
Il premier si tiene stretta la delega ai servizi segreti: «È una garanzia per tutti, Salvini e Renzi prepotenti». Poi, nella spiegazione sulla collaborazione con gli Usa, molla la stoccata: «Era nostro interesse chiarire cosa è successo durante i governi precedenti».Sono state altre 36 ore intense per Giuseppe Conte. La Verità è stato il primo quotidiano - e lo confermiamo - ad avere scritto di una certa insoddisfazione americana per la collaborazione prestata dall'Italia alla contro inchiesta dell'attorney general William Barr. La Washington trumpiana è dunque irritata: ha concesso un endorsement pesantissimo al Giuseppi bis, ottenendo in cambio molto meno di ciò che si attendeva, a quanto pare. E in questo scambio diseguale sta la prima acrobazia di Conte: lestissimo a incassare il decisivo appoggio del presidente Usa quando lui era fragilissimo e precario a Palazzo Chigi, ma ora puntiglioso nel veicolare ai media una versione secondo cui sarebbe stato proprio il presidente del Consiglio, incontrando i vertici dei servizi italiani alla vigilia del confronto con Barr, a raccomandar loro di non consegnare carte o altri materiali. Immaginate l'umore dell'entourage trumpiano nel leggere questi retroscena. E immaginate - simmetricamente - l'umore di chi, nei palazzi romani, pensa che Conte abbia usato la nostra intelligence per garantirsi la permanenza in sella. Ma veniamo alla seconda acrobazia. Come La Verità vi ha raccontato, è in corso un pressing (dal Pd ai renziani) per persuadere Conte a mollare la delega sui servizi segreti. E cosa ha deciso per il momento l'ex avvocato del popolo, ora avvocato di sé stesso? Di tenersi tutto. E come beffa, fa anche sapere - lo dice a Massimo Franco per il Corriere della Sera - che «Giuseppe Conte non delegherà nulla. Non conviene affidare gli apparati di sicurezza a persone che rispondono ad altri. È una garanzia per tutti». E quindi apprendiamo che Conte parla di sé in terza persona, come Giulio Cesare, e che ritiene l'Italia garantita solo dal fatto che sia lui a occuparsi di intelligence. Non pago di questa provocazione, Conte è andato oltre, addirittura paragonandosi a Bettino Craxi (che per evidenti ragioni non può difendersi dall'accostamento): «Sono più duro di Craxi a Sigonella». E sganciando altre bombe dialettiche contro i due Matteo, Renzi e Salvini («Non sopporto i prepotenti»).Ma non finisce qui. Conte ha pure veicolato tramite Repubblica un pesantissimo avvertimento a Matteo Renzi (e a Paolo Gentiloni): una specie di «Matteo stai sereno», uguale e contrario alle bordate indirizzategli dal capo di Italia viva. E che ha detto Conte, secondo Tommaso Ciriaco di Repubblica? «Era nostro interesse chiarire quali fossero le informazioni degli Stati Uniti sull'operato dei nostri servizi all'epoca dei governi precedenti». Avete capito bene: il riferimento è al 2016 e al 2017, quando a Palazzo Chigi c'erano Renzi e Gentiloni. In pratica, Conte fa sapere ai suoi due predecessori che sta assumendo informazioni e promuovendo chiarimenti sui loro governi. Ricapitoliamo il doppio salto mortale senza rete: da un lato Conte promette collaborazione a Trump, ma poi non può o non vuole garantirla fino in fondo (così si ritiene a Washington, almeno); dall'altro, senza tanti giri di parole, comunica a due stakeholders della sua maggioranza che sta indagando su come si comportarono i governi del Pd, se chiusero o no gli occhi mentre qualche manina italiana fabbricava prove farlocche - questa è l'ipotesi di William Barr - contro la campagna Trump. E ieri, senza fare una piega, Conte ha parlato proprio alla cerimonia per il giuramento dei neo assunti nella nostra intelligence: «Ho constatato che l'intelligence è patrimonio dell'intera nazione, una comunità di valorosi professionisti che, garantendo la sicurezza del paese, protegge quella sfera di interessi nazionali che unisce e non divide, nella quale tutti i cittadini italiani si riconoscono». Conte ha elogiato i vertici, anche nel tentativo di rassicurarli: «Consentitemi di cogliere questa occasione per esprimere il mio più sentito apprezzamento e ringraziamento per l'operato dei vertici del comparto». Poi, un passaggio abbastanza surreale per chi - questa è l'ipotesi formulata su Conte - si sarebbe mosso senza informare il Parlamento: «L'intelligence è il presidio della democrazia, non essendo concepibile che si muova al di fuori del controllo parlamentare e dei compiti che il governo le assegna». In un altro passaggio, Conte è sembrato precostituire la sua linea difensiva davanti al Copasir: «Se da un lato è il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica a stabilire il fabbisogno informativo, a individuare le direttrici di intervento e dunque le priorità lungo le quali gli organismi devono muoversi, d'altro canto è l'autorità di governo che si attende di venire a sua volta sollecitata da un'intelligence integrata nei suoi meccanismi decisionali in ordine a problemi nuovi e ad orizzonti inediti». Chiusura tentando di volare alto: «Non basta più il semplice adattamento ai mutamenti della minaccia, bisogna individuare in tempo utile l'evoluzione dei diversi fenomeni. A fronte di minacce ibride e mimetizzate, la bravura nel giocare d'anticipo potrebbe rivelarsi insufficiente. Servono operatori con una visione olistica, capaci reinventarsi continuamente nei propri obiettivi ed il decisore politico necessita di informazioni vagliate e tempestive». Parola di Conte, l'uomo che oggi fa sapere a tutti di ritenersi indispensabile e di non voler fare alcun passo indietro.
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