2023-11-01
Il possibile patto Biden-repubblicani sacrifica gli aiuti Usa all’Ucraina
Si parla tanto di uno scontro frontale tra il nuovo speaker di destra e il presidente. Ma dietro le quinte i due stanno lavorando a un’intesa per non dare più soldi a pioggia a Kiev, piagata dalla corruzione. I «paperoni» russi hanno presentato ricorso contro il sequestro dei loro beni in Europa. Adesso anche l’Italia potrebbe essere colpita dall’effetto boomerang delle sanzioni. Lo speciale contiene due articoli.Secondo una certa vulgata, il nuovo speaker della Camera statunitense, Mike Johnson, risulterebbe un estremista isolazionista, pronto a mettere i bastoni tra le ruote a Joe Biden soprattutto sulla questione del sostegno all’Ucraina. A prima vista, le cose sembrerebbero stare così. Lo speaker ha reso noto di voler disaccoppiare gli aiuti a Israele da quelli a Kiev: una posizione che, oltre a irritare il capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell, ha di fatto contraddetto il recente appello, avanzato da Biden, volto a tenere collegata l’assistenza militare israeliana a quella ucraina. Eppure Johnson e la Casa Bianca sull’Ucraina potrebbero essere più vicini di quanto sembra: un’ipotesi, questa, che potrebbe avere qualche fondamento. «Non possiamo permettere a Vladimir Putin di prevalere in Ucraina perché non credo che si fermerebbe lì», ha detto lo Speaker giovedì, per poi aggiungere: «Abbiamo però una responsabilità, una responsabilità di gestione del prezioso denaro del popolo americano». «Vogliamo responsabilità e obiettivi chiari da parte della Casa Bianca», ha proseguito. A ben vedere, si tratta di una tesi non poi così distante da quella del suo predecessore. L’ex Speaker, Kevin McCarthy, non aveva messo in discussione l’invio di armi a Kiev. Aveva però criticato la politica dell’«assegno in bianco», chiedendo inoltre che la Casa Bianca inserisse il sostegno militare all’Ucraina all’interno di una strategia chiara, oltreché caratterizzata da obiettivi misurabili. E attenzione: la razionalizzazione delle spese per Kiev non è una fissazione soltanto del Gop. Il 2 ottobre, Politico ha rivelato l’esistenza di un documento sensibile del governo americano, secondo cui «i funzionari dell’amministrazione Biden sono molto più preoccupati per la corruzione in Ucraina di quanto ammettano pubblicamente». La stessa testata riferì anche che la Casa Bianca starebbe considerando di subordinare gli aiuti non militari all’adozione di energiche riforme anticorruzione da parte di Kiev. «L’impegno dell’amministrazione Biden a sostenere l’esercito ucraino rimane immutato. Ma i funzionari hanno recentemente chiarito che altre forme di aiuto statunitense sono potenzialmente in pericolo, se l’Ucraina non fa di più per affrontare la corruzione», riportò la Cnn il 3 ottobre. Non va d’altronde trascurato che i conservatori americani sono da tempo critici verso l’assistenza di natura non militare che gli Usa hanno finora fornito all’Ucraina: quell’assistenza non militare che, secondo il Council on Foreign Relations, vale al momento il 39% del supporto statunitense complessivo (3,9 miliardi di dollari in aiuti umanitari e 26 miliardi in aiuti finanziari). Senza trascurare che Biden è in campagna elettorale per la riconferma e che, a inizio ottobre, un sondaggio Ipsos ha registrato un calo del sostegno dei cittadini americani verso l’invio di armamenti all’Ucraina. Ebbene, quando a fine settembre McCarthy raggiunse un accordo parlamentare con i dem per evitare lo shutdown, Biden si lasciò scappare di aver stretto con lui un’altra intesa dietro le quinte sull’Ucraina. Nonostante l’assenza di ulteriori informazioni, quelle parole furono citate dal deputato repubblicano Matt Gaetz tra i pretesti per avviare la mozione di destituzione, che avrebbe poi portato al siluramento di McCarthy il 3 ottobre. Va da sé che, se esisteva un accordo sull’Ucraina tra l’allora Speaker e Biden, un possibile punto di caduta avrebbe potuto essere proprio quello di un taglio agli aiuti civili e di una razionalizzazione di quelli militari. Una serie di elementi che rispecchiano la posizione espressa giovedì da Johnson.Non è quindi escludibile che sia sotterraneamente in corso un complicato minuetto politico. Biden ha probabilmente intenzione di razionalizzare gli aiuti a Kiev ma vuole dare a intendere di farlo obtorto collo e a causa delle negoziazioni con la Camera repubblicana. Johnson, dal canto suo, deve tenere insieme due esigenze contrastanti: schivare le accuse di isolazionismo e tenere a bada eventuali fronde alla sua destra (anche perché il Gop gode di una maggioranza risicata alla Camera). È forse anche per questo che lo Speaker ha dato il suo endorsement all’indagine per impeachment, avviata a settembre dal predecessore, ai danni del presidente. Probabilmente sempre in quest’ottica va letta la sua richiesta di spacchettamento degli aiuti israeliani da quelli ucraini e l’idea di finanziare i primi attraverso un taglio ai fondi stanziati per l’Agenzia delle entrate americana (una proposta, quest’ultima, che è stata duramente criticata dalla Casa Bianca). Sull’Ucraina, Biden deve salvaguardare la propria credibilità internazionale e tenere al contempo conto degli umori