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2022-02-13
«Atari»: le origini del videogame e la storia degli Italiani che cercarono di imitarla
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Atari 2600 (Getty Images)
Nata nel 1972 in California, per la generazione cresciuta tra gli anni Settanta e Ottanta, la parola Atari è stata sinonimo di videogame. Ed in particolare fu il brand pioniere di quello che oggi di fatto rappresenta la totalità del mercato dei giochi elettronici, la console.
Atari nacque da una startup dall’impronunciabile nome «Syzygy» fondata nel 1971 da Nolan Bushnell e Ted Dabney. Presto il nome originario fu cambiato con il più semplice Atari, una parola derivata dal gioco tradizionale cinese «Go», una sorta di dichiarazione di scacco matto che in italiano suona come «sto per vincere!». Ad iniziare l’avventura nel mondo dei videogiochi fu il talento di Dabney che aveva progettato un programma di animazione sullo schermo televisivo chiamato «Slow motion circuit» per cui un punto (dot) era in grado di muoversi in quattro direzioni controllato da remoto senza la necessità di ricorrere ad unità di memoria gigantesche come le unità di calcolo degli anni Sessanta. L’utilizzo di schede di piccole dimensioni fu alla base di quelli che negli anni Settanta diventeranno i giochi «Arcade», ossia quelli diffusi nei bar e nelle sale giochi, evoluzione degli apparecchi elettromeccanici del decennio precedente e dei flipper. Atari con l’aiuto del tecnico Alan Allcorn, andò oltre, portando il videogioco nelle case. Fu questa la storia dell’archetipo «Pong» del 1972, un simulatore di tennis da tavolo bidimensionale in bianco e nero inizialmente progettata per le sale giochi. In questi anni pionieristici in Atari transitarono anche Steve Jobs e Steve Wozniak, i futuri fondatori di Apple.
La storia del primo videogioco pensato per un’utenza popolare segnò la storia di Atari, in quanto la Magnavox fece causa alla newco californiana in quanto la prima sosteneva di aver depositato il brevetto di un videogioco molto simile chiamato «Table tennis». In quegli anni, in mancanza di qualunque regolamentazione in materia di copyright di un settore agli albori il mercato era caratterizzato dalla diffusione rapida di cloni del tutto simili all’originale. Fu per questa situazione che i vertici della piccola Atari decisero di non proseguire l’iter giudiziario per i costi conseguenti. Piuttosto, e questa sarà la strada giusta, fu scelto di concentrare lavoro e denaro sullo sviluppo di nuovi giochi lasciando ad altri il futuro della pallina tra le due asticelle. Nel 1973 nascono i primi tre titoli che riscuoteranno un discreto successo: «Space race», «Tank» e «Gotcha». Il primo era la sfida tra due razzi che dovevano attraversare un cielo ingombro di meteoriti-pixel in movimento, basato ancora su una grafica simile a quella di Pong. «Tank» era un gioco «arcade» in cui in un labirinto si muovevano due carri armati comandati dai rispettivi giocatori che dovevano riuscire a colpirsi a vicenda evitando i campi minati. Infine «Gotcha», altra creatura di Alan Allcorn, si svolgeva anch’esso in un labirinto in cui un quadrato e una croce si inseguivano con effetti sonori in crescendo e le pareti del labirinto in grado di cambiare disposizione.
La vera svolta per Atari fu nel 1976 quando Nolan Bushnell decide di vendere il marchio a Warner Communications per l’astronomica cifra di 28 milioni di dollari. L’ingresso del colosso dell’entertainment significò la diffusione del brand a livello globale. L’anno successivo, il 1977, vedrà la nascita della prima vera console a marchio Atari, la VCS (poi sviluppata e meglio conosciuta come Atari 2600). Il prodotto era rivoluzionario in quanto, a differenza del «preistorico» Pong, dava la possibilità di caricare diversi giochi per mezzo di cartucce all’interno delle quali era presente la ROM (Read Only Memory). La 2600 era per la prima volta dotata di joystick di concezione moderna. La console era dotata di processore Motorola serie 6507 8-bit e 128 bytes di RAM. Stupefacente per l’epoca era la palette da 128 colori, che esaltava le potenzialità dei primissimi tv-color. La fortuna della 2600 fu determinata da alcuni titoli di fama mondiale per cui l’azienda della Warner ottenne la licenza: il blockbuster «Space invaders» e il famoso «Asteroids» sui quali i programmatori Atari fecero miracoli per adattare le ROM originali alla limitatissima potenza della consolle. Se le vendite della 2600 si impennarono tra il 1977 e il 1980 fu proprio grazie a quei titoli, tenendo conto che l’apparecchio non era proprio per tutte le tasche in quanto venduto a 199 dollari, equivalente di circa 700 dollari odierni. Il fattore che determinò un declino inaspettato della prima console negli anni Ottanta fu la gestione interna alla Atari, che si rivelò fatale per il futuro del marchio pioniere. La Warner era un colosso e gestì i geniali programmatori nel modo più sbagliato, non creditandoli nei titoli dei giochi, nascondendo così il loro talento. Anche gli stipendi furono mantenuti ad un livello ben inferiore se comparato al successo globale della 2600. Ne derivò che molti di loro lasciarono Atari per fondare altre startup che si riveleranno fatali nel regime di concorrenza senza regole né big player come al giorno d’oggi. Dall’esodo dei programmatori nasceranno infatti i principali concorrenti come Activision, Coleco e poi Intellivision i quali eroderanno progressivamente importanti quote di mercato all’inventore della console. Nonostante gli aggiornamenti costanti nel corso degli anni Ottanta, la Atari perse prestigio anche per una serie di fattori concomitanti che la resero poco competitiva nei confronti delle neonate concorrenti. Fatale fu un errore di adattamento del gioco più famoso del mondo, «Pac-Man», del quale Atari aveva ottenuto i diritti. La versione per la 2600 era a dir poco deludente sia nella grafica che nella modalità di gioco rispetto all’originale «arcade», mentre le concorrenti principali iniziavano a proporre giochi originali che cominciavano a farsi strada. Il colpo finale, accompagnato da un «giallo» si verificò nel 1982 al lancio di un titolo legato al film dell’anno: «E.T. l’extraterrestre». Sicuri del successo al traino della pellicola cult, i