
Una delle conseguenze nefaste del far del proprio piacere una forma di mestiere, e dunque di guadagno, è quella di iniziare a far fruttare sempre e comunque le esperienze che riguardano per l’appunto tale passione. Se sei un poeta, ad esempio – qualcuno ne potrebbe anche sorridere ma la realtà si avvicina alla descrizione che sto per confezionare – uno di quelli che vuole far carriera, che vuole contare, la cui opinione per così dire deve «pesare» sugli altri, racimolando la solita gragnuola di commenti su Facebook o su qualsiasi altra piattaforma, e che vuole piacere ai poeti savi, ai grandi vecchi, e dunque lentamente sedurre gli editor delle collane più rinomate, i direttori dei festival, e finire per far l’opinionista di altri poeti per un giornalone, o per una rivista magari letta da mille persone al mese, ebbene, la poesia diventa l’ossessione quotidiana, nulla che conti deve sfuggire e la tua passione diventerà un interesse, anzitutto. Non si torna indietro.
Non meno accade se ci si occupa di cibo, anzi, si dovrebbe dire di «food», di giardini, di fiori, di temi forti quali la violenza, il femminicidio, la guerra, la giustizia, il giornalismo in termini più ampi, o l’economia, la finanza, la memoria. Chi attraversa il paesaggio per ammirarne le bellezze e diventa, a suo modo, una firma, purtroppo inizierà a calcolare tra le differenti scelte a propria disposizione, e anche nell’organizzare un viaggio considererà come farlo, come farlo al meglio, come coinvolgere ad esempio chi gestisce parchi o giardini storici, residenze nobiliari o realtà utili. Il cammino non è più uscire di casa e andare, senza meta, senza tappe obbligate, il disegno muta profondamente.
Ecco, sono anni, anzi almeno quindici anni, che ho smesso di uscire e di andare per il solo gusto di farlo, a ben vedere c’è sempre una ragione opportuna, c’è sempre qualcosa che va fatto per un altro scopo. Magari è appunto comporre uno di questi articoli, oppure è scattare fotografie, compilare un libro nuovo, aggiungere qualche scatto ad una mostra fotografica. O meditare col reale obiettivo di comporre delle poesie meditanti che saranno poi lette o condivise o faranno parte di chissà quale eventuale progetto. Tutto finalizzato.
Me ne sono sempre più accorto, in questo assurdo tempo che corre ad una pazza velocità, che sfuma via, le giornate sempre più minime, le stagioni che paiono manciate di ore, gli anni che cadono dal calendario come le foglie di un pioppo in autunno. Me ne sono reso conto ora che molto di quel che da ragazzo avevo in sogno di fare oramai è stato, in un modo o nell’altro, compiuto. Ma di che cosa ti preoccupi, direte voi? Del fatto che questi vent’anni da adulto sono volati via per puro lavoro, annientando la distinzione tra feriale e lavorativo, tra vacanza e occasione, rimuovendo le domeniche, confondendo spesso l’alternanza giorno-notte, e tutto per ottenere quel meritato eventuale status di autore o scrittore, o forse addirittura di poeta, come si imbastiva in apertura.
Se vent’anni fa di natura scrivevano in pochi, oggi lo fanno in molti, anzi, in moltissimi. Ambientare romanzi in boschi e inventarsi personaggi arborei è oramai consuetudine, così come se si è poeti dedicare la nuova raccolta alla natura, e se si è accademici attraversare il mondo a piedi per comporre quei saggi balenghi dove la natura, l’antropologia, le geografia e la poesia antica si mescolano e rimescolano in una visione apparentemente nuova e creativa, ma in realtà vecchia di secoli. Ci siamo cascati dentro in parecchi.
Ora mi chiedo se riuscirò davvero a tornare a visitare il mondo là fuori, i sentieri, le selve, le montagne, le isole, i parchi, nella piena libertà di non voler più nulla, di non contare più sul solito tornaconto personale o professionale, artistico o addirittura spirituale. Sarai ancora capace di essere come quel bambino che a dieci anni inforcava la sua bicicletta rossa da cross, coi molleggioni sotto il sellino nero, e la tigre di un trattore Same in bella evidenza, lì davanti, e semplicemente se ne andava a zonzo nella bassa Lombardia senza nemmeno sapere bene dove? Uscivi, pedalavi, lasciavi che il cielo d’estate ti accarezzasse, che le farfalle bianche civettassero tra i fiori a lato strada, che il fiume Serio, arroventato, si concentrasse in pozze dove poter affondare i piedi, infilando le mani sotto i sassi. Non eri niente, se non un bambino con la sua curiosità e la sua bicicletta rossa, di cui andavi fiero come se fossi stato l’uomo più ricco del mondo. Quanto mi piaceva quella bicicletta rossa da cross! E quanto me la presi, mortalmente, quando mio zio, l’Angelo, ne regalò una simile a mio cugino, quasi mi avessero accoltellato alla schiena.
E così è stato anche pochi anni dopo, quando ho seguito mio padre in Piemonte, nel Monferrato, andando a vivere sul cucuzzolo di alcuni colli, un paesino con castello, e noi dispersi in una casa disegnata tra le vigne di moscato. C’erano ancora gli scorpioni neri, grandi come piccole lucertole, si annidavano nei vecchi muri, e la mattina li potevi trovare nei sottovasi o sulle ciabatte, che avevo imparato a controllare. La puntura non era certo mortale, al peggio ero lo spavento, la prima volta, e qualche linea di febbre.
Quei mondi sono scomparsi, e quei bambini se ci sono ancora stanno in biblico qui dentro, forse più immaginati che concreti eredi di quel che ero. Ma ora sono qui, dopo tanto lavoro, dopo tanto impegno, dopo tanto chissà… dopo, ecco, dopo, dopo gli anni sono diventati decenni e la vita che resta oramai è certamente più corta di quella vissuta. E tu? Chi vuoi essere? Che esperienze vorresti vivere? Che cosa ti auguri in quel che resta da abitare? Mi chiedo, ogni tanto, che cosa volesse dire Giuliano Scabia (1935-2021), quando scrisse queste parole: «Camminando si sentono i piedi della poesia, uno, due, tre / uno, due, tre, quattro / uno, uno, due, tre, quattro – ballando si sentono ancora meglio […] I poeti camminanti vanno in giro per ascoltare il suono dei piedi – o stanno fermi come alberi […] Anche l’albero è un poeta camminante, in senso verticale» (dal Prologo a Il poeta albero, Einaudi, Torino, 1995). Parlano di noi che camminiamo nel paesaggio per rincorrere il fruscio della pioggia? O il crepitio della nebbia? O no, sono solo a immagine e somiglianza di un gioco letterario? Caro Giuliano, chissà se ci rincontreremo ancora, sotto una foglia o in qualche eden.






