2020-09-25
Arrestato l’attivista di Hong Kong. Ma il Vaticano non scarica la Cina
Joshua Wong (Vernon Yuen:NurPhoto via Getty Images)
Joshua Wong, leader delle proteste, è stato poi scarcerato. È accusato di aver manifestato illegalmente. Mentre Donald Trump spinge per la linea dura, Pietro Parolin parlerà a un evento sul «dialogo» con Xi Jinping.Joshua Wong, uno dei più noti attivisti di Hong Kong, è stato arrestato dalle autorità cinesi per essere poi rilasciato su cauzione dopo poche ore. L'accusa è quella di aver preso parte, indossando una maschera, a una «manifestazione illegale», tenutasi lo scorso ottobre, praticamente un anno fa. Non è la prima volta che il giovane esponente politico è finito agli arresti. Insomma, il governo cinese conferma la linea dura nei confronti degli attivisti pro democrazia. E lo fa in un momento geopolitico non poco turbolento. Sul piano internazionale, Pechino sta puntando molto sul rinnovo dell'accordo, siglato a settembre 2018, con la Santa sede: un patto che, salvo sorprese, dovrebbe essere riconfermato il mese prossimo. Nonostante le pressioni americane in senso contrario, le gerarchie vaticane non sembrano affatto intenzionate a compiere un passo indietro e lo stesso cardinal segretario di Stato, Pietro Parolin, ha espresso parole di apprezzamento per quell'intesa, di cui il capo della diplomazia vaticana parlerà - la settimana prossima - in un convegno organizzato dal Centro Pime dal titolo Un'altra Cina. Tempo di crisi, tempo di cambiamento. In particolare, terrà una prolusione sul tema «Il dialogo fra santa sede e Cina nel pontificato di papa Francesco».Un'intesa, ricordiamolo, di fatto difesa - pochi giorni fa - anche dal quotidiano Avvenire. Tramite la distensione con la Santa sede, la Repubblica popolare punta evidentemente a rafforzarsi sul piano diplomatico, accreditandosi soprattutto agli occhi di quei Paesi e di quegli ambienti che guardano al Dragone con estrema diffidenza (soprattutto in ragione del suo crescente autoritarismo interno). Del resto, a questa «operazione presentabilità» - cui si aggiunge la difesa degli accordi di Parigi sul clima e della stessa globalizzazione - la Cina continua ad affiancare una linea di condotta fortemente spregiudicata. Il presidente della commissione per gli Affari esteri della Camera dei Comuni, il deputato britannico Tom Tugendhat, ha dichiarato che Pechino starebbe orchestrando una campagna politica per abbattere la monarchia costituzionale e istituire la repubblica nelle Barbados (il cui capo di Stato - ricordiamolo - è attualmente Elisabetta II , la regina del Regno Unito). Quelle stesse Barbados che, per intenderci, hanno aderito l'anno scorso al progetto cinese della Nuova via della seta. In particolare, secondo Tugendhat, Pechino avrebbe fatto leva sul debito per incrementare la propria influenza politica nel piccolo Paese caraibico: una strategia che la Repubblica popolare ha già del resto mostrato di saper abilmente utilizzare soprattutto nel continente africano. Secondo l'American enterprise institute, Pechino - negli ultimi cinque anni - avrebbe investito circa 490 milioni di dollari nelle Barbados: una cifra impiegata soprattutto nel settore turistico. Tutto questo, senza poi dimenticare i problemi di politica interna. Al di là del dossier Hong Kong, notizie sconcertanti continuano ad arrivare dallo Xinjiang, dove, secondo quanto riportato ieri dal sito della Bbc, Pechino avrebbe ampliato la sua rete di centri di detenzione per la minoranza uigura: in particolare, stando all'Australian strategic policy institute, si tratterebbe di un incremento del 40% rispetto alle stime precedenti. Tutto questo, mentre - la scorsa settimana -la Catholic News Agency ha riferito che il governo cinese starebbe continuando a incarcerare quei sacerdoti e vescovi cattolici che non vogliono piegarsi al Partito comunista (soprattutto nella regione dello Jiangxi). Per il momento, la linea dura nei confronti della Cina viene mantenuta principalmente dalla Casa Bianca. Martedì scorso, Donald Trump ha parlato alle Nazioni Unite, attaccando frontalmente Pechino sulla questione del coronavirus. Tutto questo, mentre sabato il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha esortato il Vaticano a non rinnovare l'intesa con la Repubblica popolare. In un simile quadro, non si può escludere che - nei prossimi giorni - Washington opti per rinsaldare ulteriormente i propri rapporti con Taiwan: una linea in cui teoricamente la Casa Bianca potrebbe avere al proprio fianco altre nazioni attualmente ai ferri corti con la Cina (dall'Australia all'India). Senza poi contare che, con una simile strategia, Trump non soltanto isolerebbe la Repubblica popolare ma potrebbe anche indirettamente intervenire nei rapporti tra Pechino e la Santa sede. Quest'ultima riconosce infatti formalmente Taiwan. E, qualora lo scontro tra Stati Uniti e Cina dovesse iniziare a vertere principalmente sull'isola, il Vaticano avrebbe più difficoltà a perseguire la propria distensione con il Dragone cinese. Proprio ieri Taipei è tornata a battibeccare del resto con Pechino, dopo che quest'ultima aveva inviato aerei militari verso l'isola: mossa che Taiwan ha definito «una provocazione deliberata». Certo: bisognerà capire se, in caso di sconfitta di Trump a novembre, Joe Biden proseguirà su questa linea di severità verso la Repubblica popolare. Alcuni analisti dicono di sì. In realtà, le cose potrebbero essere molto differenti. Negli anni Novanta, da senatore del Delaware, Biden fu un sostenitore dell'approccio clintoniano alla Cina, secondo cui bisognava essere duri sul versante dei diritti umani ma morbidi in materia di commercio. Fu in tal senso che Bill Clinton - con il voto dello stesso Biden - si adoperò per far entrare Pechino nel Wto: il tutto, con la convinzione che, così facendo, il regime cinese si sarebbe evoluto in senso liberale. Oggi sappiamo che quell'approccio ha fallito. E il fatto che un'eventuale presidenza Biden possa forse rispolverarlo non è esattamente una buona notizia.
Antonella Sberna (Totaleu)
Lo ha dichiarato la vicepresidente del Parlamento Ue Antonella Sberna, in un'intervista a margine dell'evento «Facing the Talent Gap, creating the conditions for every talent to shine», in occasione della Gender Equality Week svoltasi al Parlamento europeo di Bruxelles.