vertici della Warner decisero di stampare milioni di cartucce del gioco, ben oltre le proiezioni di mercato della possibile domanda. Il videogioco fu programmato in una corsa contro il tempo per uscire a ridosso del film e il risultato fu a dir poco deludente, con l’aggravante che la licenza di E.T costò alla Warner la cifra astronomica di 20 milioni di dollari. Il programmatore Atari Howard Scott Warshaw, investito di una responsabilità così grande, volle strafare e sbagliò. Ma tornare indietro era impossibile perché il battage pubblicitario era già partito dopo importanti investimenti, così il gioco fu prodotto così com’era stato concepito. La ricezione fu gelida perché E.T. era macchinoso e noioso, la grafica elementare e il gameplay lento e inconcludente. Oltre alle vendite sotto le aspettative, moltissimi furono gli acquirenti che richiesero un rimborso al produttore sul quale si profilava l’ombra della crisi. Questa situazione generò quello che negli anni a seguire diventerà un «mistero» legato all’insuccesso del gioco del 1982: per anni girò la voce che centinaia di migliaia di cartucce di E.T. fossero state seppellite di nascosto in un’area deserta nel New Mexico in quanto ormai invendibili. Quella che per anni fu letta come una leggenda metropolitana diventò una verità nel 2014 quando in occasione di un documentario sulla storia di Atari furono commissionati scavi professionali. Poco dopo l’inizio dei lavori emersero migliaia di cartucce di E.T. e di altri giochi provenienti dai magazzini Atari di El Paso, Texas, che diventarono presto oggetti desiderati dai collezionisti mondiali di videogiochi vintage. Caso volle che il luogo della sepoltura si trovasse ad Almogordo, una cittadina vicino a Roswell, il famoso luogo della leggenda del ritrovamento del corpo di un extraterrestre.
Dopo la crisi incontrastabile della metà degli anni Ottanta, Warner vendette le quote Atari al fondatore della Commodore, che fu protagonista dei videogiochi su pc della seconda metà del decennio. Sotto la guida di Jack Tramiel la azienda che inventò la console fu traghettata nel mondo dei personal computer per declinare definitivamente all’inizio degli anni Novanta, quando i giapponesi invasero il mercato mondiale con le rivoluzionarie console Nintendo e Sony. Bisognerà attendere il 2001 prima di rivedere una console americana tra i big del mercato, la Xbox di Microsoft.
Gli italiani scoprono un mercato fatto di pixel. Dagli anni Settanta all'esordio della Playstation
Il fenomeno dei giochi elettronici da bar, o «arcade» investì l’Italia a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Fino ad allora i videogiochi elettronici erano per lo più sconosciuti al grande pubblico. Le sale giochi italiane ed i locali pubblici erano ancora dominati dai flipper e in qualche caso da giochi elettromeccanici, che azionavano oggetti reali tramite impulsi elettrici e bracci articolati. l’eco proveniente da oltreoceano dei primissimi videogame era giunto in Europa, ancora vergine in quanto ad aziende specializzate nella programmazione e distribuzione dei giochi elettronici. I primi ad avere la spinta verso un’avventura in quel campo inesplorato furono per la maggior parte dei casi italiani distributori di flipper o gestori di locali pubblici dove questi erano presenti sin dal decennio precedente. Quest’ultimo caso riguarda quella che forse fu la più importante azienda di videogame italiana, la Zaccaria di Bologna. Marino Zaccaria era titolare di un bar molto frequentato nei pressi dell’aeroporto cittadino, nel quale già dal 1958 aveva fatto il suo ingresso il primo flipper. Colpito dal successo di quel gioco lampeggiante di luci multicolori, il titolare coinvolse i fratelli Franco e Natale nel fruttifero business del noleggio e dell’assistenza dei flipper, che in seguito comprenderà anche la produzione in loco delle macchine, la prima delle quali fu lanciata sul mercato nel 1973, animata da schede made in Usa e disegnata da un creativo ufficio stile. La produzione di flipper durò circa un decennio, poi declinò di fronte all’invasione dei videogame che fecero sparire gradualmente le macchine con le palline di acciaio. Gli Zaccaria avevano solo un’alternativa per evitare di chiudere i battenti in tempi brevi: mettersi a progettare videogiochi, e in fretta. In meno di due anni il primo gioco interamente programmato da Zaccaria fu lanciato sul mercato italiano. Quasar era un videogame ad ambientazione spaziale semplice ma giocabile e ben progettato, tanto che fu persino esportato negli Stati Uniti dalla Us Billiards ed ebbe un discreto successo oltreoceano. Al successo di Quasar faranno seguito altri videogiochi originali di buona fattura e giocabilità come «Jack Rabbit» e «Money Money». L’azienda cambierà nome nel 1988 in «Mr.Game» cessando la produzione dopo aver raggiunto il nono posto al mondo.
Un caso interessante che riguarda i primordi del videogioco italiano ebbe origine a Napoli da un noleggiatore di flipper, Bruno de Georgio. Come nel caso della Zaccaria, anche la ditta partenopea si buttò nell’avventura della programmazione dei giochi da bar a causa del declino inesorabile della macchina a palline elettromeccanica. La Midcoin, così fu battezzata la società, progettò nel 1978 un clone di «Space Invaders» della Taito italianizzato in «Invasione» con tanto di produzione di cabinati personalizzati. Nei primi anni Ottanta, il periodo di massima deregulation del mercato italiano del videogioco attraverso la rielaborazione di schede provenienti da Stati Uniti e Giappone, La Midcoin trovò il proprio angolo di mercato con la trasformazione di schede di origine Konami ed in particolare dello «sparatutto» Scramble, un successo globale. Nacque su questa base uno dei videogame meglio riusciti della ditta partenopea, «Anno Domini 2083», basato sul gioco Konami «Time pilot» e già dotato di sintesi vocale, mentre nel 1984 sarà la volta di «Spider Web», progettato interamente dallo staff Midcoin dove il giocatore muoveva attraverso una ragnatela infestata di ragni-nemici un piccolo operaio che assomigliava ad un Super Mario ante litteram. Dopo una produzione di quattro titoli, la Midcoin ha chiuso i battenti verso la fine degli anni Ottanta e De Georgio si è dedicato ad altre attività sull’isola di Ischia.
