2020-09-01
Attivista pro Trump ucciso dagli Antifa. Ma contano soltanto le vite dei neri
(Nathan Howard/Getty Images)
Sui media l'omicidio di Aaron Jay Danielson a Portland diventa «la morte di un suprematista». Black lives matter ha licenza d'ammazzare. Ora è estremamente più chiaro il significato del nome Black lives matter: le vite dei neri importano, tutte le altre no. E purtroppo questa regola non vale soltanto per i militanti sedicenti antirazzisti che affollano le strade d'America, ma pure per i numerosi commentatori, anche italiani, i quali pur di colpire Donald Trump sono pronti a giustificare ogni bestialità. A Portland, da circa tre mesi, si svolgono scontri quasi quotidiani tra attivisti neri e manifestanti pro Trump. Sabato scorso un militante bianco - Aaron Jay Danielson, conosciuto come Jay Bishop - è stato ammazzato a sangue freddo. Gli hanno sparato in strada: un testimone lo ha visto barcollare e poi cadere a faccia in giù sul selciato. A ucciderlo, a quanto pare, è stato un affiliato di Antifa, l'organizzazione antagonista che da settimane si diletta a mettere a ferro e fuoco le città statunitensi in concomitanza con le sfilate di Black lives matter. Gli Antifa, tra cui il sospetto assassino Michael Forest Reinoehl, sono violenti, specialisti della guerriglia urbana, ed è evidente che non si fanno scrupoli. Però, visto che si collocano dalla parte dei «buoni», non sembrano suscitare grande scandalo a livello mediatico. Jay Bishop, invece, faceva parte di un'organizzazione nata nel 2016 e chiamata Patriot Prayer. Un gruppo di supporter trumpiani, ovviamente, ma abbastanza diverso dal resto della cosiddetta «alt right» (destra alternativa). Giusto per distinguersi, i Prayers e il loro leader, Joey Gibson, negli ultimi anni hanno preso ripetutamente le distanze dalle azioni violente di altre sigle destrorse. Stanno dalle parte dei poliziotti, si avvolgono nella bandiera a stelle e strisce, esprimono liberamente le proprie posizioni conservatrici. Per questo motivo, secondo qualcuno, non meritano di stare al mondo. In un video registrato a pochi minuti dall'omicidio di Jay Bishop si sente una donna urlare: «Non sono triste perché un fottuto fascista è morto stanotte». Ecco, questa è di sicuro una posizione estrema e intollerabile. Ma l'idea che i militanti di destra in fondo un po' si meritino la violenza circola - seppure in forme più sottili - anche dalle nostre parti. Sulla Stampa, ad esempio, si parla di un «estremista di destra ucciso a Portland». Non un manifestante, bensì un «estremista», come a dire che se l'è andata a cercare. Pensate se qualcuno facesse un titolo simile su Black lives matter: «Estremista nero colpito dalla polizia». Succederebbe il finimondo. Sempre sulla Stampa c'è la foto di un uomo che si trovava vicino a Jay al momento dell'assassinio. È furibondo, e alcuni poliziotti lo trattengono a forza. Bene, il giornale lo definisce «suprematista bianco». Il commento sulla vicenda è affidato al prestigioso Alan Friedman, che ovviamente incolpa Trump di aver fomentato una «guerra civile a bassa intensità». Ovvio: se la polizia uccide un nero è colpa del razzismo fomentato da Trump. Se i manifestanti neri uccidono un bianco è sempre colpa di Trump che «gioca alla guerra civile». È, guarda un po', lo stesso concetto espresso dal candidato democratico Joe Biden, secondo cui The Donald «incoraggia in modo sconsiderato la violenza». Ah, invece dipingere tutti i bianchi come oppressori e odiatori, pompare la balla del «razzismo sistemico» e incitare alla rivolta sono tutti modi per invitare alla pace e alla concordia sociale... Se si scatenano rivolte, sostiene Alan Friedman, la colpa è del solito presidente brutto e cattivo. Più o meno ovunque la lettura dei fatti è la stessa. Su Repubblica si parla di guerriglia fra «suprematisti e anarchici», e si scopre che a Portland «muore un fan di Trump», come se gli fosse venuto un infarto. Di nuovo tutti i militanti di destra diventano «suprematisti», cioè «razzisti», cioè «fascisti» quindi meritevoli delle peggiori sciagure. Di «estrema destra» si discute anche sul Corriere della Sera, che appare molto preoccupato poiché «il vantaggio di Biden cala negli Stati chiave». Insomma, se muore un bianco la reazione è duplice: da un lato si fa capire che era un fascistone e in fondo se l'è meritato; dall'altro si depreca l'omicidio perché si teme che, politicamente, possa favorire Donald Trump. A nessuno viene in mente di accusare Black lives matter di alimentare violenze e scontri. Nessuno tira in ballo il razzismo, eppure - a rigor di logica - se Jay Bishop è stato ucciso da un manifestante «antirazzista» per via delle sue posizioni politiche e del colore della sua pelle, di omicidio a sfondo razziale si tratta. Hollywood e tutta l'industria dell'intrattenimento supportano Black lives matter, lo stesso fa la maggior parte dei media. Ergo gli attivisti neri sono descritti come buoni a prescindere. Sono «vittime» per eccellenza: del razzismo, delle diseguaglianze sociali, dell'aggressività trumpiana. E se devastano, picchiano o addirittura provocano morti violente, non importa: restano nel giusto. Perché le vite dei neri, oggi, contano. Quelle di tutti gli altri, specie se bianchi, decisamente meno.
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)