Bertolucci. Ma è interessante vedere come Brasillach fu tra i primi a comprenderne l'importanza culturale e politica. Nel 1943 scrive a proposito della necessità di creare una «Comédie française de l’écran», cioè di fare per il cinema ciò che lo Stato francese ha già fatto per il teatro. L'importanza del cinema, per lui, è totale, capitale. «Non è più sufficiente», scrive, «affermare che il cinema è un’arte: per me è un linguaggio [...]. Come il romanzo ci mostra una storia, ci mostra dei personaggi; assorbe la danza e la pittura; ha bisogno della musica [...]. Il cinema è legato al danaro. Ci vuole del danaro, molto danaro, per realizzare un film». Interessante il rifiuto di ogni considerazione moralistica circa il rapporto tra soldi e arte. «Bisogna smettere» conclude, «di considerare il cinema una barzelletta. Bisognerà pensarlo seriamente, studiarlo, insegnarlo – senza dubbio – seriamente».Insieme a Maurice Bardèche, marito di sua sorella, Brasillach scrive anche quella che è probabilmente una delle prime storie del cinema mai realizzate, uscita in prima edizione in occasione del quarantennale della settima arte, che cadeva nel 1935. Ottenne un eccellente risultato di vendite (57.000 copie) e fu ristampata più volte, anche dopo la morte di Brasillach, con varie aggiunte e modifiche. L'Histoire du cinéma fu preceduta da un incontro dei sue autori con Georges Méliès, l'autore del primo film di fantascienza della storia, il celeberrimo e iconico Voyage dans la Lune.Tanto interesse per la forma d'arte moderna per eccellenza in autori così distanti dal «progetto filosofico» della modernità può forse stupire (ma giova ricordare che già Auguste e Louis Lumière, gli inventori del cinematografo, erano nazionalisti francesi e saranno coinvolti con il governo di Vichy). Ma bisognerebbe ricordarsi che l'intero linguaggio moderno è stato forgiato da autori come Marinetti, Pound, Céline, ovvero da geni ipermoderni quanto a stile, sensibilità, intuito, ma antimoderni quanto a narrazione ideologica.
Ecco #DimmiLaVerità del 15 novembre 2025. Con il senatore di Fdi Etel Sigismondi commentiamo l'edizione dei record di Atreju.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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