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2018-04-27
Avvoltoi global su Alfie in nome dello ius soli
ANSA
Il caso Alfie ha scoperchiato il disordine morale dell'ideologia globalista. Chi predica il verbo dell'accoglienza, che poi equivale alla deportazione dei popoli e al depauperamento del continente africano, non si scompone se al piccolo Evans, cittadino italiano, le corti britanniche hanno vietato l'espatrio come a un criminale. I cantori dell'immigrazione selvaggia, per i quali la soppressione di Alfie è diventata una questione di principio, si stanno servendo dell'ondata di indignazione che ha sollevato la tragedia del neonato per confezionare un vergognoso spot in favore dello ius soli.
È il caso di Francesco Rocca, presidente della Croce rossa, che commentando la proposta di Angelino Alfano e Marco Minniti di concedere la cittadinanza italiana ad Alfie, ha partorito una grottesca tirata sulle sofferenze dei bambini nel mondo: «Se la vita è correttamente un diritto», ha argomentato Rocca, «dobbiamo ricordarci anche che le vite sono tutte uguali. E allora ci piacerebbe vedere tutti quelli che hanno seguito questi casi di attualità o quelli che hanno incensato il governo per la decisione sulla cittadinanza, fare lo stesso per ogni bambino che vediamo morire o soffrire atrocemente. Invece, molte volte, gli stessi tanto interessati ai temi della cosiddetta bioetica sono quelli che poi voltano le spalle a chi muore in mare, a chi viene bombardato in Yemen on in Siria, a chi viene torturato in Libia, a chi viene trucidato in una delle tante guerre dimenticate nel continente africano». Un ragionamento, a volerlo definire tale, completamente sgangherato. Classico sintomo della patologia dell'universalismo etico, che vorrebbe abbracciare il mondo in un unico afflato, ma ignora l'uomo agonizzante che incontra lungo il cammino.
La tesi strampalata, in sostanza, sembra essere che se non salviamo tutti, soccorrere uno è illegittimo. Tanto più poiché quell'uno patisce le pene, per usare una perifrasi mutuata dall'eugenetica nazista, di una «vita indegna di essere vissuta». È la teoria di Zita Dazzi, giornalista del quotidiano La Repubblica, cui l'intervento dei nostri ministri di Esteri e Interni non è andato proprio giù: «Non converrebbe dare la cittadinanza», ha twittato, «invece che al piccolo Alfie che è praticamente morto, alle migliaia di bambini africani vivi che rischiano di morire mentre attraversano il canale di Sicilia?». Lasciate che i morti stacchino il respiratore ai loro morti. Noi dobbiamo preoccuparci di alimentare il traffico di esseri umani, promuovendo le migrazioni che strappano dalla loro terra intere comunità, assicurano ai mercati globali l'esercito industriale di riserva e provocano conseguenze culturalmente e socialmente devastanti nei Paesi di arrivo. I progressisti amano tanto i bimbi africani, da accanirsi su Alfie, che ha la colpa di aver attirato la nostra compassione.
Era stato proprio il giornale diretto da Mario Calabresi a lanciare l'invereconda strumentalizzazione del piccolo Evans. Michela Marzano, in un articolo che ha scatenato lo sdegno di molti lettori, aveva invocato «l'attribuzione della nazionalità italiana anche a tutti quei ragazzi e quelle ragazze nati in Italia e che, ancora oggi, sono considerati stranieri». Alfie trasformato in uno slogan che manderebbe in visibilio Cécile Kyenge.
Un neonato sofferente, i cui genitori chiedono soltanto il diritto di tentare un'ultima cura ed eventualmente di accompagnarlo con amorevolezza alla sua fine naturale, trattato come un rifiuto che, prima di essere eliminato, merita di diventare bersaglio del livore dei fan dello ius soli. Si può andare a morire nelle cliniche in Svizzera, ma non al Bambino Gesù.
C'è pure chi fa dell'ironia, come Alessandro Capriccioli, consigliere regionale eletto nel Lazio per la lista della rinomata abortista Emma Bonino. Su Facebook, il segretario dei Radicali romani si fa beffe del bimbo che versa «in stato neurovegetativo», chiedendo, se non «la concessione della cittadinanza, molto più modestamente il rilascio di un permesso di soggiorno» ai migranti.