A Torino, sempre negli stessi anni, si consumò invece la prima azione legale internazionale in materia di copyright sui giochi arcade. La Sidam, fondata nel capoluogo piemontese, basò il proprio catalogo su cloni della Atari a partire dal 1978. L’atto di pirateria era molto evidente anche nella denominazione dei giochi (Asterock per Asteroid e Missile Attack per Missile Combat ). Il plagio spinse il distributore esclusivo di Atari in Italia, la Bertolino (sempre di Torino) a sporgere querela. Non essendo regolamentato il campo dei giochi elettronici, il Tribunale di Torino accolse l’istanza dell’accusa paragonando la proprietà intellettuale dei videogames Atari a quella delle opere cinematografiche, dando ragione alla Bertolino e ponendo fine all’attività di programmazione da parte della concittadina Sidam.
Un’ultima case history tutta italiana fu quella della Simulmondo, l’ultima importante avventura italiana prima dell’avvento dei colossi internazionali del videogame. Bolognese come la Zaccaria, fu fondata nel 1988 quando in Italia già spopolavano i personal computer Commodore 64 e Spectrum ZX. La azienda di Francesco Carlà si concentrò inizialmente sui primi giochi di simulazione come «Bocce» per Commodore e «Formula 1 manager» del 1989 al quale seguì un buon simulatore a tema automobilistico, «1000 Miglia», la cui colonna sonora citava la canzone di Lucio Dalla «Nuvolari». Ma la punta di diamante della Simulmondo fu un gioco di simulazione a tema calcistico, «I Play 3D soccer» uscito nel 1991 per Commodore e Amiga. Il videogioco italiano fu pioniere degli attuali giochi di simulazione calcistica in quanto era il primo ad avere una visuale tridimensionale dal campo di gioco, dove il giocatore comandava un calciatore in soggettiva per tutta la durata della partita. La Simulmondo fu anche tra le prime aziende di programmazione a proporre una versione videoludica ispirata ai fumetti, in questo caso a «Dylan Dog», best seller dei primi anni Novanta nato dalla penna di Tiziano Sclavi. Il simulatore, con una grafica per l’epoca avanzata, si basava sul racconto del 1987 «gli uccisori» e fu momentaneamente un buon successo in Italia, ma il tentativo di esportazione oltreoceano non diede i risultati sperati perché il personaggio delle strisce horror era pressoché sconosciuto. Il 1994 fu un anno cruciale nella storia dei giochi per console, perché nacque la Sony Playstation che stravolse completamente il mercato, generando il rapido declino di9 Commodore, Amiga e simili. Tutta un’altra storia e un’altra tecnologia basata sul cd-rom. Quel tipo di console e i software dedicati implicavano grandi investimenti e una forte concentrazione di risorse in termini di programmatori e sviluppatori. Impossibile tenere il passo per le piccole, pur coraggiose, aziende italiane.
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Cinquant'anni fa nasceva il brand che divenne sinonimo di videogame e che lanciò la prima console: l'ascesa e il declino. In Italia nacquero aziende che, tra genio e pirateria, si buttarono sul mercato. Con risultati a volte sorprendenti. Nata nel 1972 in California, per la generazione cresciuta tra gli anni Settanta e Ottanta, la parola Atari è stata sinonimo di videogame. Ed in particolare fu il brand pioniere di quello che oggi di fatto rappresenta la totalità del mercato dei giochi elettronici, la console. Atari nacque da una startup dall’impronunciabile nome «Syzygy» fondata nel 1971 da Nolan Bushnell e Ted Dabney. Presto il nome originario fu cambiato con il più semplice Atari, una parola derivata dal gioco tradizionale cinese «Go», una sorta di dichiarazione di scacco matto che in italiano suona come «sto per vincere!». Ad iniziare l’avventura nel mondo dei videogiochi fu il talento di Dabney che aveva progettato un programma di animazione sullo schermo televisivo chiamato «Slow motion circuit» per cui un punto (dot) era in grado di muoversi in quattro direzioni controllato da remoto senza la necessità di ricorrere ad unità di memoria gigantesche come le unità di calcolo degli anni Sessanta. L’utilizzo di schede di piccole dimensioni fu alla base di quelli che negli anni Settanta diventeranno i giochi «Arcade», ossia quelli diffusi nei bar e nelle sale giochi, evoluzione degli apparecchi elettromeccanici del decennio precedente e dei flipper. Atari con l’aiuto del tecnico Alan Allcorn, andò oltre, portando il videogioco nelle case. Fu questa la storia dell’archetipo «Pong» del 1972, un simulatore di tennis da tavolo bidimensionale in bianco e nero inizialmente progettata per le sale giochi. In questi anni pionieristici in Atari transitarono anche Steve Jobs e Steve Wozniak, i futuri fondatori di Apple. La storia del primo videogioco pensato per un’utenza popolare segnò la storia di Atari, in quanto la Magnavox fece causa alla newco californiana in quanto la prima sosteneva di aver depositato il brevetto di un videogioco molto simile chiamato «Table tennis». In quegli anni, in mancanza di qualunque regolamentazione in materia di copyright di un settore agli albori il mercato era caratterizzato dalla diffusione rapida di cloni del tutto simili all’originale. Fu per questa situazione che i vertici della piccola Atari decisero di non proseguire l’iter giudiziario per i costi conseguenti. Piuttosto, e questa sarà la strada giusta, fu scelto di concentrare lavoro e denaro sullo sviluppo di nuovi giochi lasciando ad altri il futuro della pallina tra le due asticelle. Nel 1973 nascono i primi tre titoli che riscuoteranno un discreto successo: «Space race», «Tank» e «Gotcha». Il primo era la sfida tra due razzi che dovevano attraversare un cielo ingombro di meteoriti-pixel in movimento, basato ancora su una grafica simile a quella di Pong. «Tank» era un gioco «arcade» in cui in un labirinto si muovevano due carri armati comandati dai rispettivi giocatori che dovevano riuscire a colpirsi a vicenda evitando i campi minati. Infine «Gotcha», altra creatura di Alan Allcorn, si svolgeva anch’esso in un labirinto in cui un quadrato e una croce si inseguivano con effetti sonori