Nomi, condanne, sigle, vittime: chi sono, cosa pensano e cos’hanno fatto in 40 anni i gruppi estremisti di cui fa parte Alfredo Cospito. Che esaltava i kamikaze e dopo aver gambizzato un dirigente disse: «Ho goduto».Una striscia di sangue e violenza lunga 40 anni unisce le azioni degli anarco-insurrezionalisti di questo Paese, a partire dagli anni di piombo. Una storia di cui è diventato fiero erede il cinquantacinquenne pescare Alfredo Cospito. Tra il 1977 e il 1979 in Toscana seminarono il terrore i militanti di Azione rivoluzionaria, causando alcuni ferimenti e tentando sequestri. Come gli anarco-insurrezionalisti di oggi erano abbastanza vicini ai gruppi marxisti-leninisti e, infatti, quando si sciolsero alcuni confluirono in Prima linea. Un loro ex rappresentante, il calabrese Pasquale Valitutti, nonostante l’invalidità e i suoi 75 anni suonati, nei giorni scorsi ha minacciato: «Pagherete con le vostre vite, la vita di Alfredo […] voi vi mettete nel mirino delle armi libertarie, prima o poi capiterà l’occasione e ve la faranno pagare» ha dichiarato il black bloc in carrozzina. Le indagini condotte all’epoca su Azione rivoluzionaria si focalizzarono fin dal primo momento sulla frangia più oltranzista del movimento anarchico, quella insurrezionalista che, in parte, si ispirava agli scritti di Alfredo Maria Bonanno, bilaureato ex sportellista del Banco di Sicilia. Nel 1977 quest’ultimo scrisse uno dei primi tomi che teorizzava l’insurrezione a colpi di pistola, Gioia armata. Da lì ha iniziato una carriera a cavallo tra dottrina e rapine. L’ultima, nel 2009, a 70 anni compiuti, in Grecia. Negli anni ha propalato idee come questa: «Non c’è un luogo della teoria e uno della pratica […] Se la mattina voglio guardarmi allo specchio, seppure quello di una cella di isolamento, devo entrare in una gioielleria con la pistola». Nelle loro prime indagini i carabinieri lo inserirono tra gli appartenenti di Azione rivoluzionaria, salvo non trovare prove di quanto affermato da un collaboratore, anche perché per lui non dovevano esistere strutture verticistiche, ma solo «gruppi di affinità», «nuclei di base».Guru sempreverde di una parrocchia ideologicamente non distante (quello dell’insurrezionalismo ambientalista) è lo svizzero Marco Camenisch, classe 1952, il più noto degli eco-terroristi. Nel 1981 venne condannato a 10 anni per un attentato dinamitardo al traliccio di una centrale elettrica. Restò in carcere pochi mesi: con altri cinque detenuti evase dal penitenziario di Regensdorf (Zurigo) e durante quella fuga un agente fu ucciso e un altro gravemente ferito. Camenisch fu accusato anche dell’assassinio di una guardia di confine e venne arrestato il 5 novembre 1991 vicino a Massa Carrara, dopo una colluttazione in cui ferì a un braccio un carabiniere. Il 2 aprile 1993 si prese altri 12 anni di carcere per tentato omicidio e per tre attentati a tralicci dell’Enel in Toscana. È stato estradato in Svizzera nell’aprile 2002, dove nel 2017 è uscito anticipatamente dalla prigione.Tra le pagine più sanguinose di questa storia c’è anche quella della fantomatica «Organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionale» che avrebbe agito tra il 1985 e il 1996 e contro cui il pm Antonio Marini istruì un processo monstre in cui chiese le prime condanne per partecipazione ad associazione sovversiva, ma la sua innovativa ipotesi si scontrò contro il muro dei giudici. Alla sbarra con quell’accusa finirono anche Cospito e l’ex compagna Anna Beniamino, successivamente assolti. Insomma già nei primi anni ‘90 l’anarchico più famoso del momento frequentava giri pericolosi.Le indagini partono dalla scoperta di un covo in via Cristoforo Colombo a Roma.La cantina risulta, sin dal 4 ottobre 1989, nella disponibilità di Giovanni Barcia, una delle figure chiave dell’anarco-insurrezionalismo internazionale. All’interno viene trovato un vero e proprio arsenale e copioso materiale riconducibile alle teorie di Bonanno. All’epoca il gruppo è composto da una strana miscela di banditi sardi, pregiudicati comuni e anarco-insurrezionalisti. Uno dei leader è Luigi De Blasi, il quale, insieme con alcuni sardi, compreso Giovanni Mele, morto ammazzato in Sardegna nel 