I caritatevoli paladini dell'umanitarismo non reggevano il pensiero che l'Italia offrisse aiuto ad Alfie, ma non si sobbarcasse l'onere di risolvere tutti i mali del pianeta. Tra l'altro, questi predicatori ricolmi di nobili sentimenti dovrebbero spiegarci quante persone il nostro Paese avrebbe lasciato annegare nel Mediterraneo: da sette anni gli italiani sono impegnati in operazioni di pattugliamento e soccorso e, nel nome della solidarietà, hanno lasciato che il canale di Sicilia diventasse zona franca per i traffici delle Ong.
I mondialisti amano l'umanità in astratto, ma sono incapaci di amare l'uomo in concreto. Lo aveva capito Gilbert Keith Chesterton, il quale, notando che umanisti e umanitaristi si professavano atei, qualificò il loro operato con amara ironia: «Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell'umanità, finiscono per combattere la libertà e l'umanità pur di combattere la Chiesa».
Alessandro Rico
Papà Tom scatenato «Siamo degli ostaggi, l’ospedale ci odia Francesco venga qui»
Da quando il sogno di trasferire Alfie all'ospedale Bambino Gesù per essere curato si è spezzato, per colpa di un'altra sentenza negativa da parte dei giudici, l'unico desiderio dei suoi genitori è sempre stato quello di portarlo a casa. «Ci hanno vietato di andare in Italia sfortunatamente», ha detto papà Tom ieri mattina presto, di fronte ai microfoni dei giornalisti riuniti davanti all'Alder Hey Hospital di Liverpool.
«Potremmo spostarlo a Roma più avanti, ma sarebbe la cosa giusta da fare o finiremmo al centro delle critiche? Quello che chiediamo è solo di incontrare i medici e trasferire il piccolo a casa». Secondo il racconto del padre, ormai Alfie non ha più bisogno di cure intensive. Sta nel suo letto, con un litro di ossigeno che va nel suoi polmoni da una fonte esterna e per il resto se la cava. «Qualcuno dice che si tratta di un miracolo, altri lo negano. Per me non è un miracolo, è una diagnosi errata. Ormai sono giorni che è senza la ventilazione automatica e non ci sono stati peggioramenti. Non si è svegliato, è ancora debole. Vogliamo portarlo a casa e continuare a tenerlo in vita». Una posizione che i genitori del piccolo hanno ribadito anche davanti ai medici, che hanno incontrato nel pomeriggio. Al termine dell'incontro, Tom è apparso più conciliante, affermando di voler lavorare con i medici per garantire ad Alfie «la dignità e il conforto di cui ha bisogno». L'uomo ha detto che la famiglia intende «costruire un rapporto» con l'ospedale. Ha poi fatto un appello alla privacy: «Apprezziamo tutto il sostegno che abbiamo ricevuto da tutto il mondo, inclusi i nostri sostenitori italiani e polacchi, che hanno dedicato il loro tempo e supporto alla nostra incredibile lotta. Ora vi chiediamo di tornare alla vita di tutti i giorni e permettere a me, Kate e all'Alder hey di creare una relazione».
Nel corso della giornata, prima del confronto con gli uomini di scienza, Tom Evans aveva parlato molto, di diverse questioni, alternando dichiarazioni serene ad accuse ispirate dal nervosismo e complicate dalla stanchezza di tre giorni senza sonno. Nei momenti più critici aveva detto che «i medici ci odiano perché non siamo come loro», accusandoli di «guardarci dall'alto» e di trattarli da «criminali». Più volte, in compenso, ha confermato la sua riconoscenza al nostro Paese, visto che in questa folle vicenda di malattia, leggi e amore familiare, l'Italia sta giocando un ruolo di primo piano. «Grazie Italia, ti amiamo», ha detto mister Evans, «Alfie fa parte della famiglia italiana, è un pezzo d'Italia. Noi sentiamo di appartenere all'Italia». La cittadinanza che il bimbo ha ricevuto è solo un segno che il consenso e il sostegno da parte del Paese sono forti, come dimostra il fatto che nel pomeriggio di ieri un sostenitore del bimbo ha collocato un Tricolore su un palo della luce davanti all'ospedale. Tom Evans e la sua compagna Kate James guardano Oltremanica con affetto. Anzi, è probabile che in questi giorni di preoccupazione sentano Roma più vicina di Londra, anche se ieri pomeriggio a Westminster, sommersa di cittadini in assetto da protesta pronti a marciare per la città, il deputato Steven Woolfe ha lanciato una campagna per modificare la normativa che riguarda i casi simili a quelli di Alfie o di Charlie Gard. L'idea del parlamentare è di definire una norma che sostenga i genitori nell'affermazione dei loro diritti per la tutela dei figli. Battaglie legali come quella portata avanti dalla famiglia di Charlie Gard lo scorso anno e adesso da quella di Alfie Evans non si dovrebbero ripetere, perchè risultano estenuanti e dolorose, in un contesto di grave malattia infantile che è già di per sè molto pesante.
