2022-11-04
Innovazione contro l’ecodecrescita. Un brevetto taglia del 15% le bollette
Una start up dell’Università di Lecce ha scoperto nano particelle di ossido di alluminio che, dentro i circuiti di climatizzazione, riducono le spese senza tagliare i consumi. È il modello da seguire, non la transizione Ue.Da una costola di una costola di uno studio di Carlo Rubbia, una start up dell’Università di Lecce, lo scorso decennio, ha scoperto che nano particelle di ossido di alluminio sarebbero state in grado di aumentare nei liquidi la capacità di trasferimento di calore. La scoperta ha poi camminato sulle proprie gambe fino a diventare quello che oggi è un prodotto commerciale che si chiama Maxwell. Un flacone apparentemente come tanti altri che, però, inserito come additivo nei circuiti dei aerazione di climatizzazione, è in grado di far risparmiare il 15% della bolletta. Se i circuiti fossero perfetti, una volta inserito il rabbocco durerebbe in eterno. Ma visto che, in realtà, esistono perdite e guasti, ogni tanto se ne aggiunge un po’ e quando si smonta l’impianto si recupera il liquido, si separano le nano particelle e si creano nuovi flaconi. Avanti così.«L’applicazione», spiega Cosimo Michele De Russis vice presidente di Htms, l’azienda che detiene il prodotto, «vale per i grandi grattacieli, gli impianti logistici del freddo, ma anche gli ospedali e i data center. L’obiettivo concreto, e vale per un immobile già studiato in Arabia saudita, è quello che a fronte di un investimento iniziale di 10 milioni di dollari scarsi, nel decennio successivo se ne risparmiano quasi 47. In generale, l’investimento si ripaga in circa due anni».L’esempio dei sauditi non è casuale. Il fondo specializzato nell’innovazione di Saudi Aramco ha investito nella società che dal 2018 ha la sede a Dublino per via del precedente ingresso di un fondo irlandese. Insomma, oltre all’idea tutta italiana, l’azienda mantiene anche un piede nella Penisola. O meglio, là dove tutto è iniziato: a Lecce. In Puglia c’è anche un sito produttivo che dovrà essere sviluppato. A quanto ci risulta, c’è più di un interesse sul capitale. Come tante storie simili a questa si arriva a completare un ciclo e poi ci si espande se il mercato lo consente.È chiaro che sarebbe importante mantenere la maggior quota possibile di made in Italy in queste fiale composte di nano particelle di ossido di alluminio, ma non solo per l’importantissima questione dei posti di lavoro e del nostro Pil. La storia di questa scoperta ci sembra anche un simbolo che il nostro Paese dovrebbe abbracciare. La transizione ecologica come ci viene proposta da Bruxelles coincide con la decrescita infelice della nostra economia. Non possiamo accettare un futuro fatto di tagli energetici, auto elettriche iper costose in grado soltanto di spaccare in due la società e consentire la libera mobilità soltanto alle classi sociali più ricche.Il mondo e l’ecologia si rilanciano con la tecnologia. Vogliamo inquinare meno? Perfetto, investiamo su decine di brevetti come Maxwell. Spetta all’uomo migliorare e ottimizzare i consumi. Tutto il resto coincide con un modello caratterizzato dalla povertà diffusa. Prendiamo a esempio quanto successo nel giugno scorso.I nostri rappresentanti in Europa hanno approvato il divieto di produrre auto a benzina e diesel a partire dal 2035. Bocciato persino l’emendamento del Ppe che mirava a mantenere una quota di motori a scoppio almeno del 10%. Invece la follia pseudo ambientalista ha avuto il sopravvento. Sì, pseudo, perché per prima cosa la scelta è frutto di un brodo culturale che spaccia per beneficio ciò che in realtà non lo è. È falso che il veicolo elettrico inquini meno degli altri. Se prendiamo come riferimento un’automobile che trasporti cinque persone, tra la versione elettrica e quella con motore endotermico diesel euro 6, la prima darà veri vantaggi ambientali soltanto dopo avere percorso almeno 150.000 km, sempre che abbiamo sostituito le batterie quando prescritto, poiché dopo cinque anni d’uso l’efficienza degli accumulatori attuali si riduce del 30%, e con loro l’autonomia. Ma per percorrere quel chilometraggio un automobilista medio impiega almeno 12/15 anni, periodo che vede spesso la necessità di cambiare mezzo per altri motivi. Comunque, un tempo nel quale avremmo dovuto cambiare batteria già tre volte.E qui arriviamo al tema dello smaltimento e della filiera. Un singolo set di batterie per auto elettriche può pesare fino a 500 chilogrammi e per la sua fabbricazione servono lo scavo, lo spostamento e il trattamento di oltre 225 tonnellate di materie prime che si trovano in Cina o nella Repubblica Democratica del Congo. Nel frattempo ci saremo liberati dalla dipendenza del gas russo per metterci nelle mani della Cina che ora ha il monopolio di terre rare e altre materie prime indispensabili per le rinnovabili. Sarebbe così folle immaginare investimenti per motori a scoppio che consumino un decimo rispetto agli attuali e al tempo stesso (come in realtà sta avvenendo) ridurre l’esposizione da singoli produttori di petrolio e gas? La domanda è retorica. Lo stesso discorso vale per il nucleare e per tutto ciò che rende sostenibile l’economia. Per sostenibile si intende con sprechi ridotti e margini più alti nella filiera produttiva. Abbiamo bisogno, in Europa, di più brevetti e meno piani quinquennali. E soprattutto non servirà più chiedere: «O la pace o l’aria condizionata».
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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