2021-01-30
L’azienda che ci ha venduto mascherine per 509 milioni è sospettata di riciclaggio
La cinese Wenzhou light è stata segnalata per aver ricevuto, tra il 2011 ed il 2014, 5 milioni provenienti dall'Italia. E Jorge Solis rivela: «Luokai nata per una questione fiscale».Nella maxi commessa di mascherine cinesi da 801 milioni di pezzi destinate alla struttura commissariale per l'emergenza Covid spuntano anche segnalazioni per sospetto riciclaggio. La Wenzhou light industrial, la società fornitrice di mascherine per 590 milioni di euro risulta censita dall'Unità di informazione finanziaria per l'Italia, la struttura di Bankitalia che si occupa della prevenzione di riciclaggio e finanziamento del terrorismo. A rivelarlo è un'annotazione di Polizia giudiziaria redatta dagli uomini del Nucleo speciale polizia valutaria della Guardia di finanza, agli atti dell'inchiesta sulla fornitura da 1,2 miliardi di euro su cui sta indagando la Procura di Roma. Nel documento indirizzato proprio ai magistrati di piazzale Clodio gli investigatori scrivono che «Wenzhou light industrial è censita negli archivi UIF, per aver ricevuto tra il 2011 ed il 2014 numerose rimesse in contante dall'Italia, per complessivi € 5 mln e dall'importo unitario molto vicino ai limiti pro tempore vigenti. Le rimesse sono state effettuate da persone fisiche senza apparenti collegamenti tra loro. La società risulterebbe inoltre beneficiaria di bonifici disposti da società italiane, segnalate in contesti astrattamente riconducibili alle frodi fiscali». Dunque, per l'Uif l'azienda cinese fornitrice di 310 milioni di dispositivi di protezione ordinati e pagati dallo Stato italiano è una potenziale lavanderia di denaro di incerta provenienza. Trait d'union tra la ditta cinese e i mediatori italiani sono l'ecuadoriano Jorge Solis e Zhongkai Cai, cinese residente a Roma, legato a numerose società nel nostro paese di cui una, la Kailly Srl (controllata al 70 percento dalla sorella Lili Cai e al 30 dalla moglie Lu Zhou Xiao) il 28 ottobre scorso è stata segnalata per un bonifico inviato proprio alla Wenzhou. Per questa operazione il nominativo di Cai, che è amministratore unico della Kailly (2.000 euro di capitale, attiva nel settore del commercio all'ingrosso di abbigliamento, il bilancio 2019 risulta chiuso con una perdita di 36.912 euro), è finito in un'altra informativa agli atti dell'inchiesta, in quanto «emerso in nel corso di approfondimenti finalizzati alla prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio». In particolare «(…) l'Uif di Banca d'Italia ha comunicato una movimentazione sospetta registrata su un rapporto di conto corrente intestato a una società italiana, la citata Kailly Srl, amministrata dal predetto Cai Zhongkai, evidenziano un bonifico a favore della nota società cinese Wenzhou light industrial products, per euro 66.648 (…)». Lu Zhou Xiao non è soltanto azionista della piccola società con sede all'Esquilino amministrata dal marito, ma anche e soprattutto la general manager della Luokai trade, nata appena 5 giorni prima della sottoscrizione della commessa di mascherine con la struttura commissariale, che ha fruttato alla società cinese 634 milioni di euro. A dimostrarlo è la sua firma in calce a una lettera della Luokai trade, indirizzata direttamente al commissario per l'emergenza Covid Domenico Arcuri. Con la missiva la donna comunica anche le coordinate bancarie del conto corrente cinese ove accreditare le somme della commessa. A spiegare perché è nata la Luokai è stato proprio Solis, davanti alle telecamere della trasmissione di Massimo Giletti Non è l'Arena. Per Solis la Wenzhou light sarebbe la holding del gruppo con cui collabora: «Io lavoro per la Cina. Abbiamo creato una holding, la Wenzhou light… la Luokai è una figlia della mamma che è la Wenzhou che paga a tutti noi la provvigione». L'intervistatrice gli fa notare che la figlia è stata creata in fretta e furia cinque giorni prima della firma del contratto sottoscritto il 12 aprile. Solis risponde in modo spiazzante: «La Luokai (…) fu creata per una questione fiscale, come succede in Italia, perché con una società piccola non puoi fatturare tanto. È normale (…) perché avevamo un appalto grande». Dunque, secondo il tramite tra Cai e gli intermediari italiani, il giornalista rai in aspettativa Mario Benotti, il titolare della Sunsky Srl Andrea Vincenzo Tommasi, e il banchiere sammarinese Daniele Guidi, ufficialmente indagati per traffico di influenze, la Luokai avrebbe affiancato l'attenzionata Wenzhou light «per una questione fiscale». Ed è ancora Solis a spiegare che le società contrattualizzate dalla struttura commissariale per una fornitura da 801 milioni