in crescendo e le pareti del labirinto in grado di cambiare disposizione. La vera svolta per Atari fu nel 1976 quando Nolan Bushnell decide di vendere il marchio a Warner Communications per l’astronomica cifra di 28 milioni di dollari. L’ingresso del colosso dell’entertainment significò la diffusione del brand a livello globale. L’anno successivo, il 1977, vedrà la nascita della prima vera console a marchio Atari, la VCS (poi sviluppata e meglio conosciuta come Atari 2600). Il prodotto era rivoluzionario in quanto, a differenza del «preistorico» Pong, dava la possibilità di caricare diversi giochi per mezzo di cartucce all’interno delle quali era presente la ROM (Read Only Memory). La 2600 era per la prima volta dotata di joystick di concezione moderna. La console era dotata di processore Motorola serie 6507 8-bit e 128 bytes di RAM. Stupefacente per l’epoca era la palette da 128 colori, che esaltava le potenzialità dei primissimi tv-color. La fortuna della 2600 fu determinata da alcuni titoli di fama mondiale per cui l’azienda della Warner ottenne la licenza: il blockbuster «Space invaders» e il famoso «Asteroids» sui quali i programmatori Atari fecero miracoli per adattare le ROM originali alla limitatissima potenza della consolle. Se le vendite della 2600 si impennarono tra il 1977 e il 1980 fu proprio grazie a quei titoli, tenendo conto che l’apparecchio non era proprio per tutte le tasche in quanto venduto a 199 dollari, equivalente di circa 700 dollari odierni. Il fattore che determinò un declino inaspettato della prima console negli anni Ottanta fu la gestione interna alla Atari, che si rivelò fatale per il futuro del marchio pioniere. La Warner era un colosso e gestì i geniali programmatori nel modo più sbagliato, non creditandoli nei titoli dei giochi, nascondendo così il loro talento. Anche gli stipendi furono mantenuti ad un livello ben inferiore se comparato al successo globale della 2600. Ne derivò che molti di loro lasciarono Atari per fondare altre startup che si riveleranno fatali nel regime di concorrenza senza regole né big player come al giorno d’oggi. Dall’esodo dei programmatori nasceranno infatti i principali concorrenti come Activision, Coleco e poi Intellivision i quali eroderanno progressivamente importanti quote di mercato all’inventore della console. Nonostante gli aggiornamenti costanti nel corso degli anni Ottanta, la Atari perse prestigio anche per una serie di fattori concomitanti che la resero poco competitiva nei confronti delle neonate concorrenti. Fatale fu un errore di adattamento del gioco più famoso del mondo, «Pac-Man», del quale Atari aveva ottenuto i diritti. La versione per la 2600 era a dir poco deludente sia nella grafica che nella modalità di gioco rispetto all’originale «arcade», mentre le concorrenti principali iniziavano a proporre giochi originali che cominciavano a farsi strada. Il colpo finale, accompagnato da un «giallo» si verificò nel 1982 al lancio di un titolo legato al film dell’anno: «E.T. l’extraterrestre». Sicuri del successo al traino della pellicola cult, i vertici della Warner decisero di stampare milioni di cartucce del gioco, ben oltre le proiezioni di mercato della possibile domanda. Il videogioco fu programmato in una corsa contro il tempo per uscire a ridosso del film e il risultato fu a dir poco deludente, con l’aggravante che la licenza di E.T costò alla Warner la cifra astronomica di 20 milioni di dollari. Il programmatore Atari Howard Scott Warshaw, investito di una responsabilità così grande, volle strafare e sbagliò. Ma tornare indietro era impossibile perché il battage pubblicitario era già partito dopo importanti investimenti, così il gioco fu prodotto così com’era stato concepito. La ricezione fu gelida perché E.T. era macchinoso e noioso, la grafica elementare e il gameplay lento e inconcludente. Oltre alle vendite sotto le aspettative, moltissimi furono gli acquirenti che richiesero un rimborso al produttore sul quale si profilava l’ombra della crisi. Questa situazione generò quello che negli anni a seguire diventerà un «mistero» legato all’insuccesso del gioco del 1982: per anni girò la voce che centinaia di migliaia di cartucce di E.T. fossero state seppellite di nascosto in un’area deserta nel New Mexico in quanto ormai invendibili. Quella che per anni fu letta come una leggenda metropolitana diventò una verità nel 2014 quando in occasione di un documentario sulla storia di Atari furono commissionati scavi professionali. Poco dopo l’inizio dei lavori emersero migliaia di cartucce di E.T. e di altri giochi provenienti dai magazzini Atari di El Paso, Texas, che diventarono presto oggetti desiderati dai collezionisti mondiali di videogiochi vintage. Caso volle che il luogo della sepoltura si trovasse ad Almogordo, una cittadina vicino a Roswell, il famoso luogo della leggenda del ritrovamento del corpo di un extraterrestre. Dopo la crisi incontrastabile della metà degli anni Ottanta, Warner vendette le quote Atari al fondatore della Commodore, che fu protagonista dei videogiochi su pc della seconda metà del decennio. Sotto la guida di Jack Tramiel la azienda che inventò la console fu traghettata nel mondo dei personal computer per declinare definitivamente all’inizio degli anni Novanta, quando i giapponesi invasero il mercato mondiale con le rivoluzionarie console Nintendo e Sony. Bisognerà attendere il 2001 prima di rivedere una console americana tra i big del mercato, la Xbox di Microsoft. Gli italiani scoprono un mercato fatto di pixel. Dagli anni Settanta all'esordio della Playstation Il fenomeno dei giochi elettronici da bar, o «arcade» investì l’Italia a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Fino ad allora i videogiochi elettronici erano per lo più sconosciuti al grande pubblico. Le sale giochi italiane ed i locali pubblici erano ancora dominati dai flipper e in qualche caso da giochi elettromeccanici, che azionavano oggetti reali tramite impulsi elettrici e bracci articolati. l’eco proveniente da oltreoceano dei primissimi videogame era giunto in Europa, ancora vergine in