2021-07-06
Il bluff di Conte l’hanno capito tutti. Il partito sta solo nella sua fantasia
Giuseppe Conte (Simona Granati - Corbis/Getty Images)
Adesso anche i giornaloni cominciano ad accorgersi del bluff di Giuseppe Conte. Fino all'altro ieri attribuivano in coro all'ex avvocato del popolo una messe sconfinata di voti, con la quale il fu presidente del Consiglio avrebbe minacciato di svuotare il granaio di consensi dei 5 stelle nel caso avesse deciso di fare un partito. Tuttavia, più passano i giorni e più i potenziali sostenitori del nuovo movimento si riducono e con essi anche le possibilità di forzare la mano a Beppe Grillo.Sin dall'inizio, noi della Verità, con un briciolo di esperienza in materia di scissioni e rifondazioni, avevamo messo in dubbio lo storyballing di Rocco Casalino e compagni. Quand'anche a Conte fosse riuscito di convincere un gran numero di onorevoli a seguirlo nello strappo, poi si sarebbe presentato il problema di dare vita alla scialuppa che consentisse di imbarcare i transfughi e di farli riapprodare in Parlamento. E qui, bastava disporre di una calcolatrice per rendersi conto di quanto fosse difficile una simile operazione. L'aritmetica, infatti, non lascia scampo alle fantasie, perché se in caso di elezioni ai grillini viene attribuita una percentuale di consensi intorno al 15%, cioè meno della metà di quella conquistata nel marzo del 2018, dai 333 seggi conquistati tre anni fa si scende a una sessantina fra deputati e senatori. Già per effetto del dimezzamento dei voti si passerebbe da un terzo dei parlamentari a meno di un quinto, se poi si considera che con l'attuale sistema elettorale i pentastellati incassarono 156 posti per effetto della vittoria nei collegi uninominali, la percentuale scende ancora. Infine, c'è da considerare che, proprio grazie alla battaglia grillina per la riduzione degli eletti, i posti a sedere tra Camera e Senato si sono ridotti da 945 a 600. Dunque, con il 15% e poche possibilità di conquistare i collegi uninominali, è assai probabile che alcune centinaia di seguaci di Conte debbano cercarsi un lavoro.Ma qui si apre il problema dei problemi. In caso di voto, anticipato o meno, chi garantisce la ricandidatura? C'è da fidarsi più di Grillo o dell'ex avvocato del popolo trasformatosi in un istante in avvocato di sé stesso? Insomma, i dubbi cominciano a serpeggiare anche tra i fedelissimi, perché tra doppio mandato da superare (mandando dunque al macero anche l'ultima bandiera del movimento) e affollamento di candidati, il rischio di rimanere per strada, senza un posto sicuro in lista, si fa piuttosto alto. Tutto ciò senza considerare che uno strappo produce di solito uno sfilacciamento e dunque nessuno è in grado di assicurare che la scissione garantisca a Grillo una certa percentuale e a Conte un'altra. La somma del consenso dell'Elevato e quella del vice Elevato, alla fine potrebbe non fare 15%, ma anche ammesso che la cifra non si divida per due metà uguali e che il primo o il secondo portino a casa più voti dell'altro, che cosa cambierebbe? Nulla, sia il Movimento privato dell'apporto dell'ex premier che il nuovo partito dell'avvocato di sé stesso sarebbero ininfluenti o quasi nel prossimo Parlamento. Dunque, altro che tornare a Palazzo Chigi.Ma poi, oltre alla questione dei numeri, c'è quella dei soldi. Sin dal principio, parlando dell'ipotetica nuova sigla contiana, ci siamo chiesti chi avrebbe pagato il conto. Un partito costa, perché c'è da fare la campagna elettorale, saldare le fatture degli eventi, riempire il serbatoio dell'auto che ti porta a spasso per le piazze italiane, rifocillare autisti e attivisti dopo il comizio. Sì, ci vogliono denari, molti denari, come dimostrano i bilanci disastrati sia del Pd che di Forza Italia. Certo, l'autofinanziamento non basta, prova ne sia che i grillini non sono riusciti neppure ad autotassarsi per pagare le spese della piattaforma Rousseau. La verità è che il partito di Conte sta molto nella testa dello stesso Conte e dei suoi supporter, ma poco nella realtà, perché creare da zero un movimento è cosa che è riuscita a Silvio Berlusconi e anche a Beppe Grillo, due abituati a infiammare le piazze, ma è andata male a tutti gli altri che ci hanno provato. La strada che porta a Montecitorio è lastricata di fallimenti, da quello di Mario Monti a quello di Antonio Ingroia, passando per Italia unica di Corrado Passera e per Fare per fermare il declino di Oscar Giannino, senza dimenticare Possibile di Giuseppe Civati. Sì, tutti erano convinti di fare il pieno, ma una volta aperte le urne sono rimasti a mani vuote o quasi. Conte però, dicono alcuni, non guarda alle elezioni, ma a un orizzonte più vicino, cioè a come non rimanere tagliato fuori dalla nomina del futuro presidente della Repubblica. È possibile, ma capeggiare una scissione non è il miglior modo per sedersi al tavolo delle trattative, perché ci si arriva indeboliti, lasciando spazio al centrodestra, come ha detto con crudo realismo Matteo Renzi, uno che quando c'è da fare qualche operazione spregiudicata è sempre pronto. Dunque, più passano i giorni e più il bluff dell'ex presidente del Consiglio appare evidente. Quando Berlusconi e Gianfranco Fini si scontrarono, il leader di An replicò: «Che fai, mi cacci?». Oggi, a Conte, Grillo potrebbe dire: «Ma 'ndo vai?» e la frase rappresenterebbe l'epitaffio per un'ambizione smisurata.
Robert F.Kennedy Jr. durante l'udienza del 4 settembre al Senato degli Stati Uniti (Ansa)
Antonio Decaro con Elly Schlein a Bari (Ansa)