2019-12-13
«Bloccare la prescrizione non risolve nulla»
Nicola Gratteri, il magistrato antimafia: «Lo stop al decorso dei termini dopo il primo grado, di per sé, è poco. La giustizia italiana ha bisogno di interventi più profondi: revisione del codice e dell'obbligatorietà dell'azione penale, oltre alla chiusura dei tribunali inutili». Nicola Gratteri, classe 1958, sposato, due figli, calabrese di Gerace, borgo medievale nella Locride, è da sempre il magistrato più esposto nella lotta alla 'ndrangheta, prima alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, poi dal maggio 2016 come capo della Procura di Catanzaro. Ha indagato sulla strage di Duisburg (la carneficina del Ferragosto 2007, fuori da un ristorante in Germania: 70 colpi, sei vittime, tutte calabresi, ognuna finita con un colpo di grazia alla testa) e sulle rotte internazionali del narcotraffico. Da sempre nel mirino delle cosche, da 30 anni conduce una vita blindata. Non è solo un eccellente investigatore, è anche un cultore del diritto. Dal 2007 ha scritto 18 libri - a quattro mani con Antonio Nicaso -, l'ultimo è La rete degli invisibili: sul rapporto tra i vecchi capibastone, la Google generation 'ndranghetista, il deep Web, i social, le prime crepe nel muro dell'omertà, il ruolo in evoluzione delle donne, «disonorate e coraggiose», e perfino un capitolo sui gay, non più in toto accusati, e spesso uccisi, perché «cosa schifosa». Last but non least: Gratteri non è iscritto all'Anm, l'Associazionale nazionale magistrati, cioè il sindacato delle toghe.La 'ndrangheta ha cambiato pelle?«I nuovi 'ndranghetisti sono ancora più coinvolti di quelli vecchi in attività imprenditoriali. Devono diversificare per reinvestire i proventi del narcotraffico. In ristoranti, pizzerie, mercati generali, centri commerciali, da ultimo perfino farmacie. È mutato anche il loro status sociale, non provengono più dal ceto contadino o bracciantile. Anni fa a Novara il capolocale (il locale è il ramo dell'organizzazione che raduna più 'ndrine o famiglie della stessa zona) era un biologo, che era amministratore di tre società».Ovviamente gli utili li fanno fruttare al Nord.«Della Calabria e della sua povertà non gli importa. È dal 1975 che il fiume d'oro finisce da Roma in su, e da 20 anni la 'ndrangheta è in pianta stabile in Piemonte, Lombardia, parti dell'Emilia Romagna. Un vecchio boss sosteneva: “Il mondo si divide in due: quello che è Calabria. E quello che lo diventerà". Dal Nord al resto d'Europa il passo è stato breve. Il blitz disposto oggi (ieri per chi legge, ndr) dalla sua Procura e da quella di Reggio Calabria riguarda non solo le infiltrazioni delle cosche storiche calabresi in Umbria, ma perfino lo sbarco in Normandia. I boss intercettati fanno la classifica dei porti sicuri per il narcotraffico: «Le Havre in Francia va bene, lì siamo coperti. Amsterdam, Rotterdam, Amburgo, no: mo' so' pericolosi». «Gli 'ndranghetisti sono i veri europeisti. L'80% della cocaina che arriva in Europa è controllata dalla 'ndrangheta, che da 25 anni la vende a mafia e camorra. Così arriva a “fatturare" 50 miliardi d'euro l'anno. La 'ndrangheta ha ramificazioni e terminali dove l'economia gira, quindi in primis la Germania».Da cui l'espressione Sturm und 'ndrangheta, come dimostrò il massacro di Duisburg. La 'ndrangheta è più forte di Cosa nostra?«Sì, e anche più furba. Non ha dichiarato guerra allo Stato, ci è andata a braccetto. Con una differenza rispetto al passato: prima erano i boss a cercare i politici, ora è il contrario. E si ricordi: è a-ideologica. Fa accordi con chi vince, o con chi è candidato a vincere».È vero che lei ha consigliato il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, di non ricandidare in Calabria il governatore uscente Mario Oliviero?«Una provocazione, non la prima, non l'ultima. Poi a seconda delle convenienze dei provocatori, mi hanno iscritto al Pd, a Forza Italia, al M5s, alla Lega. Non faccio e non farò falli di reazione, questi signori devono solo rassegnarsi. Chi ci prova perde tempo. Ciascuno si preoccupi di essere coerente e onesto».I politici sotto inchiesta reagiscono in due modi: chi giura di avere fiducia nella magistratura, chi grida all'invasione di campo e alla giustizia ad orologeria.«La prima è una formula di stile diplomatica, la seconda è un tentativo di distrarre dal merito, anche perché non è che un'indagine sia messa in piedi in un mese, di solito viene avviata almeno un anno prima. Il che non significa che ci possano essere magistrati che per smania di protagonismo improvvisino iniziative avventate, che possono trasformarsi in boomerang se i presupposti non sono solidi».Sempre convinto che Silvio Berlusconi almeno una cosa buona sui magistrati l'abbia detta? Quando raccomandò di sottoporli ciclicamente a test psicoattitudinali?«Cicero pro domo sua...Ma non aveva tutti i torti (ride, ndr): in qualche caso, far fare il tagliando sarebbe consigliabile». L'appassiona il dibattito sui nuovi termini di prescrizione?