di pezzi costata complessivamente 1,25 miliardi di euro sono in realtà un tutt'uno riconducibile ad un solo individuo: «Io lavoro per la Cina, io lavoro per il signor Ho, per la Wenzhou light, come si chiama la società. Il signor Ho è il direttore generale di tutte le società. A me, a tutti noi ci ha pagato la Wenzhou light». Secondo alcune mail scritte da Solis a Cai agli atti dell'inchiesta, le provvigioni intascate dai mediatori non sarebbero di 72 milioni come emerso finora dalle indagini, ma almeno 203, ai quali, sempre secondo il carteggio, andrebbero aggiunte le provvigioni, «ancora da definire», concordate da Cai con Wenzhou. Con una specifica finale: «Tutto il totale de provvigione tra Marco e Giorgio (i nomi con cui sono conosciuti in Italia Cai e Solis, ndr) è diviso in noi due». Avremmo voluto chiedere a Cai conferma di queste provvigioni, ma, ieri mattina, l'appartamento del popoloso e periferico quartiere romano dove lui e la moglie risiedono, era vuoto. L'abitazione è di proprietà di un altro cinese che sembra aver lavorato per Cai nel lontano 1998, Jianbo Liu, domiciliato a Martinsicuro, in provincia di Teramo, dove risulta possedere un altro immobile. Tra il 2010 e il 2017 Liu avrebbe percepito solo redditi da rendita immobiliare e risulta titolare del 15% delle quote di una società milanese fondata nel 2017, attiva nel settore del cash and carry. Nel suo appartamento del Quadraro nessuno ha più messo piede dai primi di dicembre.
C’è anche un pezzo d’Italia — e precisamente di Quarrata, nel cuore della Toscana — dietro la storica firma dell’accordo di pace per Gaza, siglato a Sharm el-Sheikh alla presenza del presidente statunitense Donald Trump, del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, del turco Recep Tayyip Erdogan e dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani. I leader mondiali, riuniti per «un’alba storica di un nuovo Medio Oriente», come l’ha definita lo stesso Trump, hanno sottoscritto l’intesa in un luogo simbolo della diplomazia internazionale: il Conference Center di Sharm, allestito interamente da Formitalia, eccellenza del Made in Italy guidata da Gianni e Lorenzo David Overi, oggi affiancati dal figlio Duccio.
L’azienda, riconosciuta da anni come uno dei marchi più prestigiosi dell’arredo italiano di alta gamma, è fornitrice ufficiale della struttura dal 2018, quando ha realizzato anche l’intero allestimento per la COP27. Oggi, gli arredi realizzati nei laboratori toscani e inviati da oltre cento container hanno fatto da cornice alla firma che ha segnato la fine di due anni di guerra e di sofferenza nella Striscia di Gaza.
«Tutto quello che si vede in quelle immagini – scrivanie, poltrone, arredi, pelle – è stato progettato e realizzato da noi», racconta Lorenzo David Overi, con l’orgoglio di chi ha portato la manifattura italiana in una delle sedi più blindate e tecnologiche del Medio Oriente. «È stato un lavoro enorme, durato oltre un anno. Abbiamo curato ogni dettaglio, dai materiali alle proporzioni delle sedute, persino pensando alle diverse stature dei leader presenti. Un lavoro sartoriale in tutto e per tutto».
Gli arredi sono partiti dalla sede di Quarrata e dai magazzini di Milano, dove il gruppo ha recentemente inaugurato un nuovo showroom di fronte a Rho Fiera. «La committenza è governativa, diretta. Aver fornito il centro che ha ospitato la COP27 e oggi anche il vertice di pace è motivo di grande orgoglio», spiega ancora Overi, «È come essere stati, nel nostro piccolo, parte di un momento storico. Quelle scrivanie e quelle poltrone hanno visto seduti i protagonisti di un accordo che il mondo attendeva da anni».
Dietro ogni linea, ogni cucitura e ogni finitura lucidata a mano, si riconosce la firma del design italiano, capace di unire eleganza, funzionalità e rappresentanza. Non solo estetica, ma identità culturale trasformata in linguaggio universale. «Il marchio Formitalia era visibile in molte sale e ripreso dalle telecamere internazionali. È stata una vetrina straordinaria», aggiunge Overi, «e anche un riconoscimento al valore del nostro lavoro, fatto di precisione e passione».
Il Conference Center di Sharm el-Sheikh, un complesso da oltre 10.000 metri quadrati, è oggi un punto di riferimento per la diplomazia mondiale. Qui, tra le luci calde del deserto e l’azzurro del Mar Rosso, l’Italia del saper fare ha dato forma e materia a un simbolo di pace.
E se il mondo ha applaudito alla firma dell’accordo, in Toscana qualcuno ha sorriso con un orgoglio diverso, consapevole che, anche questa volta, il design italiano era seduto al tavolo della storia.
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Silvia Salis (Imagoeconomica)