Legislazione a parte, ieri il papà del bimbo di 23 mesi affetto da una grave malattia neurologica, peraltro mai precisamente diagnosticata, ha fatto appello anche al Pontefice. «Chiedo al Papa di venire qui e vedere quello che sta succedendo», ha detto ad alta voce, con il tono della disperazione, «vieni a vedere come mio figlio è tenuto in ostaggio da questo ospedale. Quello che noi tutti stiamo subendo è sbagliato». L'invito rivolto a Papa Francesco è arrivato dopo che Tom Evans ha ribadito come la resistenza del piccolo paziente abbia stupito anche le infermiere dell'ospedale. «Alfie vive bene, sereno, felice, senza il ventilatore. Mi sembra abbastanza per dimostrare che i medici hanno sbagliato». In mattinata, peraltro, Tom Evans aveva anche lanciato un'accusa pesante all'ospedale, convinto che questa fretta di «terminare» suo figlio dipendesse solo da una questione economica. «Non è una faccenda di costi, non ci devono essere costi, si deve badare solo ad Alfie», ha detto davanti alle telecamere del programma Good Morning Britain, prima che le sue parole venissero rapidamente sfumate, con la rabbia conseguente degli spettatori.
Caterina Belloni
Monsignor MacMahon: «Qui tuteliamo i bambini»
Dopo la sentenza di mercoledì che ribadiva l'indisponibilità dei medici e dei giudici inglesi al trasferimento di Alfie Evans all'ospedale Bambino Gesù, nonché il divieto di mandarlo subito a casa, l'isolamento della famiglia Evans si è fatto ancora più desolante. Anche spiritualmente.
Ormai nella stanza in cui è recluso il piccolo Alfie possono entrare solo il padre e la madre, nemmeno altri famigliari, seppure perquisiti. E poi è stato allontanato definitivamente don Gabriele Brusco, il sacerdote italiano appartenente all'ordine dei Legionari di Cristo che fino a mercoledì sera era ammesso nella stanza dell'ospedale dell'Alder hey.
Ufficialmente richiamato dal parroco londinese dove presta servizio, però le cronache raccontano che al momento di entrare in stanza si sarebbe sentito dire: «Mi hanno dato disposizione di non farla passare. Mi dispiace». Tom, Kate e Alfie, hanno appreso solo al telefono che il loro conforto spirituale se ne andava.
Don Gabriele ha somministrato l'unzione degli infermi e poi il sacramento della cresima ad Alfie, ed era in qualche modo la persona che fisicamente rappresentava il desiderio di papa Francesco di restare accanto alla famiglia. Qualche dubbio su come abbia potuto realizzarsi l'allontanamento di padre Gabriele lo hanno sollevato le considerazioni che il giornale inglese The Tablet ha fatto a margine di alcune dichiarazioni rilasciate dal vescovo di Liverpool, monsignor Malcom MacMahon, dopo che mercoledì ha incontrato il Papa a Roma in seguito alla tradizionale udienza in piazza San Pietro.
«L'unzione di coloro che sono malati o in uno stato di salute grave è offerto per consolare e aiutare, ma anche in base al presupposto che l'individuo abbia peccato in qualche modo». Questa la chiosa giornalistica che seppur formalmente corretta ha tutto il sapore di una bacchettata sulle dita di padre Gabriele. Parole scritte a margine di dichiarazioni dello stesso vescovo che lasciano senza parole. Il pastore della chiesa di Liverpool, quindi colui che dovrebbe essere più vicino ad Alfie e alla sua famiglia, ha dichiarato: «Sono cosciente della compassione che il popolo italiano dimostra in maniera così caratteristica verso chi è nel bisogno, e in questo caso per Alfie. Ma so che i sistemi legali e medici nel Regno Unito sono anche basati sulla compassione e la salvaguardia dei diritti del singolo bambino».