«No, anche se ritengo che lo stop al decorso dei termini dopo la sentenza di primo grado sia giusto: perché impedisce che alle vittime non sia resa giustizia per intervenuta fine prematura del processo». Perché allora ha risposto «no»?«Perché ancora una volta non si prende il toro davvero per le corna, cioè la riforma della giustizia nel suo complesso. Intervenire “a valle" sulla ghigliottina dei tempi non risolve il problema “a monte", cioè una necessaria revisione (nel rispetto del dettato della nostra carta costituzionale, e quindi per assicurare un processo equo in tempi certi e ragionevoli, perché non possiamo nemmeno avere il «fine processo: mai") dei codici penale e di procedura penale». Mi faccia un esempio.«Be', se non si capisce perché dalla notizia di reato s'impiegano 5-6 anni per arrivare a sentenza, o perché il processo “muoia" dal momento che il fascicolo rimane “dimenticato" nell'armadio del pm o del giudice, non faremo alcun passo serio in avanti. Bisogna rendere non conveniente delinquere, e questo avviene se la macchina dell'organizzazione giudiziaria è efficiente».Lei aveva guidato una commissione, nel 2014, che aveva fornito delle indicazioni al legislatore.«Abbiamo lavorato in superficie, mettendo mano a quei 200 articoli che perfino chi non sa nulla di diritto avrebbe capito che era opportuno modificare, perché ti rendono complicato la mattina avviare il processo. Mi sono detto: inutile pensare di fare subito la rivoluzione, vediamo cosa viene recepito di queste prime proposte. Risultato? Il ministro Andrea Orlando, persona degnissima, ha fatto il copia e incolla solo per la novità del processo a distanza, in videoconferenza. Che in prima battuta ha comportato, evitando inutili trasferte degli imputati, risparmi acclarati di 70 di milioni di euro. Riforma contro cui, per la cronaca, le Camere penali, gli avvocati, hanno fatto cinque giorni di sciopero».Manca la volontà politica?«Anche. Perché il manovratore non vuole essere troppo “controllato". Ma soprattutto manca il buon senso. All'appello mancano 20.000 carabinieri, più segretari, più cancellieri, e invece il governo precedente ha introdotto quota 100, un incentivo all'esodo, così vanno in pensione ma non vengono rimpiazzati».I magistrati lamentano di essere pochi.«Per fortuna l'attuale ministro Alfonso Bonafede ha aumentato la pianta organica di 600 unità, quindi si potranno fare più concorsi, ma nell'attesa non si potrebbe ad esempio chiudere i tribunali che non servono? Perché in Sicilia, 5 milioni di abitanti, ci sono 4 corti d'appello, e in Lombardia, che ha il doppio della popolazione, due? E vogliamo parlare dei distacchi? Ci sono 250 magistrati destinati ad altri incarichi. Ma perché se il ministero degli esteri ha bisogno di una consulenza legale “arruola" un magistrato, e non invece, che so, un professore associato di diritto internazionale o comunitario?».La provoco: fin quando ci sarà l'obbligatorietà dell'azione penale, che Giovanni Falcone considerava un feticcio, avremmo sempre milioni di cause arretrate.«Falcone riteneva non a torto che bisognasse razionalizzare e coordinare l'attività del pm, finora reso praticamente irresponsabile da una visione meccanicistica dell'obbligatorietà dell'azione penale. Negli Stati Uniti, dove la giustizia è più rapida senza per questo essere meno attenta ai diritti della difesa, l'azione penale non è obbligatoria». È risentito nei confronti dell'ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, per averla depennata dalla lista dei ministri del governo di Matteo Renzi?«No, ma curioso sì: vorrei sapere se ha ascoltato i consigli, magari interessati, di qualcuno».Di Renzi si è sempre fidato?«Fu lui a cercarmi, ci incontrammo nell'ufficio nei pressi della Fontana di Trevi dell'allora ministro per gli Affari regionali nel governo Letta, Graziano Delrio. Parlammo per due ore, e lo vidi davvero convinto. Il giorno dopo mi disse che stava salendo al Colle, e io ero tra i 16 ministri, otto uomini e otto donne. Poi è andata come è andata».Chiudiamo con il tema del circo mediatico-giudiziario. Io ho visto troppo spesso cronisti spiaggiati sulle posizioni delle Procure. Lei il primo maggio 2018, a Reggio Calabria, ha preso di petto i vertici del sindacato dei giornalisti.«Ci sono stati troppi mostri sbattuti in prima pagina per un cattivo rapporto tra magistrati e giornalisti. Abbiamo bisogno che voi raccontiate il nostro lavoro, perché la criminalità si combatte anche informando con onestà l'opinione pubblica, in modo che si rafforzi una coscienza civile. Ma non dovete fare i piacioni, vantando rapporti privilegiati con questa o quella toga, e non dovete innamorarvi dei pubblici ministeri: il giornalismo che fa il copia e incolla delle ordinanze della magistratura, passando le ore nelle sue sale d'attesa, rende un pessimo servizio alle due professioni, e al Paese nel suo complesso».