Roberto Cingolani annuncia un ulteriore rincaro del 40%: non pesa solo la ripresa della produzione, ma soprattutto il fondamentalismo verde dell'Ue. Colpo di grazia per famiglie e industria. Pure Polonia e Danimarca travolte.
Roberto Cingolani annuncia un ulteriore rincaro del 40%: non pesa solo la ripresa della produzione, ma soprattutto il fondamentalismo verde dell'Ue. Colpo di grazia per famiglie e industria. Pure Polonia e Danimarca travolte.Finalmente il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, l'ha detto chiaro e tondo. «Le bollette sono aumentate lo scorso trimestre del 20% e il prossimo aumenteranno fino al 40». In pratica, se le previsioni sono giuste - e lo saranno - l'anno prossimo rispetto alla primavera appena trascorsa pagheremo il 68% in più per riscaldare le nostre abitazioni, per avviare i nostri pc o i macchinari delle fabbriche. «Il rincaro del gas ha una ragione semplice», ha detto il ministro durante un convegno organizzato dalla Cgil, «Mentre la pandemia viene debellata, l'economia mondiale si riprende. Le aziende tornano a lavorare a pieno regime, e la domanda di energia si impenna. Ergo, il costo del gas, fonte principale dell'elettricità, aumenta. Poi c'è l'altro elemento, l'aumento del prezzo della CO2. E questo ha a che fare con la necessità di decarbonizzare l'economia, per combattere la crisi climatica. Le aziende che producono anidride carbonica (il principale gas serra), fra le quali quelle energetiche, nella Ue devono pagare per questo, comprando quote di emissioni nel sistema europeo Ets. Il prezzo di queste quote viene aumentato gradualmente, per spingere le aziende a decarbonizzare. Ma questo porta anche a un aumento dei costi di produzione, e quindi delle tariffe in bolletta».La sintesi è perfetta. Bisogna aggiungere però qualche elemento. Ieri a partire dai sindacalisti presenti e poi da altri politici, in molti si sono stupiti delle dichiarazioni di Cingolani. Purtroppo non c'è nulla di cui stupirsi. L'incremento non è per niente qualcosa di improvviso. Ne abbiamo scritto numerose volte denunciando il trend e soprattutto le scelte dell'Unione europea. Quando ieri il ministro si è soffermato sui costi del trading della CO2 ha spiegato, come riportiamo sopra, che essi vengono aumentati gradualmente. Purtroppo non è così. La Borsa degli Ets, i certificati che prezzano questo mercato, ha visto l'asticella passare dai 33 euro a tonnellata dello scorso gennaio alle attuali 63. Questo perché l'Unione europea ha fortemente voluto il Fit for 55, un pacchetto che impone obiettivi di transizione ecologica totalmente fuori dalla realtà. Il risultato è che una buona fetta di aziende Ue si troverà fuori mercato già nei prossimi due anni e la spinta politica sta alzando i prezzi di gestione di chi, secondo i nuovi criteri, inquina. Il tutto mentre l'Ue è responsabile di poco più del 9% di tutte le emissioni mondiali. Niente rispetto alle quote di Cina, Asia e persino Usa. Eppure sembra una scelta irreversibile.Lo stesso Cingolani ha fatto due dichiarazioni di buon senso ed è stato mangiato vivo dai fautori dell'Europa a tutti i costi. Ha invitato il governo e pure gli stakeholder a ragionare su una transizione più moderata se non si vuole sacrificare l'industria dell'auto o altre eccellenze italiane ed è stato messo in croce. Peggio quando ha aperto a nuove vie sul nucleare. Ha ricordato che non possiamo affidarci soltanto alle rinnovabili, ma che ci vuole l'atomo di ultima generazione affiancato a gas e semmai pure l'idrogeno. Anche in questo caso le sue dichiarazioni sono state accolte come se fosse un esponente del centrodestra che critica l'Ue. Cingolani ha solo infilato il dito nella piaga che Bruxelles si ostina a definire in altro modo. Per la Commissione il green estremo è progresso. Sarà invece solo povertà se non lo si gestisce in base alle proprie caratteristiche economiche. Ieri anche in Polonia hanno ricevuto la stessa notizia che ha diramato Cingolani al convegno Cgil. I polacchi hanno appreso che il prossimo anno le loro bollette aumenteranno del 40%. Il governo di Varsavia intende inserire una voce apposita per calcolare il margine di aumento imputabile direttamente alle politiche green della Ue. In Polonia il tema tiene banco. Ieri, passando alla Danimarca, il principale trader energetico Nordstrom Invest ha fatto bancarotta. Non è risucito a sostenere gli aumenti. Da noi ancora tutto tace. Eppure in Italia le aziende non energivore pagano già un differenziale del 30% rispetto alla media Ue. Colpe delle tasse. Il problema è complesso. Purtroppo, non c'è solo la follia green da domare. C'è il tema dei colli di bottiglia dei consumi dovuti alla ripresa dell'economia post Covid, ma c'è anche un tema più articolato che chiama in causa le Banche centrali. L'enorme massa di liquidità immessa sui mercati dalla Fed, la Banca centrale Usa, e dalla nostra Bce non è un atto senza conseguenza. Da un lato si genera deficit commerciale e dall'altro debito. Le Banche centrali non possono far esplodere la bolla, cosa che avverrebbe vendendo gli asset patrimoniali acquistati a partire dal 2009. Per questo l'inflazione indotta sulle materie prime è un ottimo sistema per sgonfiare i debiti pubblici ed evitare che la bolla scoppi tra le mani degli investitori. Certo, la pagheranno i più poveri e coloro che vivono con il reddito da lavoro. A tutte queste dinamiche complesse si somma la situazione peculiare dell'Italia. È un Paese indebitato, con scarsa produttività (e quindi gli stipendi faticano a stare al passo con l'inflazione) e con una industria manifatturiera ridotta all'osso (basti pensare all'Ilva ma anche al settore dell'automotive). Il Parlamento dovrebbe discutere dell'inflazione tutti i giorni. Altro che ius soli, ddl Zan o decreti anti delocalizzazioni. Questa è la sfida dei prossimi due anni. La sfida di questo governo. Noi lo denunciamo da mesi e continueremo a farlo.
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Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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