Al Papa il presule si sarebbe però limitato a dire che «i cattolici di Liverpool hanno il cuore spezzato per Alfie e i suoi genitori» e continuano a pregare. Talmente spezzato, verrebbe da dire, che però il vescovo non esita a difendere l'operato di medici e giudici che vedono la morte come unico «best interest» per il bambino. Molto diverse le parole che don Gabriele rilasciava solo un paio di giorni fa a Repubblica. «Rimarrò qui accanto al suo letto», dichiarava il sacerdote, «anche nelle prossime ore e nei prossimi giorni fin quando dalla Santa Sede non riceverò nuove indicazioni. Resto qui come prete e come uomo perché, se fossi stato anche io un padre così come lo è Tom, avrei fatto di tutto per salvare mio figlio senza mai arrendermi anche di fronte alla sentenza di un giudice che non mi sta permettendo di ricevere il sostegno da chi vuol aiutare mio figlio in fin di vita». Sono state nuove indicazioni provenienti dal Vaticano, magari su pressione dei vescovi inglesi, ad allontanare don Gabriele? Quello che sappiamo è che l'ausiliare di Liverpool ha telefonato a padre Gabriele per chiedergli conto della sua presenza lì, e anche l'ausiliare del cardinale di Westminster, Vincent Nichols, si era fatto sentire con una mail al prete italiano. Il Papa dice una cosa e la Chiesa inglese gli fa da controcanto? Non è un bell'esempio di pluriformità della Chiesa, anche perché nel frattempo Alfie respira.
Lorenzo Bertocchi
La polizia inglese minaccia chi contesta sui social
LaPresse
Che nella vicenda del piccolo Alfie Evans la libertà non sia un valore tenuto troppo in considerazione dalle istituzioni britanniche, le quali hanno più volte negato ai genitori del bambino la possibilità di portarlo in Italia per essere assistito, è cosa ormai nota. Meno noto, ma non meno preoccupante, è l'intervento delle forze di polizia inglesi che , per bocca dell'ispettore capo Chris Gibson, hanno preso pubblicamente posizione dichiarando che controlleranno e perseguiranno le «comunicazioni malevole» che sui fatti verranno diffuse. Un avvertimento, postato quello sulla pagina Facebook della Merseyside police, nel quale è stato fatto anche un esplicito richiamo a possibilità di «azioni legali».
Come prevedibile, le reazioni degli utenti alla comunicazione delle polizia di sua maestà - giudicata intimidatoria, se non orwelliana - non si sono fatte attendere. Anzi, se possibile questa presa di posizione ha ulteriormente arroventato gli animi su una vicenda nella quale l'operato degli agenti aveva già suscitato parecchie perplessità. A colpire, nei giorni scorsi, era stata in particolare una foto dell'ingresso dell'Alder hey children hospital, la struttura di Liverpool che ha in cura Alfie, nella quale si poteva in effetti osservare un dispiegamento di forze dell'ordine imponente. Un vero e proprio cordone di agenti che pare duri tutt'ora.
Non solo. Nella serata di lunedì, quando al piccolo Evans è stata sottratta la ventilazione meccanica che da 15 mesi lo aiutava nella respirazione, si è parlato addirittura di una trentina di agenti attivi nel piantonare la sua stanza. Un impiego visto da molti, anche in Italia, come provocatorio e totalmente fuori luogo. Allo stesso modo sta indignando la voce secondo cui gli stessi familiari di Alfie, prima di poterlo visitare, sarebbero da diverse ore oggetto di attente «perquisizioni» finalizzate ad evitare che al bambino venga portato qualsiasi cosa che esuli dalle draconiane indicazioni dei medici dell'Alder hey.
Inoltre, da mercoledì sera, è stato definitivamente allontanato dall'ospedale padre Gabriele, il quale pareva potesse contare, per quanto riguarda la sua presenza, su un'importante copertura diplomatica, e invece è stato richiamato a Londra dal suo parroco in fretta e furia senza aver neppure il tempo, sembra, di salutare i genitori di Alfie, ai quali prestava assistenza spirituale. Comprensibile dunque, alla luce di tutto questo, l'irritazione suscitata dall'avviso della polizia inglese, in risposta al quale centinaia di utenti, stupiti anche dalla genericità del monito - cosa vuol dire «comunicazioni malevole»? - ne hanno alluvionato la pagina Facebook con critiche anche molto accese.
La sensazione maggiormente condivisa è che le istituzioni inglesi, da una parte isolando progressivamente Thomas Evans, l'agguerrito padre di Alfie, e dall'altra con l'esplicita minaccia azioni legali verso tutti coloro che sui social stanno tenendo alta l'attenzione sul caso, vogliano far spegnere i riflettori da giorni ininterrottamente accesi sull'Alder hey, le cui posizioni sono state peraltro ripetutamente sposate dalla magistratura. Più che di un avvertimento vero e proprio, quello della Merseyside police sarebbe dunque una mossa strategica finalizzata a distogliere l'attenzione dal piccolo Alfie Evans. Questo perché se il suo caso, sotto il profilo giudiziario, pare chiuso, a livello mediatico è invece tutt'ora più aperto che mai; e c'è da scommettere che la cosa dia un certo fastidio.