1990, partecipa al sequestro di Mirella Silocchi (28 luglio 1989), la moglie di un industriale del Parmense che successivamente viene uccisa. Anche De Blasi fa una brutta fine: un mese dopo il sequestro, salta in aria a bordo di un’auto imbottita di esplosivo, che sarebbe dovuta esplodere nel vicino commissariato romano del Prenestino.La banda è coinvolta anche nel rapimento di Marzio Perrini, in atti di sabotaggio e in rapine. Nel corso di un assalto alla gioielleria Ciletti di Pescara, il 21 dicembre del 1990, viene ucciso Antonio Lo Feudo. I reati di associazione con finalità di terrorismo e di banda armata non vengono contestati a Bonanno, che in aula si difende e viene condannato «solo» per propaganda e apologia sovversiva, ma al cosiddetto gruppo anarchico romano: il sardo Francesco Porcu, viene condannato all’ergastolo, Gregorian Garagin, un architetto armeno nato a Bengasi (Libia) e l’hostess statunitense Rose Ann Scrocco (arrestata nel 2006 dopo anni di latitanza), già compagna di De Blasi, prendono 30 anni, anche per concorso in sequestro con morte dell’ostaggio, in omicidio e strage. Agli atti finiscono le pubblicazioni del gruppo: Anarchismo, Provocazione, Gas, Canenero e il Manuale dell’anarchico esplosivista.Dopo la fine della banda, gli indagati Cospito e Beniamino iniziano a dare alle stampe Pagine in rivolta (dal 1997 al 2002), Kno3 (unico numero del 2008), che prende il nome dal salnitro, utilizzato per la polvere da sparo, e Croce nera anarchica, dal 2014 al 2016. Sono loro a prendere il testimone dell’insurrezionalismo armato predicato da Bonanno e messo in pratica in primis da Azione rivoluzionaria. È proprio questa sigla a ispirare il nuovo corso. Durante il processo all’Orai Garagin e un altro imputato diffondono un proclama con cui propugnano, con riferimento all’esperienza lottarmatista degli anni ‘70, «la ricostruzione di un’organizzazione anarchica combattente». Cospito, la Beniamino e altri, in un documento del 1997, rispondono a quella chiamata alle armi e, pur rivendicando che ogni azione, dal sabotaggio alla rapina, «è una scelta personale di attacco al dominio», ribadiscono di non essere contrari «a qualsiasi forma organizzativa». Intanto, un altro vecchio imputato del processo all’Orai, il palermitano Barcia (condannato in Italia nel 2005 con rito abbreviato a 20 anni di reclusione per associazione sovversiva, partecipazione a banda armata e rapina), nel 1998, insieme con i compagni Claudio Lavazza e Michele Pontolillo fredda due poliziotte a Cordoba durante una rapina di autofinanziamento. Un’ulteriore prova per i magistrati italiani della pericolosità degli anarchici.I tre assassini finiscono in regime di carcere duro, il Fies spagnolo. Nel 1999 compare sulla scena la sigla anarchica Solidarietà internazionale che colpisce a Milano l’ufficio greco del Turismo e una caserma dei carabinieri. Nel 2000 ordigni incendiari e dinamite vengono ritrovati nella chiesa di Sant’Ambrogio e sul Duomo. Tra gli obiettivi della lotta c’è proprio il Fies. Nel 2001 in vista del G8 di Genova le azioni aumentano e colpiscono in diverse parti d’Italia, ferendo anche un carabiniere. Le rivendicazioni sono della Cooperativa fuoco e affini (occasionalmente spettacolare), per gli inquirenti riconducibile anche a Cospito. Nel 2002 fa il suo esordio la Brigata 20 luglio, fondata in memoria di Carlo Giuliani e il livello dell’attacco sembra alzarsi: un motorino bomba viene piazzato davanti al ministero dell’Interno a Roma e qualche mese più tardi due bombe esplodono nei pressi della Questura di Genova. Nel 2002 e nel 2003 un quarto gruppo, le Cellule contro il Capitale, il carcere, i suoi carcerieri e le sue celle, e Solidarietà internazionale colpiscono giornali, tv e istituzioni spagnole, sempre nell’ambito della lotta contro il regime del Fies. Una delle rivendicazioni viene trovata nella cella di Barcia. Il filo rosso che unisce anarchici violenti dentro e fuori dal carcere trova una conferma ufficiale.Nel 2003 fa la sua comparsa la Federazione anarchica informale che sembra l’erede dell’esperienza di Azione rivoluzionaria e che coagula intorno a sé le quattro nuove cellule anarco-insurrezionaliste. Secondo gli inquirenti protagonista di