2025-06-15
«A Bologna un sistema che toglie i figli ai padri Ora bisogna fare luce»
La denuncia di avvocati e associazioni dopo l’inchiesta sull’ex assessore e presidente della Casa delle donne: «Ma il Comune non ci ascolta».La storia di un padre: «Mi hanno negato la bimba e messo il braccialetto elettronico».Lo speciale contiene due articoliSeparazioni giudiziali, figli contesi, misure cautelari, denunce per maltrattamenti. E poi, ancora, servizi sociali, incontri protetti, braccialetti elettronici, cartelloni strappati e famiglie spaccate. A Bologna, storica città di sinistra e a trazione Partito democratico da anni, inizia a smuoversi una situazione che sembrava ormai radicata. Al centro di tutto c’è il ruolo della Casa delle donne e dello studio legale Zaccaria, realtà storiche del tessuto cittadino. Ma negli ultimi mesi qualcosa sembra essere cambiato. A scuotere il dibattito pubblico è stata l’indagine a carico dell’avvocato Susanna Zaccaria - già assessore alle Pari opportunità, ex presidente della Casa delle donne, e ancora oggi figura cardine del mondo legale e politico bolognese - per il presunto concorso nel sequestro della piccola Matilde.Le accuse (a indagare è la Procura di Milano) sono ancora tutte da accertare. Ma hanno dato voce a chi da anni denunciava automatismi, conflitti d’interesse e un sistema di relazioni opaco. «Le situazioni si assomigliano tutte», racconta Maria Lea Maltoni, avvocato civilista con 20 anni di esperienza, che segue diversi padri separati in contenzioso con ex partner assistite dallo studio Zaccaria. «Una donna si rivolge alla Casa delle donne per problemi di separazione, viene indirizzata allo studio legale, parte una denuncia per maltrattamenti - spesso con l’aggravante della presenza del minore - e scatta la sospensione dei contatti padre-figlio. Poi iniziano, se va bene, gli incontri protetti, una volta a settimana od ogni due».Secondo l’avvocato, il danno si consuma sul piano civile, ben prima che il penale possa chiarire i fatti. «Anche se la denuncia viene poi archiviata, il giudice civile - per una forma di cautela, e anche per la sensibilità sociale sul tema - concede pochissimo a quei padri. E intanto passano mesi, anni».«Io ho casi identici», prosegue, «Padri che restano per sei o sette mesi senza vedere i figli, e che poi rientrano in rapporto solo con l’educatore accanto, in stanze anonime. È devastante per tutti, soprattutto per i minori». E aggiunge: «Visto che la Casa delle donne riceve fondi pubblici, riteniamo legittimo chiedere che vengano forniti anche dati trasparenti: quante donne seguite si rivelano effettivamente vittime accertate di violenza? Quante denunce si concludono con archiviazioni o proscioglimenti? Al momento non esistono numeri pubblici in merito». E poi c’è l’indagine su Susanna Zaccaria. «Non commentiamo l’indagine», precisa Maltoni, «Ma se un rappresentante di un’istituzione pubblica, viene coinvolto in un’accusa così grave, è doveroso che faccia un passo indietro. Almeno temporaneamente. Per il rispetto che si deve alle istituzioni, ma anche per tutelare la stessa credibilità del sistema che rappresenta».Anche per Daniela Martelli Tattini, presidente dell’associazione Genitori sottratti, la situazione bolognese è diventata intollerabile. «Noi non ci schieriamo con i padri contro le madri. Difendiamo il diritto dei figli ad avere due genitori. E questo diritto oggi è messo in discussione», spiega.Fondata nel 2009 da Roberto Castelli, padre separato e presidente fino a inizio 2024, l’associazione è cresciuta molto negli ultimi anni. «Oggi siamo quasi un centinaio. Ma i padri spesso si vergognano a denunciare violenze fisiche e psicologiche. Prima della nostra campagna affissionale eravamo la metà. Quando hanno visto che qualcuno parlava anche di loro, si sono sentiti legittimati. È stato un segnale fortissimo».La campagna, dal titolo La violenza non ha genere, ha sollevato un’ondata di polemiche. «Abbiamo messo in giro manifesti autofinanziati. Frasi semplici, ma forti. Volevamo solo dire che non esiste una violenza di serie A e una di serie B. Ma ci hanno attaccati», racconta Martelli.«Hanno vandalizzato ogni cartellone. Tutti. C’erano scritte come uomo morto non uccide. Da donna, mi sono vergognata. Il nostro messaggio era chiaro: non siamo contro nessuno. Ma volevamo equilibrio. A Bologna non si può parlare senza venire etichettati».Martelli non risparmia critiche al contesto locale. «Abbiamo chiesto svariate volte un confronto pubblico con l’amministrazione comunale. Niente. C’è un clima pesante. Il vice sindaco Emily Clancy della giunta bolognese a guida Matteo Lepore si è schierata con la Casa delle donne, senza neppure ascoltarci. Bologna è una città che si infiamma subito, se tocchi certi argomenti».L’associazione, priva di fondi pubblici, offre ascolto con un numero telefonico dedicato, supporto psicologico e consulenze. «Abbiamo uno psicologo-psicoterapeuta, avvocati che fanno il primo consulto gratuitamente e a seguire applicano costi estremamente calmierati. I padri arrivano da noi distrutti. Spesso non sanno nemmeno dove andare. A Bologna, come nel resto d’Italia, non c’è un centro anti violenza per uomini. Le sembra normale?». E ricorda: «In associazione abbiamo avuto padri con il volto tumefatto e lividi nel corpo. Padri a cui è stato imposto il braccialetto elettronico per mesi, per una denuncia mai confermata, quindi falsa! E nel frattempo hanno perso spesso il lavoro, sempre la casa e i figli. È giusto così?». «Noi difendiamo la bigenitorialità. Non è una battaglia di genere» , dice ancora Martelli.. «Il canovaccio è sempre lo stesso, e fa male ai padri, ai figli e alla giustizia», spiega l’avvocato Maltoni. È lei stessa a rilanciare: «Il problema non è proteggere le donne. È proteggere tutti i soggetti deboli. Anche i padri lo sono. Ma oggi non c’è trasparenza. E non c’è controllo. Se una realtà riceve fondi pubblici, è giusto sapere a che esiti portano i casi che gestisce. Altrimenti il rischio di abuso c’è, eccome». E ancora. «Chi ha più problemi nelle separazioni, oggi, sono quasi sempre i padri», aggiunge. «Se si parla di violenza, dobbiamo riconosce che anche un uomo la può subire» conclude Martelli.