Giuliano Guzzo
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Riduci
Sinistra scatenata contro il piccolo britannico: ironie e paragoni insensati con la cittadinanza agli immigrati la fanno da padrone. Dopo giornalisti e politici, persino il presidente della Croce rossa prende spunto dalle cronache per fare uno spot all'accoglienza. Il papà durissimo, poi l'incontro con i dottori e la svolta: «Chiediamo rispetto e silenzio, ora costruiamo un rapporto». Il vescovo di Liverpool ha più fede nei medici e nei giudici che nel Papa. E le forze dell'ordine avvertono: «Controlliamo tutte le comunicazioni malevole in Rete, si rischiano azioni legali». Lo speciale contiene quattro articoli. Il caso Alfie ha scoperchiato il disordine morale dell'ideologia globalista. Chi predica il verbo dell'accoglienza, che poi equivale alla deportazione dei popoli e al depauperamento del continente africano, non si scompone se al piccolo Evans, cittadino italiano, le corti britanniche hanno vietato l'espatrio come a un criminale. I cantori dell'immigrazione selvaggia, per i quali la soppressione di Alfie è diventata una questione di principio, si stanno servendo dell'ondata di indignazione che ha sollevato la tragedia del neonato per confezionare un vergognoso spot in favore dello ius soli. È il caso di Francesco Rocca, presidente della Croce rossa, che commentando la proposta di Angelino Alfano e Marco Minniti di concedere la cittadinanza italiana ad Alfie, ha partorito una grottesca tirata sulle sofferenze dei bambini nel mondo: «Se la vita è correttamente un diritto», ha argomentato Rocca, «dobbiamo ricordarci anche che le vite sono tutte uguali. E allora ci piacerebbe vedere tutti quelli che hanno seguito questi casi di attualità o quelli che hanno incensato il governo per la decisione sulla cittadinanza, fare lo stesso per ogni bambino che vediamo morire o soffrire atrocemente. Invece, molte volte, gli stessi tanto interessati ai temi della cosiddetta bioetica sono quelli che poi voltano le spalle a chi muore in mare, a chi viene bombardato in Yemen on in Siria, a chi viene torturato in Libia, a chi viene trucidato in una delle tante guerre dimenticate nel continente africano». Un ragionamento, a volerlo definire tale, completamente sgangherato. Classico sintomo della patologia dell'universalismo etico, che vorrebbe abbracciare il mondo in un unico afflato, ma ignora l'uomo agonizzante che incontra lungo il cammino. La tesi strampalata, in sostanza, sembra essere che se non salviamo tutti, soccorrere uno è illegittimo. Tanto più poiché quell'uno patisce le pene, per usare una perifrasi mutuata dall'eugenetica nazista, di una «vita indegna di essere vissuta». È la teoria di Zita Dazzi, giornalista del quotidiano La Repubblica, cui l'intervento dei nostri ministri di Esteri e Interni non è andato proprio giù: «Non converrebbe dare la cittadinanza», ha twittato, «invece che al piccolo Alfie che è praticamente morto, alle migliaia di bambini africani vivi che rischiano di morire mentre attraversano il canale di Sicilia?». Lasciate che i morti stacchino il respiratore ai loro morti. Noi dobbiamo preoccuparci di alimentare il traffico di esseri umani, promuovendo le migrazioni che strappano dalla loro terra intere comunità, assicurano ai mercati globali l'esercito industriale di riserva e provocano conseguenze culturalmente e socialmente devastanti nei Paesi di arrivo. I progressisti amano tanto i bimbi africani, da accanirsi su Alfie, che ha la colpa di aver attirato la nostra compassione. Era stato proprio il giornale diretto da Mario Calabresi a lanciare l'invereconda strumentalizzazione del piccolo Evans. Michela Marzano, in un articolo che ha scatenato lo sdegno di molti lettori, aveva invocato «l'attribuzione della nazionalità italiana anche a tutti quei ragazzi e quelle ragazze nati in Italia e che, ancora oggi, sono considerati stranieri». Alfie trasformato in uno slogan che manderebbe in visibilio Cécile Kyenge. Un neonato sofferente, i cui genitori chiedono soltanto il diritto di tentare un'ultima cura ed eventualmente di accompagnarlo con amorevolezza alla sua fine naturale, trattato come un rifiuto che, prima di essere eliminato, merita di diventare bersaglio del livore dei fan dello ius soli. Si può andare a morire nelle cliniche in Svizzera, ma non al Bambino Gesù. C'è pure chi fa dell'ironia, come Alessandro