questa stagione è Cospito. La Fai con la sua sigla si fa beffe dell’acronimo della Federazione anarchica italiana che raccoglie i seguaci del pensiero di Mikhail Bakunin. Ma la critica è anche al cosiddetto insurrezionalismo sociale, rappresentato da Massimo Passamani, antico allievo di Bonanno. Un’area, a giudizio di Cospito, malata di assemblearismo, uno «strumento» da superare. Per colui che è considerato tra i fondatori della Fai «parlano solo le azioni, solo gli anarchici e le anarchiche che rischiano la vita colpendo duramente, la comunicazione avviene attraverso le rivendicazioni».Nel 2007 otto presunti delegati dei gruppi fondatori si riuniscono e mettono nero su bianco la nuova strategia. Nel verbale i presenti si celano dietro i nomi di alcuni personaggi Disney. «Quo», espressione della «genovese» Brigata 20 luglio, lancia la sfida: «Io parlo per il nostro gruppo: abbiamo deciso di procurarci le pistole e iniziare ad usarle». Secondo i giudici e le Digos che per anni hanno indagato su di loro Cospito, l’amico Nicola Gai e la compagna Beniamino avrebbero piazzato, nel giugno del 2006, due ordigni davanti alla caserma degli allievi carabinieri di Fossano e, nel 2007, tre bombe nei cassonetti del quartiere residenziale della Crocetta di Torino, attentati firmati dalla sigla Rivolta anonima e tremenda. In entrambe le occasioni venne scelta la stessa tecnica utilizzata in Spagna dai terroristi dell’Eta e dagli insurrezionalisti nostrani davanti alla Questura di Genova nel 2002 e al commissariato di Sturla nel 2004: più ordigni programmati per esplodere in orari diversi, così da colpire le forze dell’ordine eventualmente accorse. Per gli investigatori tali atti puntavano a uccidere o almeno non escludevano questa eventualità.Il 31 marzo 2011 il gruppo Sorelle in armi, Nucleo Mauricio Morales (cileno morto nel 2009 durante il trasporto di una bomba) invia un plico esplosivo alla sede della Brigata paracadutisti Folgore di Livorno. Lo apre il tenente colonnello Alessandro Albamonte che, per quello scoppio, perde l’occhio sinistro e quattro dita. Ma quel sangue non sazia Cospito che si dice colpito dall’esplosione della centrale nucleare di Fukushima, avvenuta qualche giorno prima, il 16 marzo. Per questo inizia a rimuginare «odio profondo» e decide di «azzoppare» uno di quelli che definisce gli «stregoni dell’atomo». E così il 7 maggio 2012, insieme con Gai, colpisce personalmente alle gambe il manager dell’Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi. Quel giorno scende dal motorino, si avvicina al bersaglio e dopo avergli sparato due volte alle gambe resta fermo a guardarlo. Un errore imperdonabile, che consente alla vittima di vedere bene il motorino e dare impulso alle indagini.Nella rivendicazione, lunga quattro pagine, i feritori ci fanno sapere: «Pur non amando la retorica violentista con una certa gradevolezza abbiamo armato le nostre mani, con piacere abbiamo riempito il caricatore». L’azione è rivendicata da un nucleo intitolato all’anarchica greca Olga Ikonomidou, detenuta appartenente alla Cospirazione delle cellule di fuoco. Un vezzo pericoloso quello delle firme, che ha alimentato l’inchiesta torinese Scripta manent, costruita proprio sulle rivendicazioni degli anarchici. Tanto che Cospito, nel 2021, ha dovuto ammettere che «le azioni rivendicate hanno un svantaggio nei confronti di quelle non rivendicate: comportano un rischio maggiore dal punto di vista repressivo». La scelta di Cospito assomiglia più al modello delle avanguardie armate marxiste-leniniste che a quello agognato da Bonanno dell’insurrezione diffusa e anonima.Per questo un sito legato all’ideologo catanese, nel 2012, anonimamente, boccia l’invio del comunicato: «La rivendicazione è arrivata ai media ed è stata subito presa in considerazione. Niente selva oscura, ma luci al neon accese per illuminare la propria figura. Essendo esclusiva proprietà di qualcuno, non potrà quindi appartenere a tutti».Dopo essere stato pizzicato dai poliziotti ed essere stato arrestato nel 2016, Cospito ha continuato a offrire dettagli sulla gambizzazione di Adinolfi: «In una splendida mattina di maggio ho agito e in quelle poche ore ho goduto a pieno della vita. […] Non