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2022-09-26
Attenzione: la Russia non sta mollando la presa sulla Libia
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Ansa
Innanzitutto Mosca ha reso noto di essere quasi pronta a riaprire la propria ambasciata nel Paese. “La (nostra) ambasciata riaprirà in un prossimo futuro in Libia... conoscerete la nomina dell’ambasciatore. Ora bisogna risolvere problemi organizzativi, al momento non c'è un posto dove lavorare, momentaneamente, magari lavoreranno i nostri colleghi in qualche albergo”, ha dichiarato lunedì della settimana scorsa il viceministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov.
In tutto questo, sempre la settimana scorsa, è stato annunciato che il presidente della Camera dei rappresentanti con sede a Tobruk, Aguila Saleh, sarebbe in procinto di effettuare un viaggio in Russia. Secondo Libya Observer, Saleh punterebbe a “presentare la sua iniziativa politica, che include la modifica dell'autorità esecutiva, creando un nuovo consiglio presidenziale guidato da lui e un governo modificato, guidato da Dbeibah”.
Ma non è finita qui. La settimana scorsa, è infatti tornato a parlare anche il generale Khalifa Haftar: figura storicamente spalleggiata dal Cremlino. “Non c'è altra scelta che la rivolta e la rivoluzione del popolo contro la miserabile realtà del Paese”, ha tuonato, criticando sia la Camera dei rappresentanti sia il governo di unità nazionale. “Il popolo non ha altra scelta che assumersi la responsabilità di sé stesso, senza rappresentanti, per ottenere il cambiamento desiderato”, ha aggiunto. “La battaglia per costruire lo stato deve essere combattuta dal popolo con la cooperazione dell'esercito, pacificamente e contro gli ipocriti e i corrotti”, ha proseguito. Ora, è difficile che queste parole così dure siano avvenute totalmente all’oscuro delle alte sfere di Mosca.
Ricordiamo che la Russia continua a mantenere una significativa influenza sulla parte orientale della Libia attraverso i temibili mercenari del Wagner Group. In particolare, Vladimir Putin utilizza quest’area (anche) come trampolino di lancio per estendere la propria longa manus sul Sahel (pensiamo soprattutto al Mali). Resta comunque il fatto che l’Ovest libico continui a gravitare nell’orbita turca. Ora, è pur vero che negli ultimi mesi Putin e Recep Tayyip Erdogan hanno mostrato una relazione piuttosto solida. Non è però ancora chiaro in che modo i due intendano trovare un’eventuale quadra sul dossier libico. Soprattutto dopo che la Turchia ha recentemente prorogato di 18 mesi la propria presenza militare nel Paese nordafricano.
La tensione intanto resta alta tra i due governi rivali, mentre l’Occidente sembra sempre più marginalizzato. Certo, venerdì scorso Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno respinto “qualsiasi uso della violenza” in Libia e ribadito il loro “pieno sostegno alla mediazione delle Nazioni Unite” per consentire elezioni in tutto il Paese “nel più breve tempo possibile”. Tuttavia, è purtroppo evidente che l’Occidente ha al momento un margine di manovra piuttosto limitato in loco. Per questo l’Italia dovrebbe urgentemente esortare la Casa Bianca a rilanciare il fianco meridionale della Nato, mettendo in evidenza le ambiguità filorusse di Francia e Turchia.