Capriccioli, consigliere regionale eletto nel Lazio per la lista della rinomata abortista Emma Bonino. Su Facebook, il segretario dei Radicali romani si fa beffe del bimbo che versa «in stato neurovegetativo», chiedendo, se non «la concessione della cittadinanza, molto più modestamente il rilascio di un permesso di soggiorno» ai migranti. I caritatevoli paladini dell'umanitarismo non reggevano il pensiero che l'Italia offrisse aiuto ad Alfie, ma non si sobbarcasse l'onere di risolvere tutti i mali del pianeta. Tra l'altro, questi predicatori ricolmi di nobili sentimenti dovrebbero spiegarci quante persone il nostro Paese avrebbe lasciato annegare nel Mediterraneo: da sette anni gli italiani sono impegnati in operazioni di pattugliamento e soccorso e, nel nome della solidarietà, hanno lasciato che il canale di Sicilia diventasse zona franca per i traffici delle Ong. I mondialisti amano l'umanità in astratto, ma sono incapaci di amare l'uomo in concreto. Lo aveva capito Gilbert Keith Chesterton, il quale, notando che umanisti e umanitaristi si professavano atei, qualificò il loro operato con amara ironia: «Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell'umanità, finiscono per combattere la libertà e l'umanità pur di combattere la Chiesa». 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Quello che chiediamo è solo di incontrare i medici e trasferire il piccolo a casa». Secondo il racconto del padre, ormai Alfie non ha più bisogno di cure intensive. Sta nel suo letto, con un litro di ossigeno che va nel suoi polmoni da una fonte esterna e per il resto se la cava. «Qualcuno dice che si tratta di un miracolo, altri lo negano. Per me non è un miracolo, è una diagnosi errata. Ormai sono giorni che è senza la ventilazione automatica e non ci sono stati peggioramenti. Non si è svegliato, è ancora debole. Vogliamo portarlo a casa e continuare a tenerlo in vita». Una posizione che i genitori del piccolo hanno ribadito anche davanti ai medici, che hanno incontrato nel pomeriggio. Al termine dell'incontro, Tom è apparso più conciliante, affermando di voler lavorare con i medici per garantire ad Alfie «la dignità e il conforto di cui ha bisogno». L'uomo ha detto che la famiglia intende «costruire un rapporto» con l'ospedale. Ha poi fatto un appello alla privacy: «Apprezziamo tutto il sostegno che abbiamo ricevuto da tutto il mondo, inclusi i nostri sostenitori italiani e polacchi, che hanno dedicato il loro tempo e supporto alla nostra incredibile lotta. Ora vi chiediamo di tornare alla vita di tutti i giorni e permettere a me, Kate e all'Alder hey di creare una relazione». Nel corso della giornata, prima del confronto con gli uomini di scienza, Tom Evans aveva parlato molto, di diverse questioni, alternando dichiarazioni serene ad accuse ispirate dal nervosismo e complicate dalla stanchezza di tre giorni senza sonno. Nei momenti più critici aveva detto che «i medici ci odiano perché non siamo come loro», accusandoli di «guardarci dall'alto» e di trattarli da «criminali». Più volte, in compenso, ha confermato la sua riconoscenza al nostro Paese, visto che in questa folle vicenda di malattia, leggi e amore familiare, l'Italia sta giocando un ruolo di primo piano. «Grazie Italia, ti amiamo», ha detto mister Evans, «Alfie fa parte della famiglia italiana, è un pezzo d'Italia. Noi sentiamo di appartenere all'Italia». La cittadinanza che il bimbo ha ricevuto è solo un segno che il consenso e il sostegno da parte del Paese sono forti, come dimostra il fatto che nel pomeriggio di ieri un sostenitore del bimbo ha collocato un Tricolore su un palo della luce davanti all'ospedale. Tom Evans e la sua compagna Kate James guardano Oltremanica con affetto. Anzi, è probabile che in questi giorni di preoccupazione sentano Roma più vicina di Londra, anche se ieri pomeriggio a Westminster, sommersa di cittadini in assetto da protesta pronti a marciare per la città, il deputato Steven Woolfe ha lanciato una campagna per modificare la normativa che riguarda i casi simili a quelli di Alfie o di Charlie Gard. L'idea del parlamentare è di definire una norma che sostenga i genitori nell'affermazione dei loro diritti per la tutela dei figli. Battaglie legali come quella portata avanti dalla famiglia di Charlie Gard lo scorso anno e adesso da quella di Alfie Evans non si dovrebbero ripetere, perchè risultano estenuanti e dolorose, in