c’è bisogno di una struttura militare, di un’associazione sovversiva o di una banda armata per colpire; chiunque, armato di una salda volontà, può pensare l’impensabile e agire di conseguenza. […] La pistola la comprai al mercato nero, trecento euro. Non servono infrastrutture clandestine o grandi capitali per armarsi». Una specie di memorandum per il killer fai-da-te. Da allora le parole di Cospito si diffondono attraverso interviste non autorizzate e comunicati. Difende la pratica del terrorismo, che gli anarchici «hanno sempre utilizzato», spiega che «la rivoluzione la può fare solo chi ha il diavolo in corpo», sostiene l’«azione diretta e distruttiva», inneggia allo scontro «armi in pugno con il sistema», alle «azioni che mettono in pericolo la vita degli uomini e delle donne del potere» e critica i compagni che rifiutano le «nuove forme di lotta», fatte di «attentati dinamitardi, incendi, pacchi bomba, gambizzazioni, espropri». E ancora spiega che gli anarchici nichilisti come lui privilegiano «le azioni di violenza a impatto forte», hanno come obiettivo «il semplice spargere il terrore tra le fila degli sfruttatori», infine si lamenta che, rispetto alla retorica rivoluzionaria di molti, solo «pochissimi si spingono oltre colpendo uomini e donne delle gerarchie del dominio», mentre ricorda che il ruolo dell’anarchico oggi è quello di «colpire, colpire e ancora colpire».Nell’ottobre del 2018 un diciasettenne insurrezionalista russo, Mikhail Zhlobitsky, si fa saltare per aria in una sede dell’Fsb (ex Kgb) di Arkhangelsk, città del circolo polare artico, ferendo tre agenti. Dal carcere Cospito mostra di apprezzare, parlando di «direzione giusta» e «gesto vendicatore». Nel settembre 2020 la Fai rivendica in nome del kamikaze russo due plichi esplosivi, uno dei quali indirizzato alla polizia penitenziaria del carcere di Modena, dove in pieno lockdown ci fu una sanguinosa rivolta con morti tra i detenuti.Alla fine per questa bulimia da riflettori e per il suo ruolo di cattivo maestro Cospito a maggio si è beccato il 41bis, il carcere duro che vieta ogni tipo di comunicazione con l’esterno. A luglio, la Cassazione ha riqualificato il reato per l’attentato alla scuola allievi di Fossano, chiedendo di contestare devastazione, saccheggio e strage ai danni dello Stato. La Procura generale di Torino ha chiesto la condanna all’ergastolo e dodici mesi di isolamento diurno, le difese hanno eccepito la costituzionalità della pena e i giudici hanno rinviato la decisione alla Corte costituzionale. Intanto catene umane, appelli e visite dei parlamentari fanno pressione su chi deve decidere sulla sorte del più aggressivo degli anarco-insurrezionalisti.
Donald Trump (Ansa)
La Corte Suprema degli Stati Uniti si appresta a pronunciarsi sulla legittimità di una parte dei dazi, che sono stati imposti da Donald Trump: si tratterà di una decisione dalla portata storica.
Al centro del contenzioso sono finite le tariffe che il presidente americano ha comminato ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa). In tal senso, la questione riguarda i dazi imposti per il traffico di fentanyl e quelli che l’inquilino della Casa Bianca ha battezzato ad aprile come “reciproci”. È infatti contro queste tariffe che hanno fatto ricorso alcune aziende e una dozzina di Stati. E, finora, i tribunali di grado inferiore hanno dato torto alla Casa Bianca. I vari casi sono quindi stati accorpati dalla Corte Suprema che, a settembre, ha deciso di valutarli. E così, mercoledì scorso, i togati hanno ospitato il dibattimento sulla questione tra gli avvocati delle parti. Adesso, si attende la decisione finale, che non è tuttavia chiaro quando sarà emessa: solitamente, la Corte Suprema impiega dai tre ai sei mesi dal dibattimento per pronunciarsi. Non è tuttavia escluso che, vista la delicatezza e l’urgenza del dossier in esame, possa stavolta accelerare i tempi.
Gennaro Varone
Il pubblico ministero Gennaro Varone sulla separazione delle carriere: «Le correnti sono orientate proprio come un partito politico».
«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).
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Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.






