2021-03-09
Aule chiuse pure per i figli dei medici. Alunni costretti a tornare in piazza
Retromarcia del ministero: i lavoratori «essenziali» non possono mandare i giovani a scuola. Resta la deroga per i disabili. Da ieri istituti blindati per due studenti su tre. A Torino i ragazzi fanno lezione davanti la RegioneL'allarme del Bambino Gesù: con lo stravolgimento dello stile di vita la maturazione sessuale prematura è più che raddoppiata. Cresce il rischio diabete e ovaio policisticoLo speciale contiene due articoliDa ieri quasi 6 milioni di studenti italiani sono tornati alla didattica a distanza. Dopo oltre un mese di lezioni in presenza, infatti, si è fatto un altro passo indietro. Non solo nelle Regioni rosse e arancione rafforzato, ma anche nei territori dove l'incidenza dei contagi è superiore ai 250 casi ogni 100.000 abitanti, così come previsto dall'ultimo dpcm in vigore dal 6 marzo al 6 aprile. Una stretta che potrebbe nei prossimi giorni costringere a stare dietro uno schermo nove alunni su 10, il 90,1% dei quasi 8,5 milioni iscritti nelle scuole statali e paritarie, nonostante i tanti appelli e le tirate sul valore fondamentale dell'educazione, alle quali dopo un anno non sono corrisposti ancora fatti concreti. Le Regioni si muovo in ordine sparso, le ultime chiusure a macchia di leopardo si sono registrate ieri in Veneto, dove in tre distretti sanitari sono stati chiusi tutti gli istituti. E così si è costretti all'eterno déjà vu: scuole serrate, e agli studenti non resta che la protestare per strada, anziché stare sui banchi. Ieri, dalle 8 di mattina, i giovani torinesi si sono riuniti in piazza Castello e hanno fatto lezione seduti per terra o con dei banchetti improvvisati, i tablet e i pc, davanti al palazzo della Regione. «Abbiamo il timore che durerà più di 15 giorni. Questa chiusura è una presa in giro dopo mesi in cui si sono evidenziati i problemi psicologici ed educativi della Dad», spiega il portavoce del gruppo di studenti, «Le istituzioni non sanno trovare altre soluzioni e dicono sia una decisione tecnica e non politica: una bugia, le scuole sono i posti più sicuri per noi». Una problematica tanto palese quanto ignorata. Gli studenti costretti a non frequentare la scuola non si barricano in casa ma, comprensibilmente, si incontrano, quantomeno per cercare di combattere l'alienazione di cui da oltre un anno rischiano di essere vittime; tanto più che impedire loro di frequentare le lezioni in presenza, rispettando le distanze e con la mascherina, mentre sono lasciati liberi di fare shopping nei negozi, ha il sapore della presa in giro, che culmina periodicamente nella colpevolizzazione per la presunta «movida» che fa impennare i contagi. Da viale Trastevere il ministro Patrizio Bianchi non dice nulla di nuovo: «Quando abbiamo dovuto prendere le decisioni inserite nel dpcm per le scuole non è stato facile, è stata una scelta difficile ma responsabile. La variante inglese colpisce i più giovani. Se saremo in grado di assumerci l'onere di fare squadra contro la pandemia, questa si ferma, altrimenti questa continua». Ma è in seguito alla domanda circa la possibile riapertura delle scuole dopo Pasqua che Bianchi regala una supercazzola in grande stile: «Non c'è un orizzonte, è la nostra capacità di essere uniti che ci dà l'orizzonte, la responsabilità non è solo del governo, è di tutto il Paese», e torna a rigirare la frittata sulla dad: «il Paese non è stato fermo, la scuola non è stata chiusa, il Paese non è stato reclinato su se stesso. Anche la dad di ora non è quella di un anno fa. Nel suo insieme, la scuola italiana ha reagito, stiamo inducendo tutti ad avere attenzione alla presenza a scuola dei ragazzi più fragili, ma la scuola non si è mai fermata». Eppure, sarebbero in tanti ad aspettare dal ministero dell'Istruzione una circolare che sistemi un altro pasticcio. Parliamo della retromarcia fatta da Roma sulla possibilità per i figli dei lavoratori essenziali di seguire le lezioni in presenza. La confusione era montata nei giorni scorsi, a causa di una nota emanata dal ministero il 4 marzo che prevedeva «la frequenza scolastica in presenza, in condizioni di reale inclusione, degli studenti figli di personale sanitario o di altre categorie di lavoratori, le cui prestazioni siano ritenute indispensabili per la garanzia dei bisogni essenziali della popolazione», oltre che dei ragazzi disabili. Tuttavia, nessuna istruzione su quali fossero nel dettaglio le categorie di «key workers» interessate era stata fornita. Così, si è arrivati a un altro déjà vu: ogni preside è stato costretto a dare delle risposte disomogenee e arbitrarie. Oltre a non sapere quali figure si possano definire «essenziali», non è mai stato nemmeno chiaro se il diritto alla didattica in presenza sarebbe decaduto qualora uno dei genitori lavorasse in smart working. Alcuni dirigenti scolastici avevano deciso che a rientrare in presenza fossero solo i figli dei sanitari direttamente impegnati nel contenimento della pandemia, altri invece avevano previsto la misura anche per i figli del personale impiegato nella grande distribuzione (supermercati) nei trasporti, nella banche, nelle poste, con il rischio tuttavia di creare disparità e grossi malumori tra le famiglie, costrette a una sorta di «guerra tra poveri». Così, mentre in ordine sparso erano già state firmate le autocertificazioni da parte dei genitori per rimandare tra i banchi i propri figli, il ministero dell'Istruzione, domenica 7 marzo alle 19, ha inviato una nota alle scuole, una vera e propria doccia fredda: nelle zone arancioni rafforzato e rosse le lezioni in presenza sono permesse solo agli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali (Bes), e per le attività di laboratorio. E per i figli dei lavoratori essenziali e sui criteri per definire chi siano? Roma prende tempo: «Si rendono necessari ulteriori approfondimenti». Da viale Trastevere, ancora nulla.