quanto ad aziende specializzate nella programmazione e distribuzione dei giochi elettronici. I primi ad avere la spinta verso un’avventura in quel campo inesplorato furono per la maggior parte dei casi italiani distributori di flipper o gestori di locali pubblici dove questi erano presenti sin dal decennio precedente. Quest’ultimo caso riguarda quella che forse fu la più importante azienda di videogame italiana, la Zaccaria di Bologna. Marino Zaccaria era titolare di un bar molto frequentato nei pressi dell’aeroporto cittadino, nel quale già dal 1958 aveva fatto il suo ingresso il primo flipper. Colpito dal successo di quel gioco lampeggiante di luci multicolori, il titolare coinvolse i fratelli Franco e Natale nel fruttifero business del noleggio e dell’assistenza dei flipper, che in seguito comprenderà anche la produzione in loco delle macchine, la prima delle quali fu lanciata sul mercato nel 1973, animata da schede made in Usa e disegnata da un creativo ufficio stile. La produzione di flipper durò circa un decennio, poi declinò di fronte all’invasione dei videogame che fecero sparire gradualmente le macchine con le palline di acciaio. Gli Zaccaria avevano solo un’alternativa per evitare di chiudere i battenti in tempi brevi: mettersi a progettare videogiochi, e in fretta. In meno di due anni il primo gioco interamente programmato da Zaccaria fu lanciato sul mercato italiano. Quasar era un videogame ad ambientazione spaziale semplice ma giocabile e ben progettato, tanto che fu persino esportato negli Stati Uniti dalla Us Billiards ed ebbe un discreto successo oltreoceano. Al successo di Quasar faranno seguito altri videogiochi originali di buona fattura e giocabilità come «Jack Rabbit» e «Money Money». L’azienda cambierà nome nel 1988 in «Mr.Game» cessando la produzione dopo aver raggiunto il nono posto al mondo. Un caso interessante che riguarda i primordi del videogioco italiano ebbe origine a Napoli da un noleggiatore di flipper, Bruno de Georgio. Come nel caso della Zaccaria, anche la ditta partenopea si buttò nell’avventura della programmazione dei giochi da bar a causa del declino inesorabile della macchina a palline elettromeccanica. La Midcoin, così fu battezzata la società, progettò nel 1978 un clone di «Space Invaders» della Taito italianizzato in «Invasione» con tanto di produzione di cabinati personalizzati. Nei primi anni Ottanta, il periodo di massima deregulation del mercato italiano del videogioco attraverso la rielaborazione di schede provenienti da Stati Uniti e Giappone, La Midcoin trovò il proprio angolo di mercato con la trasformazione di schede di origine Konami ed in particolare dello «sparatutto» Scramble, un successo globale. Nacque su questa base uno dei videogame meglio riusciti della ditta partenopea, «Anno Domini 2083», basato sul gioco Konami «Time pilot» e già dotato di sintesi vocale, mentre nel 1984 sarà la volta di «Spider Web», progettato interamente dallo staff Midcoin dove il giocatore muoveva attraverso una ragnatela infestata di ragni-nemici un piccolo operaio che assomigliava ad un Super Mario ante litteram. Dopo una produzione di quattro titoli, la Midcoin ha chiuso i battenti verso la fine degli anni Ottanta e De Georgio si è dedicato ad altre attività sull’isola di Ischia. A Torino, sempre negli stessi anni, si consumò invece la prima azione legale internazionale in materia di copyright sui giochi arcade. La Sidam, fondata nel capoluogo piemontese, basò il proprio catalogo su cloni della Atari a partire dal 1978. L’atto di pirateria era molto evidente anche nella denominazione dei giochi (Asterock per Asteroid e Missile Attack per Missile Combat ). Il plagio spinse il distributore esclusivo di Atari in Italia, la Bertolino (sempre di Torino) a sporgere querela. Non essendo regolamentato il campo dei giochi elettronici, il Tribunale di Torino accolse l’istanza dell’accusa paragonando la proprietà intellettuale dei videogames Atari a quella delle opere cinematografiche, dando ragione alla Bertolino e ponendo fine all’attività di programmazione da parte della concittadina Sidam. Un’ultima case history tutta italiana fu quella della Simulmondo, l’ultima importante avventura italiana prima dell’avvento dei colossi internazionali del videogame. Bolognese come la Zaccaria, fu fondata nel 1988 quando in Italia già spopolavano i personal computer Commodore 64 e Spectrum ZX. La azienda di Francesco Carlà si concentrò inizialmente sui primi giochi di simulazione come «Bocce» per Commodore e «Formula 1 manager» del 1989 al quale seguì un buon simulatore a tema automobilistico, «1000 Miglia», la cui colonna sonora citava la canzone di Lucio Dalla «Nuvolari». Ma la punta di diamante della Simulmondo fu un gioco di simulazione a tema calcistico, «I Play 3D soccer» uscito nel 1991 per Commodore e Amiga. Il videogioco italiano fu pioniere degli attuali giochi di simulazione calcistica in quanto era il primo ad avere una visuale tridimensionale dal campo di gioco, dove il giocatore comandava un calciatore in soggettiva per tutta la durata della partita. La Simulmondo fu anche tra le prime aziende di programmazione a proporre una versione videoludica ispirata ai fumetti, in questo caso a «Dylan Dog», best seller dei primi anni Novanta nato dalla penna di Tiziano Sclavi. Il simulatore, con una grafica per l’epoca avanzata, si basava sul racconto del 1987 «gli uccisori» e fu momentaneamente un buon successo in Italia, ma il tentativo di esportazione oltreoceano non diede i risultati sperati perché il personaggio delle strisce horror era pressoché sconosciuto. Il 1994 fu un anno cruciale nella storia dei giochi per console, perché nacque la Sony Playstation che stravolse completamente il mercato, generando il rapido declino di9 Commodore, Amiga e simili. Tutta un’altra storia e un’altra tecnologia basata sul cd-rom. Quel tipo di console e i software dedicati implicavano grandi investimenti e una forte concentrazione di risorse in termini di programmatori e sviluppatori. Impossibile tenere il passo per le piccole, pur coraggiose, aziende italiane.
Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
«Il discorso di Vance a Monaco e i numerosi tweet del presidente Trump sono diventati ufficialmente dottrina statunitense. E come tali, dobbiamo riconoscerlo e agire di conseguenza», riflette il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, nel suo intervento all’Institute Jacques Delors. «Cosa significa? Abbiamo bisogno di qualcosa di più di una semplice energia rinnovata. Dobbiamo lavorare insieme per costruire un’Europa che comprenda che i rapporti tra gli Alleati e le alleanze del secondo dopoguerra sono cambiati. Sappiamo già che Europa e Stati Uniti non condividono la stessa visione dell’ordine internazionale».
Costa, in buona sostanza, accusa Washington di non avere rispetto: «Gli alleati non minacciano l’interferenza nella vita politica. Nella vita politica interna di questi alleati, ci si rispetta, si rispetta la sovranità gli uni degli altri. Sicuramente molti europei non condividono la stessa visione degli americani su diversi temi ed è naturale che loro non condividano la nostra; quello che non possiamo accettare è questa la minaccia di interferenza nella vita politica dell’Europa». Quindi chiosa: «Gli Stati Uniti non possono sostituirsi ai cittadini europei per scegliere quali siano i partiti buoni e quelli cattivi. Gli Stati Uniti non possono sostituirsi all’Europa sulla visione che abbiamo della libertà di espressione, e su questo bisogna essere chiari», ha aggiunto. «La nostra storia ci ha insegnato che non esiste libertà di espressione senza libertà di informazione. E la libertà di informazione esiste solo quanto più c’è rispetto per il pluralismo. E così non esiste mai libertà di informazione se c’è il monopolio di una sola piattaforma. E non ci sarà libertà di espressione se la libertà di informazione dei cittadini viene sacrificata per difendere gli interessi degli oligarchi tecnologici degli Stati Uniti». Il riferimento è diretto a Elon Musk, che nelle ore precedenti aveva paragonato l’Unione europea al Terzo Reich su X.
Insomma, Costa non l’ha presa bene, ma non è il solo. Anche buona parte dei dem italiani sono sulla stessa lunghezza d’onda. Filippo Sensi , senatore del Pd, ha persino invocato una manifestazione su modello di quella che fu di Michele Serra. «Sarebbe ora, stavolta in Campidoglio per raggiungere il Colosseo illuminato dalla bandiera dell’Unione. Per dire dove siamo, chi siamo, per cosa vale la pena di combattere. Chi ci sta?». Anche la segretaria del Pd Elly Schlein coglie l’occasione. Più per attaccare il governo che per sventolare europeismo. «Questa convergenza nell’attacco all’Ue dimostra quanto sia reale il rischio che denunciamo da mesi. O l’Europa fa un salto in avanti di integrazione politica oppure rischia di essere schiacciata e messa al margine dalle grandi potenze che la circondano e che trovano un obiettivo comune nell’indebolirla. L’Europa sarà federale o non sarà» chiarisce convinta. Poi l’affondo al governo: «Non può far finta di nulla ammiccando in modo subalterno agli attacchi di Trump. La strategia di Putin e anche di Trump è evidente: dividerci, per renderci più vulnerabili singolarmente. E purtroppo trovano sponda in alcuni governi nazionalisti europei. Il governo Meloni non si presti a questo gioco e non si faccia utilizzare per andare contro anche agli stessi interessi dei cittadini italiani».
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Giulio Sapelli (Ansa)
Un cambiamento che resisterà anche una volta che Trump non ci sarà più?
«La classe dirigente americana è molto cambiata. Le trasformazioni sono iniziate negli anni Ottanta con la crescente influenza delle università francesi (con il pensiero decostruttivista di Derrida e Foucault) sull’élite universitaria nordamericana. Questo ha provocato una reazione culturale che ha colpito sia il fronte democratico che quello repubblicano. Tradizionalmente, si pensava che la scuola del multilateralismo fosse di matrice democratica. I “leostraussiani della costa atlantica”, seguaci di Leo Strauss, un importante pensatore critico di Machiavelli, sostenevano l’impetuosità e la necessità dell’intervento americano all’estero. Per motivi umanitari e per portare la libertà».
Era anche l’essenza della dottrina dei neocon…
«Esattamente. Il culmine l’abbiamo avuto con la scenetta di Powell».
La fialetta con le armi chimiche…
«Il tutto a giustificare l’intervento per motivi umanitari in Iraq nel 2003. Il “trumpismo” rappresenta la reazione di una parte dell’establishment americano a questo pensiero dominante. Nasce da un altro filone di pensiero che parte sempre da Leo Strauss, ma che impone agli Stati Uniti la ripresa di temi tradizionalisti originali, inclusa la dottrina Monroe, e dell’intervento per salvaguardare l’interesse americano».
Sempre all’interventismo americano si arriva.
