Intesa, Unicredit, Bpm e Bper sono avanti ai principali istituti europei nel tasso di copertura sui crediti difficili e per capacità di rispondere a una crisi improvvisa. Siamo solidi e di questo Bruxelles dovrà tener conto nel tavolo sulla vigilanza unica.
Intesa, Unicredit, Bpm e Bper sono avanti ai principali istituti europei nel tasso di copertura sui crediti difficili e per capacità di rispondere a una crisi improvvisa. Siamo solidi e di questo Bruxelles dovrà tener conto nel tavolo sulla vigilanza unica.Nelle ore in cui Axel Lehmann, il presidente di Credit Suisse, è costretto a chiedere scusa agli investitori per il crollo della banca svizzera, salvata in fretta e furia con un’operazione finanziaria border line (chiedere agli obbligazionisti rasati a zero a differenza degli azionisti) da Ubs, possiamo dire che gli istituti italiani hanno gioco facile a vantarsi. Guardano i propri bilanci, espongono i propri indici di liquidità e i coefficienti che indicano la solidità del credito e gonfiano il petto. Di sicuro nella vita c’è poco o nulla, anche perché nella finanza l’effetto sfiducia e i fattori esogeni possono ribaltare qualsiasi previsione, ma di certo ipotizzare oggi il fallimento di un istituto italiano viene difficile. Ci sono tanti dati che posso essere evidenziati, ma secondo le elaborazioni della Verità due sono gli indicatori che esprimono al meglio lo stato di salute delle nostre banche, soprattutto se messe a paragone con alcuni dei più importanti operatori stranieri. Un raffronto, per certi versi, impietoso. Una volta tanto per gli stranieri. Il primo è la liquidità a breve termine, il liquidity coverage ratio. Fondamentale perché indica il livello adeguato di attività liquide di elevata qualità (Hqla) non vincolate che possono essere facilmente e immediatamente convertite in contanti per soddisfare il fabbisogno delle banche nell’arco di 30 giorni in uno scenario di stress. Detta in soldoni: quanti attivi del gruppo sono in contanti o possono essere subito trasformati in cash per rispondere ai deflussi a un mese in caso di crisi. Fondamentale, anche perché si tratta di una delle riforme elaborate dal Comitato di Basilea1 per promuovere un sistema del credito più robusto dopo il crac della Lehman Brothers del 2008. Riforme che evidentemente, guardando le tabelle che pubblichiamo, hanno sortito effetti soprattutto in Italia. Il 100% (attività subito liquidabili pari a i deflussi in caso di crisi) è il livello minimo. Rispetto al quale, a fine 2022 (come si vede nella tabella), Bper, Banco Bpm e Intesa fanno quasi due volte tanto, rispettivamente a quota 195%, 191 e 182%, e Unicredit che è leggermente sotto, al 161%, fa decisamente meglio di alcune tra le big del credito d’oltreconfine. Poco più giù c’è la spagnola Bbva, al 159%, mentre decisamente più in basso troviamo i tedeschi di Deutsche Bank (141%), gli olandesi di Ing (134%) e i francesi di Bnp Paribas (132%). Cosa vuol dire? «La grande differenza tra banche italiana e straniere è data dalla qualità degli attivi, un elemento che questi numeri - evidenzia l’analista indipendente Sergio Pigoli - sottolineano solo parzialmente. Una parte significativa degli impieghi fa riferimento a una clientela ben conosciuta, che assicura adeguate garanzie, e gli investimenti in titoli di Stato restano una parte importante degli attivi. In Italia è più o meno sempre andata così e c’è da dire che dopo il crac Lehman abbiamo fatto i compiti a casa meglio degli altri. All’estero magari ci criticano perché abbiamo una scarsa propensione al rischio o alla fantasia finanziaria e queste sono le conseguenze positive della particolare attenzione che i nostri istituti ripongono nel valutare la solvibilità della clientela». In generale, in Italia il tasso di copertura degli Npl (i crediti deteriorati) è del 51,2% contro il 31% della Germania, l’11% della Grecia, il 26,5% dei Paesi Bassi e il 6% del Portogallo. Certo, c’è chi fa meglio, vedi Francia e Spagna, ma la maggior parte dei Paesi Ue è messa peggio. E sempre restando al confronto tra le singole banche, non si può non vedere che il coefficiente patrimoniale (Cet1) di Unicredit è al top in Europa (17%), decisamente meglio di Banco Bilbao vizcaya argentaria (15%), Bnp Paribas (12%), Deutsche Bank (13%) e Ing (13%). Sono tutti istituti (come Intesa che è al 14%, Banco Bpm al 14% e Bper al 13%) che superano abbondantemente le soglie previste dalla Bce, ma il fatto che le nostre principali banche, che da sole rappresentano gran parte del credito erogato e degli sportelli presenti nella Penisola, primeggino in Europa la dice lunga sullo stato di salute del credito di casa nostra. Il Cet1 è considerato infatti il principale indice di solidità perché indica il rapporto tra il capitale ordinario versato (Tier 1) con le attività ponderate per il rischio.In buona sostanza ci dice con quali risorse l’istituto oggetto di valutazione riesce a garantire i prestiti concessi ai clienti ed i rischi rappresentati dai crediti deteriorati (Npl appunto). Siamo più solidi e a Bruxelles dovranno tenerne conto sul tavolo dell’Unione bancaria. «La storia economica italiana è piena di crac sia industriali, da Cirio a Parmalat, che bancari, si pensi ad Etruria e alle venete e per certi versi anche ad Mps, ma il sistema è sempre riuscito a gestirli anche a costo di andare a gravare sul debito pubblico», continua Pigoli. Insomma, comunque la si pensi, il sistema Paese alla fine tiene tutto dentro e anche a costo di mettere in moto processi poco ortodossi evita che il crac infetti il resto dell’economia del Paese. Anche perché dalle crisi qualche insegnamento si apprende e anche perché a nessuna banca italiana sarebbe stato concesso di tenere in pancia 16 miliardi di bond additional tier 1 (At1), le obbligazioni che quando il coefficiente patrimoniale Cet1 della banca emittente scende al di sotto di una certa soglia vengono convertite in azioni, e poi di azzerarle senza che lo stesso trattamento fosse riservato anche ai titoli azionari come successo nel caso di Credit Suisse.