un contesto di grave malattia infantile che è già di per sè molto pesante. Legislazione a parte, ieri il papà del bimbo di 23 mesi affetto da una grave malattia neurologica, peraltro mai precisamente diagnosticata, ha fatto appello anche al Pontefice. «Chiedo al Papa di venire qui e vedere quello che sta succedendo», ha detto ad alta voce, con il tono della disperazione, «vieni a vedere come mio figlio è tenuto in ostaggio da questo ospedale. Quello che noi tutti stiamo subendo è sbagliato». L'invito rivolto a Papa Francesco è arrivato dopo che Tom Evans ha ribadito come la resistenza del piccolo paziente abbia stupito anche le infermiere dell'ospedale. «Alfie vive bene, sereno, felice, senza il ventilatore. Mi sembra abbastanza per dimostrare che i medici hanno sbagliato». In mattinata, peraltro, Tom Evans aveva anche lanciato un'accusa pesante all'ospedale, convinto che questa fretta di «terminare» suo figlio dipendesse solo da una questione economica. «Non è una faccenda di costi, non ci devono essere costi, si deve badare solo ad Alfie», ha detto davanti alle telecamere del programma Good Morning Britain, prima che le sue parole venissero rapidamente sfumate, con la rabbia conseguente degli spettatori. 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E poi è stato allontanato definitivamente don Gabriele Brusco, il sacerdote italiano appartenente all'ordine dei Legionari di Cristo che fino a mercoledì sera era ammesso nella stanza dell'ospedale dell'Alder hey. Ufficialmente richiamato dal parroco londinese dove presta servizio, però le cronache raccontano che al momento di entrare in stanza si sarebbe sentito dire: «Mi hanno dato disposizione di non farla passare. Mi dispiace». Tom, Kate e Alfie, hanno appreso solo al telefono che il loro conforto spirituale se ne andava. Don Gabriele ha somministrato l'unzione degli infermi e poi il sacramento della cresima ad Alfie, ed era in qualche modo la persona che fisicamente rappresentava il desiderio di papa Francesco di restare accanto alla famiglia. Qualche dubbio su come abbia potuto realizzarsi l'allontanamento di padre Gabriele lo hanno sollevato le considerazioni che il giornale inglese The Tablet ha fatto a margine di alcune dichiarazioni rilasciate dal vescovo di Liverpool, monsignor Malcom MacMahon, dopo che mercoledì ha incontrato il Papa a Roma in seguito alla tradizionale udienza in piazza San Pietro. «L'unzione di coloro che sono malati o in uno stato di salute grave è offerto per consolare e aiutare, ma anche in base al presupposto che l'individuo abbia peccato in qualche modo». Questa la chiosa giornalistica che seppur formalmente corretta ha tutto il sapore di una bacchettata sulle dita di padre Gabriele. Parole scritte a margine di dichiarazioni dello stesso vescovo che lasciano senza parole. Il pastore della chiesa di Liverpool, quindi colui che dovrebbe essere più vicino ad Alfie e alla sua famiglia, ha dichiarato: «Sono cosciente della compassione che il popolo italiano dimostra in maniera così caratteristica verso chi è nel bisogno, e in questo caso per Alfie. Ma so che i sistemi legali e medici nel Regno Unito sono anche basati sulla compassione e la salvaguardia dei diritti del singolo bambino». Al Papa il presule si sarebbe però limitato a dire che «i cattolici di Liverpool hanno il cuore spezzato per Alfie e i suoi genitori» e continuano a pregare. Talmente spezzato, verrebbe da dire, che però il vescovo non esita a difendere l'operato di medici e giudici che vedono la morte come unico «best interest» per il bambino. Molto diverse le parole che don Gabriele rilasciava solo un paio di giorni fa a Repubblica. «Rimarrò qui accanto al suo letto», dichiarava il sacerdote, «anche nelle prossime ore e nei prossimi giorni fin quando dalla Santa Sede non riceverò nuove indicazioni. Resto qui come prete e come uomo perché, se fossi stato anche io un padre così come lo è Tom, avrei fatto di tutto per salvare mio figlio senza mai arrendermi anche di fronte alla sentenza di un giudice che non mi sta permettendo di ricevere il sostegno da chi vuol aiutare mio figlio in fin di vita». Sono state nuove indicazioni provenienti dal Vaticano, magari su pressione dei vescovi inglesi, ad allontanare don Gabriele? Quello che sappiamo è che l'ausiliare di Liverpool ha telefonato a padre Gabriele per chiedergli conto della sua presenza lì, e anche l'ausiliare del cardinale di Westminster, Vincent Nichols, si era fatto sentire con una mail al prete italiano. Il Papa dice una cosa e la Chiesa inglese gli fa da controcanto? Non è un bell'esempio di pluriformità della Chiesa, anche perché nel frattempo Alfie respira. Lorenzo Bertocchi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/avvoltoi-global-su-alfie-in-nome-dello-ius-soli-2563602717.