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Nonostante gli evidenti problemi con la crisi ucraina, la Russia non rinuncia a muoversi in Libia: un’area che per il Cremlino continua a rivelarsi strategica. Per questo, l’Italia dovrebbe esortare a un rilancio urgente del fianco meridionale della Nato. E assumervi un ruolo di leadership. Innanzitutto Mosca ha reso noto di essere quasi pronta a riaprire la propria ambasciata nel Paese. “La (nostra) ambasciata riaprirà in un prossimo futuro in Libia... conoscerete la nomina dell’ambasciatore. Ora bisogna risolvere problemi organizzativi, al momento non c'è un posto dove lavorare, momentaneamente, magari lavoreranno i nostri colleghi in qualche albergo”, ha dichiarato lunedì della settimana scorsa il viceministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov. In tutto questo, sempre la settimana scorsa, è stato annunciato che il presidente della Camera dei rappresentanti con sede a Tobruk, Aguila Saleh, sarebbe in procinto di effettuare un viaggio in Russia. Secondo Libya Observer, Saleh punterebbe a “presentare la sua iniziativa politica, che include la modifica dell'autorità esecutiva, creando un nuovo consiglio presidenziale guidato da lui e un governo modificato, guidato da Dbeibah”. Ma non è finita qui. La settimana scorsa, è infatti tornato a parlare anche il generale Khalifa Haftar: figura storicamente spalleggiata dal Cremlino. “Non c'è altra scelta che la rivolta e la rivoluzione del popolo contro la miserabile realtà del Paese”, ha tuonato, criticando sia la Camera dei rappresentanti sia il governo di unità nazionale. “Il popolo non ha altra scelta che assumersi la responsabilità di sé stesso, senza rappresentanti, per ottenere il cambiamento desiderato”, ha aggiunto. “La battaglia per costruire lo stato deve essere combattuta dal popolo con la cooperazione dell'esercito, pacificamente e contro gli ipocriti e i corrotti”, ha proseguito. Ora, è difficile che queste parole così dure siano avvenute totalmente all’oscuro delle alte sfere di Mosca. Ricordiamo che la Russia continua a mantenere una significativa influenza sulla parte orientale della Libia attraverso i temibili mercenari del Wagner Group. In particolare, Vladimir Putin utilizza quest’area (anche) come trampolino di lancio per estendere la propria longa manus sul Sahel (pensiamo soprattutto al Mali). Resta comunque il fatto che l’Ovest libico continui a gravitare nell’orbita turca. Ora, è pur vero che negli ultimi mesi Putin e Recep Tayyip Erdogan hanno mostrato una relazione piuttosto solida. Non è però ancora chiaro in che modo i due intendano trovare un’eventuale quadra sul dossier libico. Soprattutto dopo che la Turchia ha recentemente prorogato di 18 mesi la propria presenza militare nel Paese nordafricano.La tensione intanto resta alta tra i due governi rivali, mentre l’Occidente sembra sempre più marginalizzato. Certo, venerdì scorso Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno respinto “qualsiasi uso della violenza” in Libia e ribadito il loro “pieno sostegno alla mediazione delle Nazioni Unite” per consentire elezioni in tutto il Paese “nel più breve tempo possibile”. Tuttavia, è purtroppo evidente che l’Occidente ha al momento un margine di manovra piuttosto limitato in loco. Per questo l’Italia dovrebbe urgentemente esortare la Casa Bianca a rilanciare il fianco meridionale della Nato, mettendo in evidenza le ambiguità filorusse di Francia e Turchia.
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Era inoltre il 22 dicembre, quando il Times of Israel ha riferito che «Israele ha avvertito l'amministrazione Trump che il corpo delle Guardie della rivoluzione Islamica dell'Iran potrebbe utilizzare un'esercitazione militare in corso incentrata sui missili come copertura per lanciare un attacco contro Israele». «Le probabilità di un attacco iraniano sono inferiori al 50%, ma nessuno è disposto a correre il rischio e a dire che si tratta solo di un'esercitazione», ha in tal senso affermato ad Axios un funzionario di Gerusalemme.
Tutto questo, mentre il 17 dicembre il direttore del Mossad, David Barnea, aveva dichiarato che lo Stato ebraico deve «garantire» che Teheran non si doti dell’arma atomica. «L'idea di continuare a sviluppare una bomba nucleare batte ancora nei loro cuori. Abbiamo la responsabilità di garantire che il progetto nucleare, gravemente danneggiato, in stretta collaborazione con gli americani, non venga mai attivato», aveva detto.
Insomma, la tensione tra Gerusalemme e Teheran sta tornando a salire. Ricordiamo che, lo scorso giugno, le due capitali avevano combattuto la «guerra dei dodici giorni»: guerra, nel cui ambito gli Stati Uniti avevano colpito tre siti nucleari iraniani, per poi mediare un cessate il fuoco con l’aiuto del Qatar. Non dimentichiamo inoltre che Trump punta a negoziare un nuovo accordo sul nucleare di Teheran con l’obiettivo di scongiurare l’eventualità che gli ayatollah possano conseguire l’arma atomica. Uno scenario, quest’ultimo, assai temuto tanto dagli israeliani quanto dai sauditi.
Il punto è che le rinnovate tensioni tra Israele e Teheran si stanno verificando in una fase di fibrillazione tra lo Stato ebraico e la Casa Bianca. Trump è rimasto irritato a causa del recente attacco militare di Gerusalemme a Gaza, mentre Netanyahu non vede di buon occhio la possibile vendita di caccia F-35 al governo di Doha. Bisognerà quindi vedere se, nei prossimi giorni, il dossier iraniano riavvicinerà o meno il presidente americano e il premier israeliano.