Diego Moretti (Ansa)
I dem che hanno sempre criticato l’ex sindaco Anna Maria Cisint firmano una mozione sul lavoro nei cantieri navali. Ora vogliono superare il modello di immigrazione a basso costo.
«Nella sua campagna permanente contro gli stranieri che a Monfalcone regolarmente lavorano, la Cisint aggiunge un nuovo tema: ora mette in discussione anche le rimesse economiche, annunciando misure per vietarle o limitarle. Una delle tante dichiarazioni che si aggiungono a quelle del passato, sicuramente buone per costruire narrazioni false e per alimentare odio nei confronti dello straniero».
Elly Schlein (Ansa)
La leader Pd dice che la manovra «favorisce solo i ricchi», come se avere un reddito da 50.000 euro lordi l’anno fosse da nababbi. In realtà sono fra i pochi che pagano tasse dato che un contribuente su due versa zero Irpef. Maurizio Landini & C. insistono con la patrimoniale. Giorgia Meloni: «Con me mai». Pure Giuseppe Conte non ci sta.
Di 50.000 euro lordi l’anno quanti ne finiscono in tasca a un italiano al netto di tasse e contributi? Per rispondere è necessario sapere se il contribuente ha moglie e figli a carico, in quale regione viva (per calcolare l’addizionale Irpef), se sia un dipendente o un lavoratore autonomo. Insomma, ci sono molte variabili da tener presente. Ma per fare un calcolo indicativo, computando i contributi Inps al 9,9 per cento, l’imposta sui redditi delle persone fisiche secondo i vari scaglioni di reddito (al 23 per cento fino a 28.000 euro, al 35 per la restante parte di retribuzione), possiamo stimare un netto di circa 35.000 euro, che spalmato su tre dici mensilità dà un risultato di circa 2.600 euro e forse anche meno. Rice vendo un assegno appena superiore ai 2.500 euro al mese si può essere iscritti d’ufficio alla categoria dei ricchi? Secondo Elly Schlein e compagni sì.
Elly Schlein e Vincenzo De Luca (Ansa)
Dopo aver sfidato lo «sceriffo di Salerno» il segretario dem si rimangia tutto. E per Roberto Fico conta sui voti portati dal governatore, che impone ricompense per il figlio. Sulla partita veneta, Ignazio La Russa apre a Luca Zaia nel governo.
«Vinciamo»: il coordinatore regionale di Forza Italia in Campania, Fulvio Martusciello, capodelegazione azzurro al Parlamento europeo, lo dice alla Verità e sembra convinto. L’ennesima manifestazione elettorale di Fi al centro di Napoli è un successo clamoroso: centinaia di persone, il ritratto di Silvio Berlusconi troneggia nella sala. Allora crede ai sondaggi più ottimisti? «No», aggiunge Martusciello, «credo a quello che vedo. Siamo riusciti a entrare in tutte le case, abbiamo inventato il coordinatore di citofono, che si occupa di curare non più di due condomini. Parcellizzando la campagna, riusciremo a mandare a casa una sinistra mai così disastrata». Alla remuntada in Campania credono tutti: da Giorgia Meloni in giù. Il candidato presidente del centrodestra, Edmondo Cirielli, sente aria di sorpasso e spinge sull’acceleratore.
Matteo Zuppi (Ansa)
Il cardinale Matteo Zuppi, in tv, svela la fonte d’ispirazione della sua dottrina sociale sui migranti: gli «industriali dell’Emilia-Romagna». Ai quali fa comodo la manodopera a buon mercato, che riduce le paghe medie. Così poi la sinistra può invocare il salario minimo...
Parafrasando Indro Montanelli, viene da pensare che la Chiesa ami talmente i poveri da volerne di più. Il Papa ha appena dedicato loro un’esortazione apostolica, ma le indicazioni di politica economica ai cattolici non arrivano da Leone XIV, bensì dai capitalisti. E vengono prontamente recepite dai vescovi. Bastava ascoltare, venerdì sera, il presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Zuppi, intervistato a Propaganda live: l’immigrazione, ha insistito il cardinale su La 7, «è necessaria. Se si parla con qualsiasi industriale in Emilia-Romagna dice che non c’è futuro senza».