elettorali. Johnson, dal canto suo, punta a ridurre l’onere per i contribuenti americani e a chiedere una strategia più chiara alla Casa Bianca. In tal senso, entrambi sembrano propensi, sul dossier ucraino, a tagliare gli aiuti civili e a razionalizzare quelli militari, senza però arrivare a bloccare questi ultimi. La ragione è presto detta. Sul tavolo non c’è solo il duello geopolitico con l’asse sino-russo, ma anche la necessità di tutelare l’industria americana della Difesa. Venerdì, Reuters ha riportato che i principali appaltatori del Pentagono, tra cui Lockheed Martin e General Dynamics, hanno visto aumentare considerevolmente le proprie entrate grazie all’invio di armi in Ucraina. Del resto, proprio l’industria della Difesa, al di là di stantii tic veteromarxisti, è considerata parte essenziale della sicurezza nazionale statunitense. Non a caso, la sua tutela gode da sempre di un consenso bipartisan a Washington: un altro aspetto su cui potrebbe basarsi l’eventuale convergenza tra Biden e Johnson.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/biden-repubblicani-sacrifica-aiuti-allucraina-2666113150.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gli-oligarchi-fanno-causa-alla-ue" data-post-id="2666113150" data-published-at="1698834767" data-use-pagination="False"> Gli oligarchi fanno causa alla Ue Avrebbero dovuto mettere in difficoltà gli oligarchi russi colpendo al cuore le finanze dei sostenitori di Vladimir Putin, invece si stanno rivelando un boomerang. Il congelamento dei beni tenuti in Europa dal gotha russo, infatti, si è tramutato in un flop. Non solo gli oligarchi non hanno esercitato alcuna pressione sul Cremlino, come invece si aspettava la Ue, ma hanno concentrato tutti i loro sforzi nelle battaglie legali per sottrarsi alle sanzioni. E al momento con esiti positivi. La madre del defunto fondatore della compagnia Wagner, Evghenij, la ultra ottantenne Violetta Prigozhina, ha fatto ricorso presso la Corte di giustizia Ue contro le sanzioni e ha vinto con la motivazione che la relazione parentale non può giustificare le restrizioni. Una situazione simile a quella di Nikita Mazepin, pilota di Formula 1, anche lui nel mirino perché figlio di un imprenditore chimico a sua volta sotto sanzioni. La Corte gli ha dato ragione ed è stato riammesso alle gare. Un altro caso, riportato dal Sole24Ore, è quello di Alisher Usmanov, uno dei maggiori imprenditori russi con attività nella metallurgia e nelle telecomunicazioni. Le autorità tedesche gli hanno sequestrato il mega yacht Dilbar ad Amburgo e il miliardario ha fatto ricorso alla Corte costituzionale di Karlsruhe. Intanto un tribunale di Francoforte ha stabilito l’illegittimità delle perquisizioni di beni a lui attribuiti in Germania. Sono esempi di come il meccanismo delle sanzioni fa acqua e presto sui 1.800 nomi (1.600 persone fisiche e 200 entità), inseriti nella lista della Ue e colpiti in vario modo dalle restrizioni, si potrebbero aprire altrettante cause. Aleksandr Shulgin, ex amministratore delegato di Ozon, imprenditore dell’e-commerce nazionale, accusato di essere un grande contribuente delle finanze russe, quindi sostenitore della guerra, ha fatto ricorso alla Corte di giustizia ed è riuscito a farsi cancellare dalla blacklist dei sanzionati. In Italia la mappa dei tesori congelati ai «paperoni russi» è ampia. Secondo una ricostruzione effettuata dal Consorzio europeo di giornalismo con Domani, sono stati sequestrati otto tra yacht e imbarcazioni varie, cinque aerei, otto aziende, una scultura e un centinaio di immobili, tra cui 38 ville. Senza considerare oltre 100.000 metri quadrati di terreni, qualche decina di auto di lusso, alcuni macchinari industriali e centinaia di migliaia di euro depositati su conti correnti. Valore: oltre 2 miliardi di euro. Complessivamente sono il 10% dei beni russi confiscati in Europa. Nella mappa compaiono una proprietà a Cagliari (valore 1,2 milioni di euro) intestata a Musa Bazhaev, imprenditore minerario; un complesso immobiliare (1,6 milioni) a Savona, riconducibile al parlamentare Rifat Shaykhutdinov; una villa (520.000 euro) a Formia di Svetlana Balanova, capo del maggiore gruppo editoriale russo, National Media Group. Poi immobili (valore di 3,6 milioni) in Costa Smeralda e il 50% della Aurora 31 Srl, società proprietaria dell’omonimo albergo a Roma, vicino via Veneto, tutti riconducibili allo storico amico di Putin, Boris Rotenberg, azionista della Gazprom Drilling, ma intestate alla società cipriota Logotax Developments Limited. I beni più preziosi in lista sono due yacht, SY A e Scheherazade, del valore, insieme, di oltre un miliardo di euro. La lista delle imbarcazioni di lusso è lunga: c’è il Lena, 50 milioni di euro, il Lady M, 65 milioni, il D2, quasi 3 milioni di euro. Poi mega ville sui laghi lombardi, nella riviera ligure e in Sardegna. Su questi beni potrebbero scattare cause legali facili da vincere, anche perché in molti casi la proprietà non è diretta ma si nasconde dietro una o più società straniere, spesso in Paesi che tutelano la segretezza societaria. E mentre entrano in gioco gli avvocati, lo Stato paga. Secondo una valutazione di Bloomberg, la manutenzione degli yacht confiscati costa 40 milioni di dollari all’anno.