«Come spiegato da Alfred Hirschman in International trade and national power, la politica commerciale è spesso un mezzo per espandere il potere. L’establishment è cambiato radicalmente perché si è creata una cultura di destra completamente nuova, diversa dalla destra classica. Non qualificabile affatto, come fa qualcuno senza basi, nella cultura fascista o nazionalista. È una destra di reazione alla cultura woke. Molti intellettuali americani rifiutano la negazione delle radici giudaico-cristiane dell’Occidente. E si oppongono all’immigrazione gestita dal mercato, vale a dire dai trafficanti di uomini. Nella storia, sempre, le immigrazioni sono state controllate dagli Stati».
C’è una nascita del cattolicesimo negli Stati Uniti secondo lei?
«Di sicuro vedo come il fenomeno woke sia figlio di un intreccio fra neoateismo, transumanesimo e antisemitismo. Questo connubio mi fa veramente paura, e le posizioni trumpiane non sono la cura per questa situazione. Il rischio è che la cura sia peggiore del male».
Venendo al documento National security strategy?
«Segna un ritorno all’importanza degli Stati nazionali. Un ritorno al trattato di Vestfalia, dove ogni Stato è libero di avere la sua religione. Tuttavia, Trump esprime queste idee in forma caricaturale, con cadute di stile come quando si schiera esplicitamente a favore dei partiti di destra. Una cosa che di solito si fa ma non si scrive. Almeno in un documento come quello. Ma è innegabile che vi siano implicazioni rilevanti sul futuro dell’Unione europea. Intanto non è riuscita a darsi una Costituzione. E non può esistere uno Stato contemporaneo senza una costituzione. Invece si è affidata a una “burocrazia celeste”. Personificata alla perfezione da una figura come Ursula von der Leyen, figlia del primo direttore generale dell’Ue».
Ma in Europa i partiti euroscettici non vogliono una Costituzione.
«Nessuna di queste forze politiche pone l’accento sulla necessità di avere una Costituzione europea. Come anche i mandarini. Ecco perché intravedo uno scenario molto negativo. Accanto al ritorno degli Stati nazionali vedo anche il fallimento storico della borghesia europea. Il dirigismo europeo in campo ambientale ha finito per privarla di ampi margini in termini di capacità di azione e proprietà privata. L’esempio dello stop al motore termico è emblematico. I borghesi proprietari delle industrie automobilistiche sono stati espropriati della facoltà di decidere come utilizzare la loro proprietà da un insieme di trattati e decisioni prese da un Parlamento eletto su base nazionale, il quale però si limita ad approvare regolamenti e direttive di una Commissione non eletta. Questo ha distrutto l’industria europea, rendendola sempre più dipendente dalla Cina e strutturalmente dipendente dal fallimento del modello tedesco, che si fondava sull’accordo bipartisan Merkel e Schröder con la Russia».
In questo momento l’Unione europea non ha una strategia di pacificazione del quadrante Ucraina, perché di fatto sembra quasi che stia per intestarsi una sconfitta, quella di Kiev, non supportando il tentativo.
«È paradossale come tutto sia capovolto. Ci si aspetterebbe che a invocare l’uso delle armi e il riarmo fossero le forze di destra tradizionale, invece sono le forze cosiddette democratiche filo Ue che rifiutano il piano americano. E che pensano si possa addirittura creare un esercito comune. Molti esponenti di quelle forze, in un dibattito pubblico al Senato anni fa, mi hanno vilipeso e bollato come “guerrafondaio” semplicemente perché a suo tempo mi ero opposto all’abolizione della leva. Che ora prima o poi ritornerà».
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Xi Jinping (Ansa)
I dati delle Dogane cinesi, pubblicati l’8 dicembre, spiegano tutto. A novembre l’export della Cina è balzato del 5,9%, l’import è salito dell’1,9%, e il surplus mensile ha raggiunto 111,68 miliardi di dollari. Nei primi undici mesi dell’anno il surplus ha superato i mille miliardi, con un aumento del 22,1% rispetto al 2024. Numeri che indicano una Cina ancora in grado di muoversi con agilità nelle rotte globali. Con gli Stati Uniti, però, la situazione è opposta. Le esportazioni verso il mercato americano sono crollate del 28,6% a 33,8 miliardi, lontane dai 47,3 miliardi dell’anno precedente. I dazi restano al 47,5% medio sui prodotti cinesi. Una barriera altissima. Inevitabile che le aziende cinesi devino le vendite verso altri mercati.
Ed è qui che scatta l’irritazione di Trump. L’Europa assorbe ciò che l’America respinge. Lo scorso mese il flusso verso l’Ue infatti è cresciuto del 14,8%, secondo quanto riporta la Reuters. Un trend già evidente nel 2024, quando le esportazioni cinesi verso l’Europa avevano superato i 516 miliardi di dollari. L’Europa diventa così la valvola di compensazione della Cina. Quella che permette a Pechino di mantenere attivo il motore dell’export anche mentre gli Stati Uniti montano barriere.
Per Trump questa dinamica non è un incidente collaterale. È un problema strategico. Lui vede la scena in termini di competizione commerciale globale. Se gli Stati Uniti chiudono il loro mercato a un concorrente, lo fanno per ridurre la capacità di quel concorrente di crescere. Ma se un altro grande mercato, come l’Europa, raccoglie tutto ciò che l’America respinge, l’effetto dei dazi si diluisce. Washington alza un muro. Bruxelles costruisce un ponte. Risultato: il traffico scorre, solo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.
È qui che si accende il Trump imprenditore. Nella sua visione, l’Europa si comporta come un «free rider commerciale»: beneficia del confronto tra Stati Uniti e Cina senza pagarne il costo politico. Acquista prodotti più economici, vede scendere i prezzi al consumo, non alza barriere, non si espone. In pratica, mantiene la Cina in piedi mentre gli Stati Uniti cercano di metterla alle corde. Da questa lettura derivano parte dei suoi attacchi sempre più duri verso Bruxelles. Non è un giudizio culturale sul Vecchio Continente. È una reazione da uomo di affari che vede i propri strumenti perdere potenza. E che percepisce l’Europa come un competitor passivo-aggressivo: non attacca, ma sottrae efficacia. Non sceglie il blocco americano, ma ne usa i risultati per garantirsi prezzi migliori. Il ragionamento di Trump si muove lungo due assi. Primo: la Cina va fermata. Secondo: nessun grande mercato deve aiutare Pechino a compensare il colpo. L’Europa lo sta facendo, anche se non dichiaratamente. Per questo, agli occhi di Trump, diventa un bersaglio. Non principale. Ma necessario. La pressione verso Bruxelles è un modo per riprendere il controllo del campo di gioco. Per chiudere anche la seconda uscita di sicurezza cinese. Per impedire che l’export deviato continui a trovare strade aperte.