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bologna-sistema-toglie-figli-ai-padri-2672373723.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-mia-ex-compagna-era-violenta-ma-sotto-accusa-sono-finito-io" data-post-id="2672373723" data-published-at="1749977615" data-use-pagination="False"> «La mia ex compagna era violenta. Ma sotto accusa sono finito io» «Anche l’ultimo dei carcerati ha il diritto di parlare con suo figlio. A me non è stato concesso neppure questo». G.G. è una figura conosciuta a Bologna, radicata nel tessuto cittadino, ma soprattutto è un pedagogista. Da anni lavora con ragazzi difficili, famiglie in situazione di disagio, nuclei vulnerabili. Coordina progetti educativi e segue direttamente oltre 90 famiglie. «Faccio un lavoro di cura», dice con fermezza. «Sono un riferimento per molte persone che non parlano, che non hanno voce». Eppure, negli ultimi due anni, è stato travolto da una vicenda personale che definisce senza esitazioni «un incubo giudiziario ed esistenziale». La sua colpa, dice, è una sola: «Aver deciso di separarmi da una compagna violenta e aver voluto continuare a essere padre».Tutto inizia con la fine di una relazione travagliata. «Subivo violenza fisica e psicologica, ma resistevo per amore di mia figlia», racconta. La rottura arriva nel 2023, quando scopre che la sua ex compagna ha una relazione con un altro uomo. G. lascia la casa di famiglia e si trasferisce a 700 metri, pur di rimanere vicino alla figlia. «Ho lasciato tutto, mobili, affitto, debiti. Ma volevo esserci per lei».Da quel momento, però, inizia un’escalation di ostacoli. «La madre ha cominciato a togliermi la bambina, a non rispondere al telefono, a inventarsi scuse. Usava nostra figlia come strumento di ricatto emotivo».G. descrive un meccanismo in cui, a suo dire, l’uomo è sistematicamente marginalizzato: «La narrazione è sempre la stessa: la donna subisce, l’uomo è il carnefice. Ma io non ho mai avuto problemi con nessuno. Nemmeno un precedente».Dopo una lite per portare le uova di Pasqua alla figlia, la situazione precipita. «La madre chiamò la polizia. Disse che la stavo molestando. Io volevo solo vederla». Seguono denunce, l’intervento della Casa delle donne, un allontanamento coatto, e infine - il 2 maggio - la totale sparizione della bambina dalla sua vita.«Per quasi 80 giorni non l’ho più vista. Passavo ore sotto casa. Nessuno mi diceva niente. È la strategia: lasciarti nel buio, farti impazzire, costringerti a sbagliare».Quando finalmente riesce a incrociare casualmente la figlia sotto casa e la porta al parco, dopo cinque minuti arrivano i carabinieri: «Mi hanno accusato di rapimento. In realtà era lei a corrermi incontro. Ma per loro contava solo la misura cautelare».Dopo quell’episodio, scatta per lui il braccialetto elettronico. «Abitavo a 700 metri da mia figlia. L’allontanamento era di 500. Bastava un passo in più, e suonava l’allarme». Per otto mesi vive sotto controllo. «Anche se dovevo andare a cena con un’artista che avevo ingaggiato per lavoro, dovevo chiedere il permesso al giudice».Nel frattempo, racconta, la sua reputazione viene infangata. «Documenti ufficiali mi descrivevano come un padre assente, come un pericolo. Tutto firmato da chi, a parole, tutela le donne come lo studio legale Zaccaria. Ma dove era l’interesse per il benessere di mia figlia?».Dopo mesi, inizia finalmente il percorso degli incontri protetti. «Mia figlia mi salta al collo piangendo. Mi dice: “Papà dove sei stato”. Non ha mai mostrato paura, mai rifiuto». Le relazioni dei servizi sociali iniziano a confermare: il legame tra padre e figlia è forte, sano. Anche la nonna materna, inizialmente esclusa dalla vita della bambina, sostiene il reinserimento. «Alla fine», prosegue G., «persino il tribunale ha iniziato a vedere le incongruenze. Ho dovuto ricostruire tutto, passo per passo».Il 17 luglio sarà il giorno decisivo, il penultimo atto del processo civile. L’obiettivo: riavere pienamente il ruolo di padre. «Ho una relazione dei servizi che dice che sono un ottimo genitore. Che non c’è alcuna ragione per cui io non possa stare con mia figlia».Le sue parole, però, restano segnate dalla rabbia e dalla frustrazione: «Quello che ho vissuto è stato disumano. Chi gestisce questi processi, molto spesso, non tutela i bambini. Ma segue un copione ideologico. Demonizza, isola, distrugge».Alla fine dell’intervista, G. si ferma un attimo. «Sa qual è la cosa più assurda? Che io lavoro con le persone, con le famiglie. Ho sotto di me 90 nuclei che si affidano a me. Eppure per il sistema, io sono stato trattato peggio di un criminale».