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Il Comune fiorentino sposa l’appello del Maestro per riportare a casa le spoglie di Cherubini e cambiare nome al Teatro del Maggio, in onore di Vittorio Gui. Partecipano al dibattito il direttore del Conservatorio, Pucciarmati, e il violinista Rimonda.
Muwaffaq Tarif, lo sceicco leader religioso della comunità drusa israeliana
Il gruppo numericamente più importante è in Siria, dove si stima che vivano circa 700.000 drusi, soprattutto nel Governatorato di Suwayda e nei sobborghi meridionali della capitale Damasco. In Libano rappresentano il 5% del totale degli abitanti e per una consolidata consuetudine del Paese dei Cedri uno dei comandanti delle forze dell’ordine è di etnia drusa. In Giordania sono soltanto 20.000 su una popolazione di 11 milioni, ma l’attuale vice-primo ministro e ministro degli Esteri Ayman Safadi è un druso. In Israele sono membri attivi della società e combattono nelle Forze di difesa israeliane (Idf) in una brigata drusa. Sono circa 150.000 distribuiti nel nNord di Israele fra la Galilea e le Alture del Golan, ma abitano anche in alcuni quartieri di Tel Aviv.
Lo sceicco Muwaffaq Tarif è il leader religioso della comunità drusa israeliana e la sua famiglia guida la comunità dal 1753, sotto il dominio ottomano. Muwaffaq Tarif ha ereditato il ruolo di guida spirituale alla morte del nonno Amin Tarif, una figura fondamentale per i drusi tanto che la sua tomba è meta di pellegrinaggio.
Sceicco quali sono i rapporti con le comunità druse sparpagliate in tutto il Medio Oriente?
«Siamo fratelli nella fede e nell’ideale, ci unisce qualcosa di profondo e radicato che nessuno potrà mai scalfire. Viviamo in nazioni diverse ed anche con modalità di vita differenti, ma restiamo drusi e questo influisce su ogni nostra scelta. Nella storia recente non sempre siamo stati tutti d’accordo, ma resta il rispetto. Per noi è fondamentale che passi il concetto che non abbiamo nessuna rivendicazione territoriale o secessionista, nessuno vuole creare una “nazione drusa”, non siamo come i curdi, noi siamo cittadini delle nazioni in cui viviamo, siamo israeliani, siriani, libanesi e giordani».
I drusi israeliani combattono nell’esercito di Tel Aviv, mentre importanti leader libanesi come Walid Jumblatt si sono sempre schierati dalla parte dei palestinesi.
«Walid Jumblatt è un politico che vuole soltanto accumulare ricchezze e potere e non fare il bene della sua gente. Durante la guerra civile libanese è stato fra quelli che appoggiavano Assad e la Siria che voleva annettere il Libano e quindi ogni sua mossa mira soltanto ad accrescere la sua posizione. Fu mio nonno ha decidere che il nostro rapporto con Israele doveva essere totale e noi siamo fedeli e rispettosi. La fratellanza con le altre comunità non ci impone un pensiero unico e quindi c’è molta libertà, anche politica nelle nostre scelte».
In Siria c’è un nuovo governo, un gruppo di ex qaedisti che hanno rovesciato Assad in 11 giorni e che adesso si stanno presentando al mondo come moderati. Nei mesi scorsi però i drusi siriani sono stati pesantemente attaccati dalle tribù beduine e Israele ha reagito militarmente per difendere la sua comunità.
«Israele è l’unica nazione che si è mossa per aiutare i drusi siriani massacrati. Oltre 2000 morti, stupri ed incendi hanno insanguinato la provincia di Suwayda, tutto nell’indifferenza della comunità internazionale. Il governo di Damasco è un regime islamista e violento che vuole distruggere tutte le minoranze, prima gli Alawiti ed adesso i drusi. Utilizzano le milizie beduine, ma sono loro ad armarle e permettergli di uccidere senza pietà gente pacifica. Siamo felici che l’aviazione di Tel Aviv sia intervenuta per fermare il genocidio dei drusi, volevamo intervenire personalmente in sostegno ai fratelli siriani, ma il governo israeliano ha chiuso la frontiera. Al Shara è un assassino sanguinario che ci considera degli infedeli da eliminare, non bisogna credere a ciò che racconta all’estero. La Siria è una nazione importante ed in tanti vogliono destabilizzarla per colpire tutto il Medio Oriente. Siamo gente semplice e povera, ma voglio comunque fare un appello al presidente statunitense Donald Trump di non credere alle bugie dei tagliagole di Damasco e di proteggere i drusi della Siria».
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