2020-08-25
Blindata la visita in Italia di Wang Yi che suggella il «tradimento» sul 5G
Wang Yi e Luigi Di Maio (Ansa)
Durante l'incontro di oggi tra il ministro degli Esteri cinese e Luigi Di Maio non si potranno fare domande. Nessuno osa dire nulla su un asse che indigna gli Usa. Edward Luttwak: «Forse a voi piace il gusto della dittatura».Inutile far finta che le due cose non siano collegate. Da un lato, lo scoop della Verità dei giorni scorsi (non smentito, perché non smentibile dagli interessati) sul Dpcm del 7 agosto scorso con cui il governo ha di fatto aperto la strada all'uso di tecnologia Huawei sul 5G. Dall'altro, la visita di oggi a Roma di Wang Yi, il ministro degli Esteri cinese, a cui Luigi Di Maio si prepara a srotolare un lussuoso tappeto rosso. Le stesse modalità dell'incontro dei due ministri con la stampa, a Villa Madama, danno la misura della maggiore propensione della Farnesina ad accontentare l'ospite cinese che non a favorire una reale trasparenza sui dossier caldi, anzi roventi. Non è infatti prevista una «conferenza stampa» (cioè un evento lungo con un numero elevato di domande, per definizione a basso livello di controllabilità), ma solo un «punto stampa»: realisticamente i due ministri terranno un loro speech, e poi saranno consentite pochissime domande, prevedibilmente morbide, se non concordate. E così, addio possibilità di «grigliare» i conferenzieri sul 5G, sulle responsabilità del regime cinese sulla diffusione del Covid, sul rischio di scarrellamento geopolitico dell'Italia. Del resto, eccettuata La Verità e pochissime altre voci, per il cui conteggio le dita di una sola mano sono perfino sovrabbondanti, sia l'affaire 5G sia la visita di oggi del capo della diplomazia di Pechino sono state finora tenute mediaticamente bassissime: o silenzio o incredibile giustificazionismo, perfino in ambienti che amano definirsi filoatlantici e occidentali. La sensazione è che non tutti, in primo luogo nel governo, abbiano capito che il nostro Paese si gioca l'osso del collo con un'operazione di questo tipo, alla quale, per capirci, si è prontamente sottratta la Gran Bretagna di Boris Johnson, che nei mesi scorsi, dopo qualche incertezza iniziale, ha messo da parte soluzioni compromissorie e ha chiuso la porta ai cinesi rispetto al 5G. E invece in Italia, dopo le prime crepe sui porti, ci si sta offrendo come cavallo di Troia della penetrazione di Pechino pure nelle infrastrutture digitali.Una scelta che non è certo passata inosservata a Washington. Un analista sempre attento alle cose italiane come Edward Luttwak ha già sparato a palle incatenate, con tre tweet che consiglieremmo agli uomini del governo di conservare. Il primo: «Ottima idea di non tagliare i ponti. Ma quando tutti i Paesi decenti non invitano Wang Yi maggiordomo di Xi Jinping (suo ministero non conta nulla nelle decisioni), perché violare la solidarietà democratica? Rovina la reputazione di tutti gli italiani, risveglia brutte memorie». Parole pesanti come pietre. E, per chi non avesse ancora capito, ecco il secondo messaggio: «Non capivo perché Di Maio invita il collega cinese Wang Yi disinvitato altrove. Mea culpa: non sapevo che i sondaggi in Italia rilevano grande rispetto per la Cina. Idem in Germania. Non nei soliti paesini nordici e anglofoni ove manca il gusto per la dittatura». Dove la spingardata sarcastica è nel finale: questo governo, evidentemente, deve avere un certo «gusto per la dittatura». Il terzo messaggio è in inglese, ed eccone il succo: «Il ministro degli Esteri del Partito comunista cinese è persona non grata in una lista molto lunga di Paesi. Ma è in arrivo a Roma. Qual è il beneficio per l'Italia?».Se il clima è comprensibilmente così pesante nell'Anglosfera, non stupisce il fatto che nei giorni scorsi due ministri dem, Lorenzo Guerini ed Enzo Amendola, da quanto risulta a questo giornale, abbiano sottolineato le loro riserve, e abbiano anche sollecitato un Consiglio dei ministri che chiarisca definitivamente la questione. A questo punto, però, il tema investe tutti: massime istituzioni, governo, forze politiche, media, e anche opposizione. Dinanzi a una questione che non può essere affrontata solo in termini di clausole negoziali e dettagli tecnologici, ma rappresenta il principale spartiacque geopolitico e geostrategico nei prossimi anni, è bene che ciascuno si esprima ad alta voce. Ovvio che l'amministrazione guidata da Donald Trump, a maggior ragione in caso di rielezione, avrà ben chiaro l'elenco di chi si sarà schierato in un senso o nell'altro. Ma non ci si illuda, a sinistra, che un'eventuale vittoria di Joe Biden (toni e linguaggi a parte) possa sdrammatizzare il problema. Biden è stato accusato in passato di morbidezza con Pechino, e ora intende assumere una postura più assertiva. Così come non sfugge a nessuno che tra i media americani più duri con Pechino, in tutta la vicenda del coronavirus, si siano distinti la Cnn e il Washington Post, cioè una tv e un giornale ostili a Trump, eppure nettissimi nel condannare - nella migliore delle ipotesi - l'operazione di cover up orchestrata dal regime per mascherare le proprie responsabilità. Qualcuno informi Di Maio e Conte: non è davvero il caso di scherzare.