Intanto la Cina procede. Il Politburo punta su più domanda interna, politiche fiscali attive e una monetaria accomodante. Ma la vera forza resta l’export. Le merci scorrono, cambiano rotta, si adattano. La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Ha ridisegnato le mappe. E nella nuova mappa l’Europa è il porto dove attraccano sempre più container cinesi. Trump, nel suo linguaggio pragmatico, vede esattamente questo. E reagisce. Perché per lui la partita non è ideologica. È una questione di affari. E in questa partita, la Cina resta l’avversario più importante.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Di recente, al coro di Trump e Musk si è unito uno che da molti è ritenuto il maggior banchiere al mondo, Jamie Dimon, secondo cui «l’Europa ha dei seri problemi. Ha scoraggiato le imprese, gli investimenti e l’innovazione». La preoccupazione principale di Dimon è che la lentezza della burocrazia e l’eccessiva regolamentazione abbiano soffocato la crescita, causando una riduzione della quota di Pil mondiale dell’Europa. Il banchiere sostiene che un mercato europeo snello e integrato sia essenziale per l’innovazione e la forza globale. Il punto è che un sondaggio di due realtà importanti come Ert e The Conference Board dà ragione a un «big» come Dimon. Stando a un sondaggio svolto tra il 16 e il 31 ottobre 2025 la fiducia degli amministratori delegati in Europa ha smesso di precipitare, ma resta in territorio negativo, mentre le motivazioni per investire nel continente continuano a diminuire rispetto agli Stati Uniti e ad altre aree del mondo.
La «Measure of Ceo Confidence for Europe» è a quota 44, dopo essere crollata a 27 nella primavera 2025 in concomitanza con le tensioni commerciali tra Ue e Usa. Il livello 50 rappresenta la neutralità: 44 implica che il sentiment è ancora chiaramente negativo. È la prima volta da quando esiste questa rilevazione che la fiducia dei ceo rimane sotto 50 per tre edizioni consecutive, segnalando un pessimismo che non è più solo ciclico.
Nello studio si sottolinea come il divario tra Europa e resto del mondo si stia ampliando. Le condizioni di business al di fuori del continente migliorano, mentre in Europa la traiettoria resta discendente, soprattutto per la debolezza delle prospettive di investimento e occupazione. In altri termini, il sondaggio registra un disallineamento crescente tra il potenziale percepito all’estero e quello disponibile nel mercato europeo.
Il punto più sensibile del report riguarda la geografia dei piani di investimento. Per l’Europa, solo una piccola quota di ceo intende investire più di quanto previsto sei mesi fa: appena l’8% dichiara di voler aumentare gli investimenti rispetto ai piani originari, mentre oltre un terzo ha ridotto i programmi o messo in pausa le decisioni in merito. Gli Stati Uniti, al contrario, registrano una dinamica opposta: il 45% dei ceo ha rivisto i propri piani per investire nel mercato americano più di quanto inizialmente previsto.
Il problema è che un anno fa, circa l’80% dei leader Ert esprimeva entusiasmo per le raccomandazioni di Mario Draghi sulla competitività europea, con l’idea che una loro piena implementazione avrebbe riportato gli investimenti verso l’Ue. Oggi la narrativa è capovolta: il 76% dei ceo afferma di aver visto poco o nessun impatto positivo dalle iniziative europee per tradurre in pratica le raccomandazioni Draghi e Letta su semplificazione regolatoria, completamento del mercato unico, politica di concorrenza e costo dell’energia.
All’interno dello studio, la Commissione europea ottiene un giudizio relativamente meno negativo: circa il 30% dei ceo riconosce progressi, ma il 60% si dichiara deluso. Il Parlamento europeo è percepito in modo ancora più critico, e i governi nazionali risultano i peggiori: il 74% dei ceo giudica «insufficiente» la performance degli Stati membri nel dare seguito alle raccomandazioni di Draghi e Letta. L’indagine insiste su un punto non banale: il tradizionale riflesso di imputare i ritardi a «Bruxelles» non regge più. Secondo i ceo, il collo di bottiglia principale è costituito dai governi nazionali riuniti in Consiglio, che rallentano o annacquano le riforme in nome di interessi domestici di breve periodo.
Viene, insomma, da sperare che le profezie del duo Trump-Musk non siano corrette. Secondo il presidente degli Stati Uniti, «nel giro di vent’anni l’Europa è destinata a sparire dalla scena», mentre per il miliardario ed ex vertice del Doge, il Dipartimento dell’efficienza governativa, creato durante il secondo mandato Trump, l’Unione europea «andrebbe smantellata, restituendo la piena sovranità ai singoli Stati, così che i governi tornino a rappresentare davvero i propri cittadini».
Musk ha messo nero su bianco queste posizioni in un post su X, pubblicato poche ore dopo la maximulta da 120 milioni di euro comminata da Bruxelles alla sua piattaforma per violazione del regolamento Ue che, da febbraio 2024, impone alle big tech nuovi obblighi di trasparenza e responsabilità sui contenuti. Si tratta della prima sanzione nell’ambito del Digital Services Act europeo. Inoltre, Musk ha fatto saltare l’intero pacchetto di spazi pubblicitari utilizzato dalla Commissione europea su X, accusandola di aver sfruttato in modo improprio una falla tecnica del sistema; subito dopo ha pubblicato un post in cui l’Unione europea veniva assimilata al «Quarto Reich», accompagnato da un fotomontaggio che affiancava la bandiera con le dodici stelle a una svastica.
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