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="la-polizia-inglese-minaccia-chi-contesta-sui-social" data-post-id="2563602717" data-published-at="1765660176" data-use-pagination="False"> La polizia inglese minaccia chi contesta sui social LaPresse Che nella vicenda del piccolo Alfie Evans la libertà non sia un valore tenuto troppo in considerazione dalle istituzioni britanniche, le quali hanno più volte negato ai genitori del bambino la possibilità di portarlo in Italia per essere assistito, è cosa ormai nota. Meno noto, ma non meno preoccupante, è l'intervento delle forze di polizia inglesi che , per bocca dell'ispettore capo Chris Gibson, hanno preso pubblicamente posizione dichiarando che controlleranno e perseguiranno le «comunicazioni malevole» che sui fatti verranno diffuse. Un avvertimento, postato quello sulla pagina Facebook della Merseyside police, nel quale è stato fatto anche un esplicito richiamo a possibilità di «azioni legali». Come prevedibile, le reazioni degli utenti alla comunicazione delle polizia di sua maestà - giudicata intimidatoria, se non orwelliana - non si sono fatte attendere. Anzi, se possibile questa presa di posizione ha ulteriormente arroventato gli animi su una vicenda nella quale l'operato degli agenti aveva già suscitato parecchie perplessità. A colpire, nei giorni scorsi, era stata in particolare una foto dell'ingresso dell'Alder hey children hospital, la struttura di Liverpool che ha in cura Alfie, nella quale si poteva in effetti osservare un dispiegamento di forze dell'ordine imponente. Un vero e proprio cordone di agenti che pare duri tutt'ora. Non solo. Nella serata di lunedì, quando al piccolo Evans è stata sottratta la ventilazione meccanica che da 15 mesi lo aiutava nella respirazione, si è parlato addirittura di una trentina di agenti attivi nel piantonare la sua stanza. Un impiego visto da molti, anche in Italia, come provocatorio e totalmente fuori luogo. Allo stesso modo sta indignando la voce secondo cui gli stessi familiari di Alfie, prima di poterlo visitare, sarebbero da diverse ore oggetto di attente «perquisizioni» finalizzate ad evitare che al bambino venga portato qualsiasi cosa che esuli dalle draconiane indicazioni dei medici dell'Alder hey. Inoltre, da mercoledì sera, è stato definitivamente allontanato dall'ospedale padre Gabriele, il quale pareva potesse contare, per quanto riguarda la sua presenza, su un'importante copertura diplomatica, e invece è stato richiamato a Londra dal suo parroco in fretta e furia senza aver neppure il tempo, sembra, di salutare i genitori di Alfie, ai quali prestava assistenza spirituale. Comprensibile dunque, alla luce di tutto questo, l'irritazione suscitata dall'avviso della polizia inglese, in risposta al quale centinaia di utenti, stupiti anche dalla genericità del monito - cosa vuol dire «comunicazioni malevole»? - ne hanno alluvionato la pagina Facebook con critiche anche molto accese. La sensazione maggiormente condivisa è che le istituzioni inglesi, da una parte isolando progressivamente Thomas Evans, l'agguerrito padre di Alfie, e dall'altra con l'esplicita minaccia azioni legali verso tutti coloro che sui social stanno tenendo alta l'attenzione sul caso, vogliano far spegnere i riflettori da giorni ininterrottamente accesi sull'Alder hey, le cui posizioni sono state peraltro ripetutamente sposate dalla magistratura. Più che di un avvertimento vero e proprio, quello della Merseyside police sarebbe dunque una mossa strategica finalizzata a distogliere l'attenzione dal piccolo Alfie Evans. Questo perché se il suo caso, sotto il profilo giudiziario, pare chiuso, a livello mediatico è invece tutt'ora più aperto che mai; e c'è da scommettere che la cosa dia un certo fastidio. Giuliano Guzzo
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Riduci
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Riduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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